Il testo è una versione,
ridotta dall'autore, della relazione tenuta da Romano Luperini al
convegno su La parola mi tradiva. Letteratura e crisi,
svoltosi a Perugia, il 6 e 7 novembre 2015, nella Biblioteca
di san Matteo degli Armrni. È ripresa dal blog “La letteratura e
noi”, che il noto italianista dirige.
Una periodizzazione e
storicizzazione che, come quella qui presentata, arriva fino ai
nostri giorni, va sempre letta come una ipotesi di lavoro, con
giudizi da verificare e buchi da riempire; ma il testo di Luperini a
me sembra anche un capolavoro di acume critico e di sintesi.
E' proprio da leggere, almeno per gli appassionati delle belle lettere. (S.L.L.)
Il complesso di San Matteo degli Armeni a Perugia |
1.
La modernità è crisi, trasformazione
rapida e continua. Questa coincidenza fra modernità e crisi può
indurre a genericità e approssimazioni. Perciò preciso subito che
quando qui parlo di modernità mi riferisco all’epoca storica che è
cominciata con la rivoluzione industriale e con l’affermazione
economica e politica della borghesia e del sistema capitalistico e si
prolunga sino ai nostri giorni.
Dalla fine del Settecento a oggi il
moderno ha conosciuto alcuni momenti più acuti di crisi economica,
sociale e culturale, con qualche sfasatura fra questi tre livelli e
nel modo in cui essi si sono presentati nelle diverse nazioni
occidentali, ma anche, alla lunga, e almeno in un panorama colto da
lontano, con una loro sostanziale convergenza. Negli ultimi due
secoli si succedono tre momenti di rottura e di più profondo
cambiamento: quello iniziale del romanticismo, quello della modernità
matura e del modernismo e infine quello del postmoderno o della
globalizzazione. Il postmoderno, o globalizzazione che dir si voglia,
è insomma una fase della modernità, non una epoca nuova, a essa
successiva e alternativa.
Si tratta di tre fasi diverse, che
durano diversi decenni ciascuna e all’interno delle quali è
possibile distinguere a loro volta periodi diversi. Per esempio,
all’interno dell’ultima fase, quella del postmoderno e della
globalizzazione, si può distinguere il periodo del postmodernismo da
quello più recente che alcuni chiamano ipermoderno. Il postmoderno,
insomma, continua ancor oggi mantenendo i caratteri sostanziali che
lo definiscono ma anche progressivamente cambiandone alcuni e
assumendone di nuovi, e invece si è estinto il postmodernismo che lo
ha caratterizzato negli ultimi due o tre decenni del Novecento.
Quando di qui in avanti parlerò di
crisi mi riferirò sempre ai cambiamenti che si sono affermati in
Europa con il postmoderno a partire dagli anni settanta del Novecento
e poi con le modificazioni subentrate nel suo ultimo periodo, il
cosiddetto ipermoderno.
2.
Il postmoderno coincide con la
rivoluzione elettronica e con la nuova centralità che viene ad
assumere la produzione di beni immateriali e in particolare del
linguaggio. Le parole e i segni sostituiscono le cose. Nomina nuda
tenemus, Eco dixit, con quel che segue. L’intertestualità, prima
di diventare una metodologia critica, è una visione del mondo che ha
a che fare con questi nuovi modi di produzione e dall’influenza che
essi hanno nel sensorio, nella mentalità e nei modi di percezione,
con ovvie e ormai note conseguenze: interrelazione fra locale e
globale, progressivo offuscamento dell’esperienza diretta,
smaterializzazione dell’esistenza, trionfo del virtuale e della
società dello spettacolo e dei simulacri, della rappresentazione e
della rappresentazione delle rappresentazioni. Sul piano sociale si
avvia un processo che è sempre più evidente a mano a mano che ci si
inoltra nell’ipermoderno e che, in un libro recente, una
economista, Laura Pennacchi, definisce in questi termini molto
efficaci: desoggettivazione dell’io, desocializzazione
dell’individuo, depolititicizzazione della società. Si tratta di
tre fenomeni convergenti, reciprocamente correlati e anzi dipendenti
l’uno dall’altro. Gli ultimi grandi intellettuali italiani ancora
attivi negli anni settanta cominciarono a registrarli allora e vi
videro un cambiamento radicale che Pasolini, come è noto, chiamò
rivoluzione antropologica.
All’inizio, nella fase del
postmodernismo, la nuova centralità del linguaggio, dei segni e
delle rappresentazioni e la ideologia dell’intertestualità del
mondo producono l’illusione della fine della materialità e della
stessa realtà e, in letteratura, l’affermazione delle
metanarrazioni, della riscrittura, del citazionismo (tutto è stato
già scritto e detto e dunque può essere solo citato) e del pastiche
(nel senso, spiegato da Jameson, della blank parody o parodia bianca
o, direi piuttosto io, della parodia non parodica).
Contemporaneamente la fine della distinzione fra letteratura di
ricerca e letteratura di consumo certifica il primato del mercato e
ad abbattere i confini che garantivano separatezza e prestigio alla
sfera artistico-letteraria. Poi, negli anni più recenti
dell’ipermoderno, quando la crisi economica e l’esplosione delle
contraddizioni materiali diventano pressanti e non più eludibili,
tendono ad affermarsi nuove forme di realismo (testimonianze dirette,
autobiografie, cronache di fatti storici, reportage…). Forme nuove,
va sottolineato, perché risentono delle fortissima mediazione sia
delle recenti tecniche di comunicazione scritta e visiva
(documentari, film, serie televisive, pubblicità, fumetti, grafic
novel e manga in particolare) sia del filtro della soggettività
quale si è andata modificando e strutturando sotto l’influenza di
internet, dei blog, dei social network, della posta elettronica
(esibizione della intimità, privatizzazione del pubblico e
pubblicizzazione del privato, scrittura esclamativa ecc.). Si è
parlato, a proposito di questa produzione letteraria, di
neo-neo-realismo, ma in realtà le nuove tendenze non hanno niente in
comune con l’esperienza del dopoguerra: come si sarà capito, la
visione del mondo e i modi della rappresentazione sono infatti
radicalmente diversi.
3.
Ho appena descritto alcuni caratteri
della letteratura nata col postmoderno e della sua evoluzione negli
ultimi quaranta anni. Vorrei indicarne ora due su cui l’attenzione
degli studiosi si è forse meno impegnata: la fine del letterario con
la conseguente ibridazione o contaminazione e la globalizzazione.
All’inizio degli anni sessanta Sereni
aveva progettato una rivista dal titolo Questo e altro, dove questo
stava per il letterario. Proponeva insomma un confronto serrato fra
la letteratura e ciò che sta fuori della letteratura, la società e
la politica. Per Sereni la letteratura aveva confini ancora certi:
poteva e doveva aprirsi al mondo esterno e ad altri linguaggi diversi
da quello letterario, ma mantenendo la propria identità. Gli anni
sessanta segnano la crisi del genere lirico: Pagliarani con La
ragazza Carla, gli altri novissimi, Pasolini, Sereni stesso con Gli
strumenti umani, Giudici con La vita in versi, Caproni con Congedo
del viaggiatore cerimonioso, anche lo Zanzotto di La Beltà, persino
il vecchio Montale di Satura e dei diari introducono nel linguaggio
poetico il lessico pubblicitario, industriale, della informazione
giornalistica e televisiva, persino di un manuale di dattilografia. E
tuttavia la letterarietà resta evidente sia nello sperimentalismo
formale dei novissimi, sia nel linguaggio e nel ritmo più
tradizionale di Sereni, Caproni o Luzi. È diventata una letterarietà
“inclusiva”, come scrisse allora Raboni: una letterarietà che
accoglieva e assorbiva in sé l’extraletterario. Persino
Sanguineti, che annunciava di voler sabotare la letteratura, lo
faceva ricorrendo alla forte mediazione delle avanguardie letterarie
e dell’ironia iperletteraria della tradizione crepuscolare. Se poi
consideriamo i romanzi che andavano per la maggiore in quegli anni,
bisogna riconoscere che essi o pagavano dazio allo sperimentalismo
avanguardistico proponendo di fatto un nuovo linguaggio letterario o
non mettevano affatto in discussione il linguaggio letterario della
tradizione (si pensi a Malerba, Manganelli, Consolo, Volponi da un
lato, a Cassola, Moravia, Morante, Sciascia, Calvino dall’altro). A
partire dalla seconda generazione postmodernista, quella dei
cosiddetti cannibali, nella narrativa il linguaggio letterario
comincia a dissolversi. Al posto dell’apertura del letterario
all’extraletterario si assiste al trionfo del linguaggio parlato e
televisivo e alla ibridazione fra linguaggi. Se nei cannibali è il
linguaggio della pubblicità a far la parte del leone, oggi, negli
anni dell’ipermoderno, può essere quello del reportage o
dell’indagine giudiziaria o del saggismo sociologico o
storiografico o della serialità televisiva (per il saggismo, si
pensi al caso Saviano, per fare un solo esempio, ma si potrebbero
citare anche quelli più recenti di Trevi, Scurati o Falco). Altre
volte, semplicemente, il romanzo di oggi è scritto così come si
parla in un bar, con un progressivo restringimento del lessico,
sempre più usurato, e la sua sempre più frequente ibridazione con
il linguaggio televisivo, con quello dei network, con i più diversi
gerghi settoriali, ma anche ovviamente con il lessico delle lingue
straniere (inglesi soprattutto) e con parlate che direi
simildialettali che nascono dal deperimento dei dialetti. D’altronde
anche le tecniche di scrittura sono sempre più tributarie di quelle
della serialità e dei loro modi espressivi e comunicativi. Se a ciò
si aggiunge il dominio della mercificazione, e cioè la quasi totale
scomparsa di criteri editoriali ispirati a scelte di qualità e
l’assoluta e schiacciante prevalenza di quelli economici, il quadro
è pressoché completo.
In poesia la presenza del mercato è
molto minore e i processi sono più lenti e graduali, data la
resistenza del genere e la forza della tradizione. Il linguaggio
letterario vi sopravvive, ma a fatica, a spezzoni, a tratti, a
macchia di leopardo a volte anche all’interno della produzione di
uno stesso autore.
La crisi del linguaggio letterario,
d’altronde, non è che un aspetto della crisi della letteratura. In
altri termini si è passati dalla letteratura della crisi (quella
della prima generazione postmodernista di Eco, di Tabucchi e
dell’ultimo Calvino) alla crisi della letteratura. È finita
l’autonomia della letteratura, la sua separatezza e la sua
sacralità. Il questo di Sereni non esiste più. A mano a mano che la
sua identità va evaporando, la letteratura si deposita come una
polvere impalpabile in una sere di altri ambiti (sceneggiature,
pubblicità, scritti filosofici, storiografici, giornalistici….)
diventando un “poetese”, avrebbe detto Sanguineti, buono per
tutti gli usi. Ma tutto è diventato letteratura perché niente è
più letteratura. È finita anche la dialettica anceschiana fra
autonomia ed eteronomia della letteratura. Uno scrittore può essere
impegnato o disimpegnato, ma nessuno se ne lamenterà né in un caso
né nell’altro. La letteratura è diventata eteronoma, non perché
abbia ceduto all’impegno politico, ma perché i mutamenti
tecnologici, economici e sociali in corso ne hanno dissolto i
confini. Che riesca a trovare un’altra identità nella
contaminazione può darsi, ma non è detto. Il processo è in corso e
i suoi esiti sono tutt’altro che scontati.
La globalizzazione ha conseguenze
particolarmente incisive, anche in questo caso, sulla narrativa. E
non solo perché si diffonde, in seguito alla immigrazione, il
fenomeno di scrittori algerini o egiziani o senegalesi o pakistani o
iraniani o albanesi che scrivono anche in italiano, ma anche perché
la produzione diretta nella nostra lingua e soprattutto, molto più
frequentemente, la traduzione di opere di autori del cosiddetto terzo
mondo è sempre più massiccia e invasiva, tanto da cominciare a
insidiare lo stesso primato occidentale (la battaglia sul canone
nelle università degli Stati Uniti è da tal punto di vista
esemplare). Anzi, molto probabilmente l’iniezione di questo sangue
nuovo e vitale ha contribuito in modo decisivo a porre in discussione
il postmodernismo: una letteratura fondata sulla riscrittura e sulla
metaletterarietà è entrata in crisi sotto l’urto delle rinascenti
contraddizioni materiali ma anche sotto la pressione di una
letteratura che parlava di fame, di viaggi di fortuna, di dittature e
di guerre spaventose, di esistenze in esilio. Le nuove forme di
realismo nascono anche da questa nuova situazione (nuova per l’Italia
e per la vecchia Europa; negli Stati Uniti non è mai venuta meno una
linea, fra Roth e Delillo, di modi fra loro diversamente realisti).
4.
La crisi della letteratura è anche
crisi della forma saggio. Il critico letterario si sente mancare il
terreno sotto i piedi. La materia stessa su cui si esercita sta
smottando costringendolo a cercare terra ferma in altri campi o a
intraprendere tentativi in nuove direzioni come da tempo, e comunque
assai prima degli addetti alla letteratura, hanno fatto i cultori di
discipline limitrofe, come gli storici, i filosofi, o gli studiosi
del mondo classico.
La crisi della forma saggio comporta
anzitutto il tramonto della critica concepita come momento di
tensione fra impegno etico-politico e impegno letterario e culturale.
Come è declinata la figura storica dell’intellettuale quale si è
andata configurando dall’illuminismo a oggi, così nell’ultimo
trentennio appare ormai esaurita, almeno in campo umanistico, la sua
forma specifica di espressione, ormai sostituita dall’intrattenimento
giornalistico e dallo studio accademico, nonché da interessanti
tentativi di contaminazione fra questi due modi di cui dirò più
avanti. Il saggio alla Fortini, alla Cases o alla Pasolini non è più
praticabile perché sono venuti meno il mandato civile e la società
che esso presupponeva. Il declino del saggio è anche da collegarsi
alla scomparsa di una intera civiltà letteraria fondata sul valore e
sulla sacralità della letteratura che, nel bene e nel male (il male
non è mancato), è stata attiva sino a una trentina d’anni fa. Ma
anche il saggio alla Sapegno o alla Muscetta o, per altri versi, alla
Contini o alla Praz non è più possibile a causa, nel primo caso,
della fine di un ruolo pubblico dell’intellettuale umanista e nel
secondo della scomparsa di un gusto elitario e della società
letteraria che la coltivava. Insomma, come ha scritto Pierre Guiraud,
il saggio muore schiacciato «dalla tentazione di dire tutto a
nessuno, o dire nulla a tutti».
Accanto al saggio d’intrattenimento,
incessantemente promosso per via televisiva dal mondo giornalistico,
resta ovviamente quello accademico. Ma la produzione accademica oggi
è a circuito chiuso: è rivolta alla istituzione, nasce e finisce
lì. È settoriale e specialistica; ed è asfittica perché non ha
più intorno il respiro di una società civile che la accolga e possa
nutrirsene. Unica parziale eccezione è il commento ai testi, che
sembra avere ancora un piccolo margine di mercato e una qualche
utilizzazione divulgativa e scolastica.
Una serie di fattori hanno accelerato
in anni recenti questa involuzione della critica accademica. Ne
elenco rapidamente alcuni: i nuovi sistemi di valutazione svolgono
una funzione coattiva dato che regolano la carriera accademica
secondo criteri rigidamente specialistici e scientifici (o sedicenti
tali) che ignorano l’aspetto interdisciplinare e sociale della
ricerca e puntano esclusivamente sugli aspetti quantitativi e
oggettivamente misurabili. Da qui il cosiddetto disciplinamento che
la incanala nei recinti predefiniti delle singole microdiscipline,
togliendole complessità, aria e sfondo. Infine lo stesso precariato
che caratterizza la vita dei giovani ricercatori li costringe a
elaborare di continuo microprogetti che li distolgono da progetti
strategici e da lavori di lunga lena per indurli ad adattarsi di
volta in volta a esigenze diverse a seconda delle varie università e
dei diversi paesi dove cercano lavoro.
In questa situazione bisogna tuttavia
registrare una tendenza di tipo saggistico che cerca di sfuggire alla
tenaglia della scelta fra intrattenimento e accademismo. pure in
qualche modo utilizzando l’uno e l’altro. È un fenomeno
parallelo a quanto sta avvenendo nel romanzo, in cui, come ho già
osservato, il nesso fra saggistica e narrativa è un carattere ormai
molto evidente. In questo caso la componente narrativa è egualmente
presente, ma all’interno di un processo espositivo in cui
convergono istanze diverse – anche volte, per esempio, a ricercare
la complicità del lettore attraverso il ricorso al pathos – ma che
comunque mira a sostenere una tesi e perlopiù un assunto
propriamente argomentativo. La nuova saggistica può ricorrere agli
strumenti specialistici dell’accademismo, ma a differenza del
discorso accademico, che ostenta obbiettività e impersonalità, si
manifesta solo attraverso una forte mediazione soggettiva, ed è
appunto questa mediazione a consentire narratività ed eventuale
pathos. Inoltre l’autore, in questo ispirandosi alle scritture
d’intrattenimento, non rinuncia ad adeguarsi, almeno in parte, al
pubblico cui si rivolge e dunque a farsi carico del punto di vista
del destinatario, cosa impensabile nel discorso accademico. Infine
questa nuova saggistica risente del linguaggio dei blog e di internet
(a volte, anzi, rielabora materiale che ha trovato qui la sua forma
originaria), in qualche modo si ispira alla sua immediatezza e si
rivolge comunque ai suoi fruitori. Non è certo un caso che anche il
mondo editoriale si sia accorto della nascita di queste nuove forme
saggistiche e tenda a incanalarle in nuove collane (penso, per
esempio, a quelle recentemente lanciate da Laterza in cui sono
apparsi i volumetti di Giglioli e di Mazzoni) particolarmente agili e
nettamente distinte tanto da quelle accademiche quanto da quelle di
puro intrattenimento. Qui critici letterari spesso di provenienza
comparatistica, e quindi a ciò predisposti anche dalla esperienza di
ibridazione dei cultural studies, tendono a ricercare un nuovo ruolo
e un nuovo spazio: abbandonano quello tradizionale della letteratura,
o lo utilizzano in modo subordinato e subalterno ad altri tipi di
discorso, e sconfinano perciò su altri terreni di tipo storico,
sociologico, antropologico e molto genericamente politico.
Più raro invece è il caso dei critici
che cercano di rinnovare le forme saggistiche restando su un terreno
prevalentemente letterario. La critica letteraria, d’altronde, è
assente o del tutto emarginata nel mercato editoriale, e i tentativi
di un suo rinnovamento di forme, di linguaggio e di destinatario,
simile a quello già avvenuto per altre discipline umanistiche,
tendono perciò a incanalarsi e quasi a nascondersi in collane
tradizionali.
Fra i non molti esempi a disposizione
di questo tipo (potrei citare i casi di Giunta, di Di Gesù, di
Iossa) ne scelgo uno recentissimo che può servire, grazie anche alla
autorità dell’autore e alla indubbia serietà del suo tentativo, a
documentare concretamente lr direzioni di questa nuova saggistica nel
campo della critica letteraria. L’autore è Valerio Magrelli, un
accademico che però è anche un poeta, in campo cinematografico è
stato collaboratore di Fellini e scrive sulla stampa quotidiana
(aspetti di una attività multiforme e in qualche modo plurimediale
che vanno tenuti presenti per capire il tipo di operazione e di
linguaggio impiegato). Il libro è Millennium Poetry, che ha molti
dei caratteri innovativi che ho sopra enunciato eppure esce in una
collana tradizionale come Intersezioni del Mulino. Bastano il titolo
e il sottotitolo che suona: Viaggio sentimentale nella poesia
italiana. Se il titolo allude a un linguaggio consueto al mondo
televisivo, cinematografico e pubblicitario (a partire dall’uso
della lingua inglese, che ormai si sta affermando per i titoli dei
film), il sottotitolo evoca, col sostantivo viaggio e con l’aggettivo
sentimentale, quel rimando alla mediazione soggettiva di cui parlavo:
il rinvio colto a Sterne è presente, ma il lettore meno informato
che non lo comprende può comunque egualmente apprezzare il concetto
che esprime. La introduzione si presenta poi con questo titolo di per
sé eloquente: +39:istruzioni per l’uso e al suo interno si
dichiara che il libro – una antologia commentata di 39 poeti dal
Mille a oggi – è, oltre che un viaggio, «un’avventata avventura
antologica» e «una schedatura ludica e sentimentale», mentre il
commento procede, si dice, per «accostamenti inconsueti» spesso
sostenuti da una vena narrativa più che strettamente argomentativa.
Anche se Magrelli manifesta molto rispetto per la critica accademica,
è chiaro che qui ne siamo lontanissimi. Non mancano certo nelle
varie schede osservazioni specialistiche di metrica e di retorica e
riferimenti eruditi, che sarebbe impossibile trovare nella saggistica
di intrattenimento giornalistico, ma è dichiarato, ed evidente,
l’intento di rivolgersi a un pubblico non specialistico con una
funzione anche divulgativa. Se si aggiunge che l’autore nella
introduzione fa l’elogio di Wikipedia di cui dichiara di essersi
ampiamente servito, si può ancor più capire, attraverso questo
esempio, la direzione verso cui muove, alla ricerca di una difficile
sopravvivenza, la nuova saggistica.
5.
Poche parole di conclusione. Mi sono
limitato a descrivere oggettivamente la fine di un mondo e le nuove
possibilità che possono aprirsi. Giunto alla fine del mio discorso,
non posso rinunciare tuttavia a esprimere un giudizio, per quanto
molto rapido e sommario.
Devo dire che non rimpiango il passato,
ma non ho molte speranze per il futuro. Che non esistano più un
linguaggio letterario e una repubblica delle lettere non può essere
oggetto di rimpianto. Sappiamo tutti, dopo Bourdieu, come è nata una
società letteraria e su quali valori, o disvalori, si fondasse, su
quali privilegi, talora illusori ma non meno reali. E lo stesso si
deve dire per l’autonomia del letterario e l’ideologia della sua
sacralità quale è stata praticata almeno per due millenni, a
partire dal favete linguis di Orazio. L’identità della letteratura
quale si è costituita attraverso i secoli ha portato in sé il segno
di quella barbarie di cui hanno parlato Benjamin e Marx, il primo in
una tesi in cui ha illustrato il nesso fra civiltà e barbarie, il
secondo in una pagina famosa in cui ci ha mostrato di che lacrime
grondino e di che sangue i polpastrelli della mano di Beethoven.
E tuttavia in quell’idea di
letteratura restava, seppure distorta, l’allusione a un valore, a
qualcosa che andasse oltre il contingente e l’immediato e che
provocasse o potesse provocare commozione e ammirazione. E se nessuno
oggi potrebbe rimpiangere le miserie, i riti meschini e i privilegi
della cosiddetta repubblica delle lettere, altra cosa era l’eco che
l’attività letteraria e saggistica avevano nella società civile
e, nel dopoguerra europeo, persino all’interno del movimento
operaio (anche qui con luci e ombre che vanno ricordare e distinte).
È esistito un tempo insomma in cui letteratura e saggistica potevano
almeno conservare l’aspirazione a superare la propria separatezza
in senso non consumistico ma civile e a entrare in un dibattito
generale e in un conflitto delle interpretazioni che attraversava una
parte non indifferente del corpo sociale. Oggi l’insignificanza
della letteratura e della saggistica appare segno ed emblema di una
insignificanza più generale e complessiva che traspare da ogni
aspetto della nostra vita, e di uno stato di impotenza e di minorità
che riguarda tutti.
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