Sul
“manifesto” Zvi Schuldiner, a vent'anni dall'assassinio
dell'allora primo ministro israeliano Yitzhak Rabin, decostruisce
l'immagine di un Rabin favorevole alla creazione di un Stato
palestinese e cerca di spiegare le ragioni del mito costruito intorno
alla sua persona. (S.L.L.)
In
questi giorni Rabin è un mito. Ma molto lontano dalla realtà.
È
fonte di amarezza il fatto che molte persone si siano recate alla
cerimonia principale a Tel Aviv non tanto per commemorare quanto
nell'illusione che rinnovare il mito contribuisca a far penetrare una
tenue speranza nello spirito di chi vede in questi giorni un capitolo
nero, suscettibile di condurre a un finale tragico.
Il
governo di Netanyahu è incapace di rispondere ai fatti delle ultime
settimane. Gli attacchi palestinesi hanno creato un panico generale
ingiustificato alimentando la politica della paura. Come abbiamo già
segnalato sul manifesto, la reazione governativa si limita a
immaginare soluzioni di forza senza alcuna reale alternativa
politica.
L'estrema
destra ha gettato altra benzina sul fuoco e l'incendio si è
generalizzato: ogni palestinese israeliano o di Gerusalemme o dei
territori occupati è diventato un possibile attentatore. Di
conseguenza, ogni palestinese è un possibile obiettivo delle «forze
di sicurezza» e delle orde fasciste che crescono ogni giorno che
passa. Qualunque palestinese voglia prendere un autobus o recarsi al
lavoro deve aver paura di essere attaccato o quantomeno sospettato.
Così, può aspettarsi nella migliore delle ipotesi botte da orbi, e
nella peggiore, di essere ferito o ucciso. Anche un israeliano ebreo
è stato ucciso per sospetto... «Stiano all'erta tutti i soldati, i
poliziotti, i cittadini», ripetono i nostri saggi ministri; e così
gli isterici che ascoltano, per paura o per fare gli eroi si mettono
a sparare contro innocenti, e ad arrestare ogni cittadino palestinese
come persona sospetta.
Quando
il primo ministro Netanyahu scagiona Hitler (here
in English, ndr) dalla responsabilità di aver concepito e messo in
opera l'eliminazione degli ebrei, gettando la colpa sul Muftì
dell'epoca, è evidente che non lo fa per ignoranza. Il suo messaggio
agli israeliani è chiaro e semplice: tutti gli arabi e i musulmani
sono nazisti, assassini potenziali. Perciò con loro è impossibile
trattare.
L'incendio si allarga e l'opposizione non dà prova di avere forza
reale né fa udire una voce chiara e diversa.
Davanti
alla disperazione di tanti, è evidente che far resuscitare il mito
di Rabin è una necessità a livello politico pubblico e a livello
psicologico individuale.
Rabin
fu il grande generale della vittoria del 1967. Poco dopo, ritiratosi
dall'esercito, fu ambasciatore negli Stati Uniti, mostrando una
grande ammirazione per Henry Kissinger — e non è necessario qui
soffermarsi sulla natura criminale dell'operato politico di
quest'ultimo.
La
guerra del 1973 fu dura e richiese un grande prezzo in termini di
soldati isralieliani uccisi, rendendo evidente che la leadership dei
vecchi laburisti se ne doveva andare.
Rabin,
il brillante generale che doveva cambiare l'immagine di una
leadership screditata, diventa primo ministro per la prima volta nel
1974. Sono gli ultimi giorni di potere di una socialdemocrazia
svilita; è un periodo pieno di casi di corruzione. Nel 1977 Rabin si
dimette e i laburisti perdono le elezioni. Il generale è un buon
amico di altri generali. Alcuni sono alquanto problematici, come
quelli della dittatura argentina, altri sono come Ariel Sharon, il
ministro della difesa che nel giugno 1982 dà avvio alla guerra del
Libano e si avvale dei consigli di Rabin, veterano di una guerra
vittoriosa.
Nel
1984, il Likud e il Partito laburista si vedono obbligati a formare
un governo di coalizione, con Peres come primo ministro per due anni.
Gli succede Shamir del Likud, ma il posto di ministro della difesa
viene assicurato a Rabin per i quattro anni di durata della
coalizione.
È il
Rabin della repressione della prima Intifada, dell'ordine di
«spaccare le ossa ai manifestanti», della chiusura delle scuole per
oltre un anno.
Rabin
era parso poi arrivare a concepire un futuro nel quale Israele non
esercitasse un predominio diretto sui palestinesi. Al tempo stesso fu
sempre lontano dalla visione di uno Stato palestinese indipendente e
molto vicino a una visione di autonomia, o di territori palestinesi
sotto il controllo della Giordania.
Alla
firma degli accordi di Oslo, le mosse del governo israeliano non
erano abbastanza chiare da far pensare che Israele volesse una pace
duratura. Rabin non sembrava disposto ad adottare la formula dei due
Stati per due popoli.
Le
tante contraddizioni del processo di pace saltavano agli occhi. Oslo
sembrava una promessa di un futuro migliore, ma al tempo stesso il
processo con tutta evidenza non appariva molto favorevole a una vera
pace. La durezza dell'occupazione e le confische delle terre
palestinesi proseguivano.
Rabin
non sembrava disposto ad affrontare con decisioni anche drammatiche
la difficile realtà dell'occupazione. Nel febbraio 1994, quando
Baruch Goldstein, un criminale estremista, medico nella colonia di
Kiriat Arba, vicino a Hebron, entrò nella tomba del patriarca a
Hebron assassinando ventinove palestinesi, la repressione
dell'esercito arrivò a uccidere oltre dieci palestinesi che
protestavano contro il massacro, e Rabin negò l'espulsione dalla
città di Hebron di cinquecento coloni israeliani che da tempo
fomentavano l'odio con continue provocazioni.
Quale
sarebbe la famosa eredità di Rabin di cui tanti si riempiono la
bocca? È molto difficile saperlo, dal momento che lo stesso Rabin
non si espresse mai chiaramente a favore della formula dei due Stati,
né sostenne mai la creazione di uno Stato palestinese.
In
effetti, se in occasione del comizio al quale partecipava il giorno
del suo assassinio, egli sembrava sbilanciato in favore di un
progetto di pace, non era tuttavia chiaro il prezzo che fosse
disposto a pagare in termini di territorio, né la formula reale che
intendesse applicare.
La morte violenta
lo trasformò in un martire al servizio della pace.
Negli
anni successivi, fu quasi dimenticato. Uno studente con il quale ho
discorso negli ultimi giorni non sapeva quali incarichi e quale
storia avesse avuto Rabin, e quale fosse il reale significato del suo
assassinio, decretato dagli estremisti di destra nel corso di una
campagna crudele — nella quale si fece notare anche l'attuale
premier Netanyahu.
L'«eredità»
non è chiara, e oggi davanti alla mancanza di una vera leadership
alternativa, tocca all'ex presidente Bill Clinton (!) parlare nella
cerimonia centrale di commemorazione, con una sinistra e un mondo
pacifista profondamente debilitati, e mentre in molti si chiedono se
il processo non stia arrivando a esiti tragici. Vent'anni dopo, la
mera possibilità dell'eredità di Oslo sembra in grado di ispirare
un po' di ottimismo, in questo periodo nerissimo della storia di
Israele.
Non è
solo la questione della pace: la strada che porta a un possibile
trionfo del fascismo, con un'alleanza tra fondamentalisti e
nazionalisti, mette in pericolo le componenti della società
israeliana e allontana in modo drammatico le possibilità di
intraprendere un cammino pacificatore che ponga fin al conflitto
israelo-palestinese.
“il
manifesto”, 4 novembre 2015
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