Leggendo gli Essais
sur l’histoire de la mort en Occident di Philippe Ariès, mi è
avvenuto di fare questa ovvia e importante considerazione (tanto
ovvia che non l’avevo mai fatta; e tanto importante da mettere in
moto tutti gli ingranaggi della memoria); che l'esser vissuto —
stando alla misura dantesca — per più di metà della vita in un
paese siciliano piuttosto chiuso e remoto, mi aveva consentito di
vedere un mutamento «des attitudes de l’homme Occidental devant
la mort» che altrove si è svolto in un arco di tempo
addirittura secolare e che, ora dallo storico percepito e analizzato,
è corso impercettibile, inavvertito, attraverso più generazioni.
Non solo dunque ho il ricordo - di meraviglia, di stupore - del
passaggio dal lume a petrolio alla luce elettrica (un senso di
inondazione, di inondazione di luce, la prima sera che girando
l’interruttore si accesero le lampade nella mia e nelle altre
case), dalla carrozza all’automobile, dal grammofono alla radio,
dalla neve che d’estate i carretti portavano dalle «neviere»
montane al ghiaccio fabbricato in paese, dal film muto a quello
(helas!) parlato; ho anche il ricordo del passaggio da un’idea
della morte all’interdetto sulla morte.
Dell’interdetto sulla
morte, della interdizione della morte, è parte dominante quella che
Ariès chiama «medicalisation de l’idée de la vie». E su
questa, ricordando e riflettendo, voglio brevemente intrattenermi.
Negli anni della mia
infanzia, nel paese di contadini e zolfatari in cui vivevo, il
«chiamare il medico» era in corrispondenza col «chiamare il
prete». Il prete si chiamava per far si che il morituro si mettesse
in regola con l’aldilà; il medico perché i familiari restassero
in regola coi conoscenti, coi vicini; insomma, con la società. Che
non si dicesse, imputando la famiglia di disaffezione e insieme di
tirchieria: «non gli hanno nemmeno chiamato il medico». Pertanto,
mentre il chiamare il prete era un fatto di sostanziale importanza,
perché tra il chiamarlo e il non chiamarlo correva per il morituro
la differenza tra un temporaneo soggiorno in purgatorio (di
pochissimi ricordo di aver sentito dire che erano aspettati in
paradiso) e l’eterno arrostirsi nell’inferno, il chiamare il
medico era un atto puramente formale, di convenienza sociale.
S’apparteneva, pirandellianamente, alle regole dell’apparire.
Coloro che lo chiamavano (sempre troppo tardi) a visitare un
ammalato, non credevano che davvero il medico potesse guarirlo (e
infatti, a quel punto, non lo guariva): sicché quando il medico, a
sua volta per stare alla regola, scriveva una ricetta, l’andare ad
acquistare i medicinali era un estremo sacrificare alle apparenze: e
se ne aveva sentimento, risentimento, come di capriccio e sopruso da
parte del medico (da ciò la valutazione di buono, di bravo, al
medico che si limitava a raccomandare cautela di coltri, lavaggi
esterni e intestinali, diete; e la fama di asino appiccicata a quello
che prescriveva medicine). In molti casi, consumato il sacrificio
dell’acquisto, le medicine non venivano somministrate: a timore
«spresciassero» (affrettassero) la fine o che comunque servissero
soltanto a disgustare col sapore e ad agitare di paura (paura di ogni
medicinale che non fosse l’olio di ricino o il chinino) l’ammalato:
e inutilmente. Medici e medicine facevano insomma parte di quel
decoro cui una famiglia si teneva obbligata a dar prova nella morte
di una persona cara; erano elementi di un cerimoniale che preludeva a
quello funerario. Di conoscere la diagnosi, nessuno si preoccupava: e
peraltro quel che diceva il medico non era più chiaro del latino del
prete. E alle cure nessuno credeva. La morte era «muerte y solo
muerte», che s’annunciasse da lontano o improvvisamente
prendesse.
Quando s’annunciava,
quando si sentiva, quando non arrivava «subitanea», e cioè
inaspettata, improvvisa, (l’augurare «morte subitanea» era
massima espressione di odio), la morte non veniva nascosta a chi ne
sarebbe stato preda. L’ammalato veniva informato del suo stato:
affinché si preparasse. Quando poi, dal respiro che si faceva
rantolo, si avvertiva che stava cominciando l’agonia, c’erano gli
estremi saluti e le estreme raccomandazioni tra i familiari e il
morente. E le raccomandazioni non andavano soltanto dal morente ai
familiari, ma anche dai familiari al morente. Gli raccomandavano di
cercar d’incontrare, tra le anime sante del purgatorio, quel tale
parente da poco o da tanto morto: e a volte di dargli anche notizie
di avvenimenti familiari e messaggi di questo tipo: che continuavano
a fargli dire messe; che intercedesse, a conto di quando sarebbero
morti, per la salvezza della loro anima... Di ciò io mi ricordo
vagamente, come di una usanza in via di sparizione che i miei
dicevano sciocca e crudele: poiché già cominciava ad agire
l’interdizione, dentro quelle categorie sociali che con invidia e
diffidenza i contadini dicevano «alletterate», e cioè letterate:
il che si riduceva a volte al saper leggere il giornale o a scrivere
una lettera. Ma un mio amico, di un paese vicino al mio (Delia, in
provincia di Caltanissetta), di tale usanza ha viva (e ora terribile)
memoria; e ricorda anche, non come aneddoto sentito raccontare ma
come precisa cronaca, che sul punto di spirare, ai familiari e ai
vicini che lo incaricavano di portare notizie e messaggi ai parenti
morti, un vecchio trovò fiato e spirito per dire: «scrivetemeli su
dei biglietti, ché se no me scordo». E anche questo aneddoto può
servire a segnare il tramonto dell’usanza, se attendibilmente lo si
può collocare alla fine degli anni venti (1928-29). La reazione
«spiritosa» - o che cosi fu intesa - del morente, dimostra che
quella idea della morte cominciava a diventare insopportabile.
da La medicalizzazione della vita in Cruciverba, Einaudi, 1983
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