«Come
mi accorgo che sto morendo?». La domanda di Marianna è brutale e
innocente, come solo un malato terminale può essere. E una donna che
sa di non avere più tempo, dopo che un tumore le ha mangiato
diciotto mesi di vita. L’ultimo analgesico è più forte, lo ha
chiesto lei e i medici hanno acconsentito. Meno di due giorni dopo
aver fatto quella domanda se n’è andata.
Marianna
è il nome di fantasia di una storia vera, una delle migliaia che
ogni giorno, in rispettoso silenzio, accadono in Italia. L’eutanasia,
la “buona morte”, nel nostro Paese è ancora un tabù
inviolabile. Sotto un’unica parola finiscono dentro casistiche
molto diverse: quella attiva diretta (la somministrazione di farmaci
che provocano la morte), quella attiva indiretta (quando mezzi usati
per alleviare il dolore, come gli analgesici, comportano una morte
più rapida), quella passiva (quando vengono interrotti alcuni
trattamenti medici, come l’alimentazione forzata, che tengono in
vita il paziente). Hanno in comune una cosa: la legge italiana le
vieta, equiparandole all’omicidio volontario o all’omicidio del
consenziente, reato che prevede pene da 6 a 15 anni. Ecco perché
quasi nessun medico ammette senza paura pratiche diffuse come
sospensione dei trattamenti, sedazioni terminali, ordini di non
rianimazione.
«L’eutanasia
passiva e quella indiretta vengono praticate tutti i giorni»,
racconta apagina99 un’anestesista con 30 anni di esperienza che
preferisce rimanere anonima. «Spesso sono i pazienti che me lo
chiedono, a volte i familiari. E allora mi astengo dal fare certe
cose. Do loro la morfina per contenere il dolore, la benzodiazepina
per farli dormire. Oppure do acqua e zucchero, così non interrompo
l’alimentazione obbligatoria e allo stesso tempo li aiuto a
lasciarli morire».
Nel
2010, lo studio National survey of medical choices in
caring far terminally ill patients in Italy ha
confermato come in Italia un dottore su due che lavora con pazienti
terminali abbia ricevuto almeno una richiesta di interruzione della
terapia, e al 23% sia stata chiesta la somministrazione di farmaci
letali. Ma se l’eutanasia attiva rimane poco praticata (tra lo 0,5
e il 2% dei casi), quelle indirette e passive avvengono di continuo.
«Quando
arriva in reparto un malato di Sla in crisi respiratone lo ventilo
manualmente e mi faccio dire davanti a testimoni se vuole essere
intubato, perché in quel caso vivrà per sempre attaccato a una
macchina», racconta un dottore a pagina99. «Se lui rifiuta
l’intubazione devo avere il coraggio di non fare più niente. Gli
lascio la mascherina con ossigeno, gliene do più del dovuto, così
va in apnea e smette di respirare. Muore addormentato, senza
soffrire. Si può chiamare eutanasia questa? L’ho ammazzato? O gli
ho evitato una sofferenza inutile? Si guarda sempre il lato legale e
non la volontà di chi soffre. Una paziente mi maledice ogni giorno
per averla intubata. I parenti l’hanno convinta a farsi attaccare
al ventilatore. E io ho fatto così».
Secondo
l’Istituto Mario Negri di Milano, circa 90 mila malati terminali
muoiono ogni anno. Il 65% di questi pazienti, aggiunge l’Associazione
Luca Coscioni, si fa aiutare dai medici per smettere di soffrire. Gli
inglesi la chiamano euthanasia by the back door, “della porta sul
retro”. Da noi gli è stata affibbiata un’etichetta ancora più
infamante: eutanasia clandestina. «L’ipocrisia è che si tratta
solo di una questione terminologica. Se parli di eutanasia ti mettono
in galera», spiega a pagina99 un medico rianimatore. «Tanti
pazienti mi chiedono di farla finita. Li tranquillizzo, faccio finta
di non vedere ma li aiuto a esaudire le loro volontà. Il personale
sanitario viene colpevolizzato, siamo considerati assassini. Viviamo
il dramma di queste scelte in solitudine».
In
America Brittany Maynard, una ragazza 29enne con un tumore al
cervello, ha deciso di morire alle sue condizioni. Le hanno dato sei
mesi di vita tra atroci sofferenze. Così ha scelto di andarsene il 1
novembre, dopo il compleanno del marito. L’Oregon è uno dei cinque
Stati americani dove i malati terminali possono porre fine alla
propria esistenza grazie al Death with Dignity,
la proposta di legge che consente di «morire con dignità».
Secondo
l’Eurispes, il 64,6% degli italiani è favorevole all’eutanasia
(Rapporto Italia 2013). Eppure nel nostro Paese non si riescono a
mettere dei paletti legislativi. La prima proposta di legge risale al
1984. Negli ultimi 10 anni ci sono stati 11 abbozzi di legge
bipartisan, tutti finiti nel dimenticatoio. Nel settembre 2013 una
proposta di iniziativa popolare, voluta dall’associazione Coscioni,
è stata sotto-scritta da quasi 70 mila firme e depositata alla
Camera, dove è ancora arenata da più di un anno. I punti chiave del
testo sono la depenalizzazione del reato di eutanasia volontaria,
richiesta da paziente con malattia incurabile e aspettativa di vita
inferiore ai 18 mesi, e il pieno valore legale del testamento
biologico. Quest’ultimo, allo stato attuale, somiglia al registro
delle unioni civili. Tanti Comuni, circa 120, lo hanno istituito, ma
finché una legge non lo regolarizza non ha alcun valore legale. Al
momento esistono altri tre disegni di legge sul tema, tutti nemmeno
arrivati all’esame delle commissioni parlamentari.
In
Europa, invece, la mappa dell’eutanasia è molto eterogenea. Paesi
Bassi, Svezia e Belgio l’hanno legalizzata. Un caso a sé è la
Svizzera, dove è consentito anche il suicidio assistito in strutture
apposite. Ed è lì, tra le montagne alpine, che molti italiani
stanno andando a morire. Nel 2013 sono stati almeno 50, secondo i
dati dell’associazione Exit Italia.
In
Italia, invece, la situazione è ferma. A giugno hanno fatto scalpore
le parole di Giuseppe Maria Saba, ex medico anestesista in pensione,
che in un’intervista ha dichiarato di aver aiutato a morire un
centinaio di malati: «La dolce morte è una pratica consolidata
negli ospedali italiani, ma per ragioni di conformismo non se ne
parla». Le stesse cose le aveva dette Umberto Veronesi nel 2005,
quando ammise che l’eutanasia clandestina in Italia esiste da anni.
«Farmaci comuni in rianimazione come Ipnovel, Propofol o Talofen,
hanno effetti sedativi che variano molto a seconda di differenze
minime di dosaggio», spiega un giovane dottore a “pagina99”.
«Alcuni colleghi tendono a prolungare la vita al limite
dell’accanimento, altri sono più propensi a evitare lo strazio di
una malattia ai degenti terminali».
Pochi
mesi fa il professor Mario Sabatelli, neurologo del Policlinico
Gemelli di Roma, ha dichiarato: «I miei pazienti in fin di vita
possono scegliere se continuare a vivere attaccati a una macchina o
essere lasciati andare». Il fatto che lavori in un ospedale
cattolico ha amplificato l’eco delle sue parole. «L’influenza
della Chiesa è soprattutto politica», spiega un’anestesista. «Il
consiglio più bello me lo ha dato proprio un prete. Mi ha regalato
un libro intitolato Dalla parte del paziente
e mi ha detto di mettermi a disposizione della loro volontà. Quella
è l’unica cosa che conta».
“pagina
99 we”, 1 novembre 2014
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