Twins Seven Seven, The Lovely Rabitt Tanner,
Inchiostro su collage di compensato
Il Ritorno dei maghi -
Il sacro nell'arte africana contemporanea è il titolo della
mostra che si tiene nel Palazzo dei Sette, in piazza del Popolo ad
Orvieto, dall'8 aprile al 30 giugno 1999. L'enfasi con cui la qualità
artistica degli oggetti in mostra viene illustrata può apparire
esagerata, ma non è del tutto fuori luogo.
Non si sa quanto di
quello che sfila sotto gli occhi dell'osservatore dell'esposizione
sia rappresentativo di questo straordinario continente, dove al di là
delle questioni economico sociali, si è ancora immersi in una realtà
in cui, come sosteneva Moravia, la natura ancora prevale sull'uomo e
sulle tecnologie (non sempre sulle merci). Ciò che si rivela potente
infatti è quello che emerge da questa (in)consapevolezza, dallo
sguardo ingenuo o tragicamente deformato degli artisti che
riproducono un mondo, una fetta di esso, un uomo, che compete con una
realtà altra e interpreta questa dinamica con energie lineari,
cromatiche che traducono la volontà di controllare un cosmo che
esplode con la forza del sole, dell'acqua della vegetazione del
sesso, della fauna del dolore delle malattie, delle miserie
straripanti.
Il codice
d'interpretazione non può essere intellettualistico, bensì (se mai
è possibile) vitalistico od onirico. Tuttavia lo scarto con
esperienze europee di inizio secolo, quali espressionismo o
surrealismo, che in qualche modo all'arte dell'Africa si ispiravano,
è notevole, soprattutto sul piano del linguaggio.
Infatti, salvo alcune
opere di autori che si richiamano all'Occidente e ne ripropongono i
modelli con supina ingenuità, il codice è quello della carne e del
sangue, del mistero e dell'incertezza dell'esistenza, del consumo
rapido e intenso della vita sotto tutte le sue forme, della terra,
dell'aculeo, del sesso praticato, della capanna riparo e scenografia
del rituale, dove tutte le tensioni dello spirito assumono l'aspetto
delle forme e dei colori della vita quotidiana, al massimo della
saturazione e del contrasto.
Ci accoglie infatti,
all'ingresso della mostra, un'installazione del senegalese Amadou
Maklitar Mbaye, che è una vera e propria unità abitativa a
grandezza naturale, con la raffigurazione di un uomo nero sulla
soglia, sarà poi un modulo che si ripete a dimensioni ridotte, con
modificazioni, di oggetti e di forme, che appaiono insignificanti,
come una sorta di variazione su un tema, che consiste nella
raffigurazione dell'alveo controllato, entro cui ciò che accade
risulta accettabile o buono, perché governato da spiriti alleati. La
tradizione ormai secolare di interesse verso la produzione degli
indigeni del continente nero sempre meno tende ad affrontare ciò che
gli artisti dell'Africa esprimono come uniforme e circoscrivibile
all'interno di una tendenza unica. Pertanto definire, come si legge
nelle opportune didascalie, quanto è esposto ad Orvieto come la vera
novità presente e futura nell'arte del pianeta, risulta decisamente
suggestivo, ma alquanto rischioso ed improbabile. C'è uno sfasamento
di tempi nell'arte del continente nero: a un progredire, seppure
lento, relativo all'avanzamento economico, corrisponde una stasi che
la rende uguale a quella che aveva affascinato i cubisti della prima
ora e che fa sì che ancor oggi una donna, mai uscita dal suo
villaggio, possa produrre degli idoli di terracotta che penetrano in
profondità nell'anima con le loro forme, in cui si riconosce
l'addensarsi di tutte le pulsioni originarie dell'essere: le
maternità, le misteriose divinità antropomorfe dalla fissità
imperscrutabile, i percorsi curvilinei del sogno di vita.
Twins Seven Seven,
originario della Nigeria, artista multiforme, pittore, cantante,
compositore, a tempo perso uomo politico, colpisce con l'efficacia
delle sue esecuzioni. Alla forza dei contenuti, crudi, che non
indulgono affatto al pulp occidentale, unisce una potenza
costruttiva del segno che non ha riscontri, né come risultato
grafico, né come similarità di scelte formali in nessuna opera
della nostra storia. Ha forse ragione quando, parlando della propria
arte, egli afferma: "E' la sopravvivenza del potere e della
creatività dei miei antenati. E' la creazione di una moderna
dinamica per le generazioni future". Gli si affianca Lilanga
(Tanzania), che però sembra molto vicino a certi modi metropolitani
contemporanei, anche per le selezioni cromatiche troppo levigate, a
scapito della coerenza culturale. Cyprien Tokoudagba è un altro
artista del gruppo assai noto in Occidente. Stupisce per i suoi
feticci ed i suoi serpenti legati alla misteriosa ritualità Vodun.
Ma tutte le opere, anche
quelle (pochissime per la verità) più appiattite sulla cultura
espressiva "dominante", esplicano la volontà di potenza,
di affermazione sulla natura. Arte come blocco dell'esistenza,
dell'azione incontrollata della natura, come argine all'irruenza del
patire. Arte come espressione di forti religiosità ma soprattutto
come magia, atto di fede nelle possibilità dell'uomo di intervenire
nel cosmo per trascinarlo il più possibile dalla sua parte. Verrebbe
da dire che l'aggettivo contemporanea, aggiunto al sottotitolo Il
Sacro nell'arte africana, è quasi fuori luogo, perché, nonostante i
collegamenti con l'Islam e il cristianesimo, questa attualità appare
così antica, anzi ancestrale.
"micropolis", maggio 1999
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