Non condivido tutto di
questo provocatorio saggio scritto dieci anni fa.
Mi pare che il giudizio sull'opera di Pasolini che si legge in controluce in questo testo dedicato al “mito Pasolini” sia alquanto ingeneroso; in particolare mi pare da discutere l'idea di un rapporto “selvaggio” con la cultura.
Trovo inoltre piuttosto improbabile una fungibilità di codesto mito da parte della “destra” così com'è diventata e non mi convince la tesi – rilanciata da Belpoliti negli anni scorsi – di una morte che affonda le sue radici esclusivamente nella vita privata.
Mi pare che il giudizio sull'opera di Pasolini che si legge in controluce in questo testo dedicato al “mito Pasolini” sia alquanto ingeneroso; in particolare mi pare da discutere l'idea di un rapporto “selvaggio” con la cultura.
Trovo inoltre piuttosto improbabile una fungibilità di codesto mito da parte della “destra” così com'è diventata e non mi convince la tesi – rilanciata da Belpoliti negli anni scorsi – di una morte che affonda le sue radici esclusivamente nella vita privata.
E tuttavia la lettura del
mito Pasolini mi pare acuta e la individuazione delle sue componenti corretta,
utile in ogni caso a spiegare l'insopportabile melassa e la riduzione
a “santino” che si sono viste all'opera in tante celebrazioni
mediatiche del quarantennale. (S.L.L.)
Vorrei partire dalla
definizione di «mito» che viene data da Roland Barthes in
Mythologies: il «significato mitico» si ha quando il
significante e il significato di un’icona culturale diventano a
loro volta il significante di qualcosa di più vasto, che è per
l’appunto un «mito». L’esempio che lui dà è l’immagine di
un soldato nero che saluta la bandiera francese: il significante (il
colore della pelle e la divisa del legionario, il bianco il rosso e
il blu eccetera) e il significato esplicito (appunto un ragazzo delle
colonie che si è arruolato nell’esercito francese) diventano a
loro volta il significante di un significato più vasto e impreciso
(la lealtà delle colonie, l’universalità dei valori di libertà
uguaglianza fraternità, la sicurezza un po’ paternalistica del
vecchio colonialismo) che costituisce il mito della «superiorità
francese».
Se proviamo ad applicare
questa nozione all’immagine di Pasolini, ecco che abbiamo, come
«significante», la sua opera intera, sia letteraria che
cinematografica e pittorica, ma anche le fotografie che lo
ritraggono, o gli spezzoni di video in cui compare; come
«significato», quello di uno degli intellettuali più intelligenti
e coraggiosi della seconda metà del Novecento in Italia, le tesi che
ha sostenuto, la bellezza che è riuscito a creare, ma anche un uomo
nevrotico e contraddittorio, e un artista che ha spesso sprecato il
suo talento in testi ridondanti e non esenti dal kitsch. Tutte queste
cose, significante e significato, diventano a loro volta il
significante di quel «mito Pasolini» che si è cristallizzato in
Italia durante trent’anni, e di cui cercherò di analizzare le
componenti. [...]
La prima componente del
«mito Pasolini» è certamente quella della poesia
assassinata dalla società. Le parole che Moravia gridò al
funerale («La poesia è una cosa rara, e hanno assassinato un
poeta») hanno smesso di essere l’omaggio commosso da parte di un
amico che sapeva di appartenere a una razza completamente diversa e
che presentava le armi a questa diversità, e sono diventate la
pietra angolare di un edificio mitico. Pasolini è diventato, per la
massa, il «Poeta» per antonomasia; e i Poeti, si sa, devono essere
assassinati. La poesia (nell’immaginario massificato) non esiste
più nel mondo contemporaneo: sono i «poeti estinti» che Robin
Williams, professore improbabile, fa amare a una classe del 1959, o
sono le metafore che in uno sperduto paesetto di mare Neruda insegna
a un postino. Pasolini, Poeta assassinato, ci vendica della
spoetizzazione del mondo. Pasolini ha disseminato la poesia anche
fuori dai suoi versi, aveva il «fisico» del Poeta. Non importa
quello che ha scritto. Pasolini ci regala la soddisfazione di amare
la poesia senza la noia di leggerla.
La seconda componente del
mito è la certezza che esistono i profeti, che intuiscono e
vedono per noi. «Che direbbe di questo Pasolini?». «Ah, se ci
fosse ancora Pasolini!», si sente invocare spesso, anche sugli
autobus o in coda per la posta. Di nessun altro scrittore, in Italia,
si sente dire (forse qualche volta di Sciascia, ma solo nelle feste
al Salone del libro). In realtà Pasolini non ha previsto
praticamente niente del futuro italiano e mondiale: il «Processo»
al Palazzo non prefigura Mani Pulite, è piuttosto una riscrittura di
Todo modo con altri mezzi; dell’omologazione e della
Borghesia Totale avevano già parlato i francofortesi; sulla rovina
ecologica e sullo strazio dei monumenti avevamo letto Cederna. Là
dove ha azzardato delle profezie (le meraviglie dell’Unione
Sovietica negli anni Novanta, la sparizione delle differenze locali,
la fine della religione, il benessere occidentale uniformemente
crescente) le ha generalmente sbagliate, com’è giusto e umano.
Lui, certo, ha visto con straordinaria precocità cose che stavano
già accadendo, e le ha viste con quella chiarezza e quella prontezza
perché per lui non erano solo dati sociologici, erano questione di
vita o di morte. Ma il mito di massa preferisce pensare che in lui
fosse all’opera, invece che un’ossessione dolorosa, una
misteriosa capacità di veggente (forse da relazionare, ancora una
volta, con la Poesia Mitica). Se ci sono i Profeti, noi possiamo
smettere di sforzarci.
La terza componente del
mito è quella del coraggio delle proprie idee, fino alla morte.
Pasolini ha affrontato uno scandalo dopo l’altro, un processo dopo
l’altro; si è fortificato con gli scandali (visto che all’inizio
non ha potuto evitarli), e ha accettato una continua accelerazione
della propria vita. Coraggiosamente, certo, ma anche inevitabilmente.
Ha detto quello che pensava su riviste e giornali, senza temere
inimicizie; e la situazione dei media era tale che una singola voce
poteva ancora farsi sentire. Pasolini ha dato spesso l’impressione
di combattere a mani nude contro il Potere. Ma non sarebbe morto per
quello: l’apologo di Porno Teo Kolossal, del poeta che col
suo pessimismo disperato spinge tutti gli altri a morire, ed è il
solo che non muore, ha una grana oscuramente e atrocemente
autobiografica. Le ragioni del suo assassinio sono probabilmente da
ricercare nei rischi della sua vita privata. Invece il mito di massa
preferisce la tesi del complotto politico, è bello avere anche da
noi un martire come quelli che possono vantare la Birmania o il
Sudamerica. Pasolini è l’eroe morto per le sue idee, non quelli
che davvero sono stati fatti fuori dalla mafia. Potenza del mito.
La quarta componente è
la prova che basta la passione per capire. Pasolini pensava
«con amore»; pensava in grande, senza perdersi nell’erudizione e
nelle minuzie. Ha divulgato sui media concetti semplici. «Usava» la
cultura, rubacchiava qua e là. Per la sua ossessione erotica, non
aveva «sublimato» la cultura facendola diventare carne della sua
carne, sangue del suo sangue (leggete le lettere di Primo Levi, o di
Leone Ginzburg, per capire cosa intendo); era rimasto un «selvaggio»,
e se ne vantava; per lui la cultura era una pellicola che si poteva
staccare dalla vita a piacimento. Esattamente come sta facendo il
desiderio consumistico; in questo senso, Pasolini non era un
avversario del consumismo, ne era un modello. Questo segmento del
«mito Pasolini» dà a chi lo coltiva la soddisfazione di avere
delle opinioni forti senza bisogno di controllarle sui libri. (E
senza pagare questo vantaggio col peso di un’ossessione erotica,
come invece violentemente lo pagava Pasolini).
La quinta componente,
anche se può apparire paradossale in un paese sostanzialmente
omofobo come l’Italia, è proprio l’omosessualità esemplare
di Pasolini. Pasolini non ha mai nascosto la sua omosessualità,
almeno a partire da una certa data. Ma l’ha sempre declinata molto
«virilmente»: il suo disprezzo per le «checche» traspare in tutti
i suoi romanzi, da Ragazzi di vita a Petrolio. Non ha
mai preso posizioni da omosessuale militante. È stato, insomma, un
«omosessuale a cui si può stringere la mano». E soprattutto,
essenziale per il nostro mito di massa, l’ha pagata. È un eroe,
d’accordo, ma un eroe che ha una magagna, e a cui possiamo sentirci
superiori. Da perfetto capro espiatorio, ha peccato ed è stato
punito per tutti. Questo segmento del mito dà la soddisfazione di
sentirsi tolleranti, e superiori in qualcosa a un mito.
La sesta e ultima
componente, tra quelle che posso far emergere in una riflessione
superficiale come la mia, è la testimonianza che si stava meglio
prima. Anche questa apparentemente paradossale, in uno
sperimentatore inesausto e in un rivoluzionario in pectore come
Pasolini. Ma il «colore» in cui il mito Pasolini si trova immerso è
certamente il colore della nostalgia; nostalgia della sua nostalgia,
nostalgia per gli anni Sessanta, nostalgia per i suoi ragazzi di
vita. Tutti a dire che i suoi sottoproletari erano adorabili mentre
quelli di adesso fanno schifo; ma chi lo dice avrebbe trovato che
facevano schifo anche quelli di una volta, se solo ci fosse capitato
in mezzo. Forse come ogni mito, anche quello di Pasolini è un modo
per evadere dal Tempo.
Il mito Pasolini è,
politicamente, un mito trasversale. Mentre il mito Pavese, fin che è
durato, era tipicamente un mito di sinistra, il mito Pasolini è
bipartisan. La televisione può fare trasmissioni su Pasolini senza
doverle ascrivere a una parte politica, non ha bisogno di
controbilanciarle per par condicio.
I fruitori di massa del mito sono rassicurati dal sapere che tra gli
ammiratori di Pasolini ci sono intellettuali di destra e di sinistra,
da Goffredo Fofi a Marcello Veneziani. La sua situazione bipartisan
lo rende particolarmente caro agli assessori alla cultura, perché è
un fiore all’occhiello e un sicuro richiamo: le piazze si riempiono
e se qualcuno si oppone in Consiglio ci fa lui una brutta figura.
Lo amano i parlamentari e
i rivoluzionari eversivi. Lo amano a destra perché ce l’aveva coi
capelloni e con gli studenti che occupavano le università, e perché
negli ultimi anni esaltava la disciplina. Perché era atletico e
giocava a calcio, lo confondono con Mishima. Lo amano a sinistra
perché era un compagno di strada, una «coscienza critica»; perché
era pieno di contraddizioni, perché era gay; perché era un po’
antiquato e predicava Gramsci. Lo ama Maurizio Costanzo, perché era
un supergiornalista che aveva scoperto le borgate, e perché vendeva
al «Corriere» una cultura che di solito i giornali non possono
permettersi. Lo amano i cineasti, perché non apparteneva alla
confraternita. Lo amano i registi teatrali, perché «fa colto» ma
mettendolo in scena si possono mostrare i corpi nudi. Nudo e poesia.
Il suo mito può contare,
insomma, su quelli che in Italia promuovono la cultura.
Che fare? Difendere
Pasolini dal suo mito? Rimproverare a Pasolini di essersi
«prefabbricato» per il mito (certo, fin dalle infantili imitazioni
cristologiche, c’era in lui una vocazione all’esibizione
«corporale» molto più forte di un semplice esibizionismo
nevrotico, qualcosa che stava più vicino al teatro e alla santità,
in un triangolo approssimativo tra Artaud, Karol Wojtyla e Marilyn)?
Auspicare che in tivvù, invece di cervellotici documentari in cui
una telecamera posta sul lunotto posteriore di un’auto mostra
strade in fuga, mentre a squarci Pasolini pronuncia frasi pensose
tratte dalle sue interviste, si vada a leggere e a discutere
seriamente l’opera sua? Temo che il mito e la critica tengano
strade diverse, o addirittura appartengano a mondi separati. C’è
un Pasolini che appartiene ai letterati italiani, e un Pasolini che
appartiene a un microcapitolo di storia delle religioni. E non è
affatto detto che il Pasolini del mito, tra i due, sia il meno
interessante.
da «Micromega», 6,
2005, ora nel sito Le parole e le cose 2 novembre 2015
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