Il professor Luciano
Gallino, uno dei maggiori esperti del rapporto tra nuove tecnologie e
formazione, nonché delle trasformazioni del mercato del lavoro, è
morto l'8 novembre. Era stato pubblicato su “Repubblica” un
estratto dal suo ultimo libro, Il denaro, il debito e la doppia
crisi spiegati ai nostri nipoti
(Einaudi), che qui
riprendo. (S.L.L.)
Quel che vorrei provare a
raccontarvi, cari nipoti, è per certi versi la storia di una
sconfitta politica, sociale, morale: che è la mia, ma è anche la
vostra. Con la differenza che voi dovreste avere il tempo e le
energie per porre rimedio al disastro che sta affondando il nostro
paese, insieme con altri paesi di quella che doveva essere l’Unione
europea. A ogni sconfitta corrisponde ovviamente la vittoria di
qualcun altro. In realtà noi siamo stati battuti due volte.
Abbiamo visto scomparire
due idee e relative pratiche che giudicavamo fondamentali: l’idea
di uguaglianza e quella di pensiero critico. Ad aggravare queste
perdite si è aggiunta, come se non bastasse, la vittoria della
stupidità. L’idea di uguaglianza, anzitutto politica, si è
affermata con la Rivoluzione francese. Essa dice che ogni cittadino
gode di diritti inalienabili, indipendenti dal suo censo o posizione
sociale, e ogni governo ha il dovere di adoperarsi per fare in modo
che essi siano realmente esigibili da ciascuno.
La marcia di tale idea è
stata per oltre due secoli faticosa e incerta, ma nell’insieme ha
avuto esiti straordinari. La facoltà di eleggere i propri
rappresentanti in Parlamento; la formazione di sindacati liberi; la
graduale estensione del voto sino a includere tutti i cittadini; la
tassazione progressiva; l’ingresso del diritto nei luoghi di
lavoro; l’istruzione libera e gratuita per tutti sino
all’università; la realizzazione dello stato sociale; i limiti
posti alle attività speculative della finanza: è una lunga storia,
quella che vede il principio di uguaglianza diventare vita quotidiana
per l’intera popolazione.
Due periodi furono
specialmente favorevoli a tale marcia: gli anni Trenta sotto la
presidenza Roosevelt, negli Stati Uniti, che videro un grande
rafforzamento dei sindacati e una severa regolazione della finanza, e
i primi trent’anni dopo la Seconda guerra mondiale, in quasi tutti
gli Stati europei, Italia compresa. Poi, sul finire degli anni
Settanta, la ristretta quota di popolazione che per generazioni aveva
subito l’attacco dell’idea e delle politiche di uguaglianza
decise che ne aveva abbastanza.
Si tratta della classe
dei personaggi superpotenti e super- ricchi che controllano la
finanza, la politica, i media, che dopo i moti di piazza anti Wall
Street di anni recenti si usa stimare nell’1 per cento: un dato che
le statistiche sulla distribuzione della ricchezza confermano. Essa
iniziò quindi un feroce quanto sistematico attacco a qualsiasi cosa
avesse attinenza con l’uguaglianza, previa una preparazione che
risaliva addirittura agli anni Quaranta. (…)
Quando parlo di pensiero
critico, che costituisce la perdita numero due, mi riferisco a una
corrente di pensiero che oltre al soggiacente ordine sociale mette in
discussione le rappresentazioni della società diffuse dal sistema
politico, dai principali attori economici, dalla cultura dominante
nelle sue varie espressioni, dai media all’accademia.
La tesi da cui tale
corrente è (o era) animata è che le rappresentazioni della società
predominanti in un paese distorcono la realtà al fine di legittimare
l’ordine esistente a favore delle élite o classi che
formano tra l’1 e il 10 per cento della popolazione. È una tesi
che ha una lunga storia. È stata formulata tra i primi da
Machiavelli; ha toccato un vertice di spessore e complessità con
Marx e poi con la teoria critica della società, elaborata dalla
Scuola di Francoforte tra gli anni Venti e Cinquanta; si è
prolungata in Italia con Gramsci e in Francia con Bourdieu e
Foucault, sin quasi ai giorni nostri.
La suddetta tesi trova
una clamorosa conferma nella società contemporanea, a cominciare
dalla nostra. La rappresentazione di quest’ultima che vi propongono
i giornali, la Tv, i discorsi dei politici, le scienze economiche, la
stessa scuola, l’università, sono soltanto contraffazioni della
realtà, elaborate a uso e consumo delle classi dominanti. È la
funzione che svolgono quotidianamente le dottrine neoliberali. E guai
se uno osa contraddirle.
Il richiamo alle
distorsioni che l’enorme aumento della disuguaglianza ha prodotto
in campo sociale, politico, morale, civile, intellettuale viene
confutato con l’idea che l’arricchimento dei ricchi solleva tutte
le barche – laddove un minimo di riguardo all’evidenza empirica
mostra che nel migliore dei casi, ha scritto un economista americano,
esso solleva soltanto gli yacht. (…)
Al posto del pensiero
critico ci ritroviamo, come si è detto, con l’egemonia
dell’ideologia neoliberale, la sua vincitrice. È un’ideologia
strettamente connessa all’irresistibile ascesa della stupidità al
potere.
È l’impalcatura delle
teorie e delle azioni che prima hanno quasi portato al tracollo
l’economia mondiale, poi hanno imposto alla Ue politiche di
austerità devastanti per rimediare a una crisi che aveva tutt’altre
cause – cioè la stagnazione inarrestabile dell’economia
capitalistica, il tentativo di porvi rimedio mediante un
accrescimento patologico della finanza, la volontà di riconquista
del potere da parte delle classi dominanti. Oltre alla crisi
ecologica, che potrebbe essere giunta a un punto di non ritorno.
Resta pur vero che senza
l’apporto di una dose massiccia di stupidità da parte dei
governanti, dei politici, e ahimè di una porzione non piccola di
tutti noi, le teorie economiche neoliberali non avrebbero mai potuto
affermarsi nella misura sconsiderata che abbiamo sott’occhio. (…)
Pensate a quanto è
successo nell’autunno 2014. All’epoca i disoccupati sono oltre
tre milioni. I giovani senza lavoro sfiorano il 45 per cento. La base
produttiva ha perso un quarto del suo potenziale. Il Pil ha perso
10-11 punti rispetto all’ultimo anno prima della crisi. E che fa il
governo? Si sbraccia allo scopo di introdurre nella legislazione sul
lavoro nuove norme che facilitino il licenziamento, riprendendo idee
e rapporti dell’Ocse di almeno vent’anni prima. Come non
concludere che siamo dinanzi a casi conclamati di stupidità? (o
forse di malafede: discutere di come licenziare con meno intralci
legali è anche un modo per non discutere dei problemi di cui sopra.
Lascio a voi il giudizio).
“la Repubblica”, 16
ottobre 2015
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