Tre anni fa in Rondônia,
regione dell'Amazzonia brasiliana al confine con Perù e Bolivia,
furono due funzionari governativi a vedere l'ultimo appartenente alla
tribù dei Tumaru. Se lo ricordano bene, visto che puntò contro di
loro il suo arco, da non più di dieci metri, prima di fuggire. Di
lui non si è più saputo nulla. I due uomini del Funai, l'ente
governativo per i diritti degli Indios, erano sulle sue tracce da
molti giorni all'interno della foresta, da quando una tribù vicina
li aveva avvisati che dei Tumaru era rimasto un solo individuo. Lo
volevano trovare, per suggerirgli di unirsi a qualche altra tribù
della zona. Ma quell'indio non ne ha voluto sapere. La sua scelta è
stata quella di puntare l'arco e correre.
La sua è, o era, una
delle circa 230 tribù conosciute che abitano nell'Amazzonia
brasiliana, per un totale di 460 mila persone. Prima che arrivassero
gli occidentali erano circa sette milioni gli Indios che popolavano
la foresta brasiliana. Ma dopo secoli di stragi e devastazioni nel
loro territorio, operate prima dai coloni, poi dai grandi allevatori
e dalle multinazionali che hanno disboscato, costruito strade e
dighe, c'è ancora qualcuno che manca all'appello: sono una
quarantina di tribù. Sono quelle definite «no contact»:
isolati, mai nessun incontro con altri uomini diversi da loro. Un
mondo sconosciuto che vuole rimanere tale. Una vita in fuga, in
luoghi sempre più remoti. Di loro non si sa nulla, se non il fatto
che esistono.
E già questa è
un'impresa che riesce solo agli altri indios che vivono nel
fitto della foresta e che, volenti o nolenti, hanno invece contatti
con il resto del Paese. Sono loro a riferire ritrovamenti di
strumenti da caccia sconosciuti, o di aver visto nativi che non
parlano la loro lingua darsi alla fuga nella boscaglia. Si sa in che
zona vivono, ma non quanti sono o come sono organizzate le loro
comunità.
La tribù dell'Amazzonia
brasiliana degli Orowari, che nella loro lingua significa «il gruppo
», vive nella riserva di Igarapé Laje, in una zona dello stato di
Rondônia al confine con quella chiamata Musacanava, dove si sa che
vivono tre diverse comunità di indios isolati. Gli Orowari hanno
grande venerazione per questi loro vicini misteriosi: li chiamano «Ko
Om Tan Krik Nana», «quelli che si nascondono», e che quindi non
sono a conoscenza di un progetto ormai in fase di realizzazione che
prevede la costruzione di un sistema combinato di dighe sul fiume Rio
Madeira, per realizzare centrali elettriche. Il piano prevede che
parte dell'area Musacanava diventi un lago artificiale. «Noi
possiamo almeno provare a difendere i nostri diritti, farci sentire.
Loro no — spiega Jesse Waram Xijeijn, 32 anni, capo di uno dei
quattro villaggi Orowari che si trovano nella riserva di Igarapé
Laje —. Li ammiriamo, perché continuano a vivere secondo
tradizioni che erano anche nostre. Se saranno costretti a uscire da
Musacanava, ammesso che sopravvivano alle malattie e all'alcol,
saranno uccisi dai grandi proprietari terrieri che sono ai confini
della loro zona. E chi anche riuscirà a sopravvivere avrà perso per
sempre il suo modo di vivere».
Su come difendere quel
mondo anche gli stessi Orowari si dividono. C'è chi ritiene giusto
avvicinare «quelli che si nascondono», conoscere le loro tribù, il
loro numero, le loro abitudini, perché così si può provare a
tutelare meglio la loro area, e chi invece, come Waroi Jexian, uno
degli insegnanti della scuola del villaggio, la pensa in modo
opposto: «Nel momento stesso in cui avviene la conoscenza, anche da
parte di altri indios, è l'inizio della fine delle tribù isolate. È
accaduto un'infinità di volte e non basta dire che adesso si fanno
subito le vaccinazioni e non muoiono più come un tempo per un
semplice raffreddore. Molti muoiono lo stesso e poi il problema non
si può ridurre semplicemente a quello della sopravvivenza. Loro
vogliono continuare a vivere nella foresta come hanno sempre fatto».
A metà degli anni '80 un
gruppo di aderenti alla «Missione delle Nuove tribù»,
un'organizzazione missionaria fondamentalista con sede negli Usa,
organizzarono una spedizione non autorizzata dal governo brasiliano,
per entrare in contatto con un gruppo allora sconosciuto, gli Zo'è,
nello stato del Pará. Una volta individuati dall'aereo i villaggi,
distribuirono regali e costruirono una base a pochi giorni di
cammino. Poco dopo il primo contatto, avvenuto nel 1987: decine di
Zo'è morirono di influenza, malaria e malattie respiratorie. Di casi
come questo ce ne sono stati a decine.
A essere convinto che non
esista un modo corretto per entrare in contatto con gli indigeni che
scelgono di vivere isolati c'è anche Sydney Possuelo, esploratore,
antropologo e primo direttore del Funai, responsabilità che lo ha
portato per anni nella foresta a seguire tracce di popoli
sconosciuti. Ne ha contattati diversi, e si è pentito di averlo
fatto: «Anche se si arriva da loro con le migliori intenzioni, li si
introduce in una vita che non è loro. Regaliamo coltelli, pentole,
forbici, e in questo modo creiamo bisogni che non avevamo mai avuto
prima, rompendo un'armonia che è molto delicata. Gli attrezzi che
noi abbiamo lasciato nelle loro mani prima o poi si rompono e a quel
punto lo sarà anche il loro equilibrio». Del resto questi popoli
incontattati, proprio perché privi di tecnologia moderna, sono in
grado di vivere in equilibrio in mezzo a una natura dove tutti gli
altri non sarebbero in grado di sopravvivere una settimana. La loro
storia, ma in generale quella di tutti gli indios, non sta scritta
nei libri. Uno di loro, ormai integrato nella società, Daniel
Munduruku, che coordina la collezione «memorie ancestrali» per
un'importante casa editrice brasiliana, ha spiegato che «per noi
scrivere un libro è una novità: le storie vivono dentro di noi. È
più facile che avere a che fare con un libro, il libro pesa».
Corriere della Sera
28.2.2009
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