Il 1939, nel contesto
infelicissimo, fu anno mirabile per la poesia italiana se videro luce
Le occasioni di Montale e, un esordio, le Poesie di
Penna. È stato Cesare Garboli, in un piccolo libro, Penna,
Montale e il desiderio, a mettere in relazione strettissima i
Mottetti, sezione memorabile delle Occasioni, con
Penna: «Sovrapporre queste due orbite non avrebbe alcun senso»,
scriveva Garboli, affacciando però il sospetto «che il Montale dei
Mottetti, nel tecnicismo di un canzoniere d'amore risparmiato
dal sentimento» si fosse servito abbondantemente di Penna, letto
grazie agli allegati dattiloscritti di una corrispondenza epistolare.
Interessa qui, oltre questo rapporto di dare e avere, qualche
osservazione di Garboli: «La novità dei Mottetti è l'amore,
lo disse per il primo, mi sembra, Contini nel 38, quando la serie era
ancora in viaggio, e tutti lo ripetono come rosa rosae: ma
amore cosa? amore quale? Visitati da un ente angelico, accentrati su
epifanie, costruiti su passato e presente, fondati sulla depressione
dell'io, i Mottetti sono un canzoniere dominato da un'anomalia
del desiderio e, parallelamente, da un'indefinibilità tonale», e
continuava scrivendo di una strategia dell'«indeterminazione, che è
poi il grande virtuosismo di fare apparire e sparire il desiderio
sovrapponendo il fisico e il metafisico».
La diagnosi può essere
discussa, ma i sintomi sono questi. E altri, aggiunti da Garboli più
avanti: i Mottetti che mettono in essere «un rapporto tra due
amanti disturbato da voci, rumori, immagini interferenti, ma tali da
fare di questa interferenza non un disturbo, ma un disturbo
funzionale, la condizione necessaria allo scatto di eventi,
cortocircuiti, lampi dove si consumi [,..]una suprema e mistica
cognizione mentale»; con i Mottetti che si potrebbero
definire «la frustrazione di un desiderio, se in realtà essi non
fossero il diario rassegnatamente atroce di un amore sublimato non
per la forza con cui si compie la sublimazione del desiderio, ma
perché il desiderio è inerte o censurato»: una situazione
stilnovista, insomma, che diventa un petrarchismo alla rovescia, con
tanto di «interiezioni petrarchesche» che, platonicamente, uniscono
il fisico e il metafisico.
Non smettevano di
ritornare in mente queste pagine di Garboli durante la lettura del
libro intenso e tenace che Giorgio Ficara ha dedicato ai Mottetti
col titolo insieme ironico e tecnico di Montale sentimentale
(Marsilio, 2012). I Mottetti, nonostante i commenti a
disposizione, permangono un enigma fascinoso, e l'assedio di Ficara è
un combattimento che lavora sui lati, continuamente intravedendo un
centro che è come un bersaglio mobile: c'è, ma come nella famosa
metafora formulata da Debenedetti sulla scia della fisica, ora è un
punto ora è pura energia. O, per la sua inattingibilità, si pensi a
quanto osservato da Agamben sull'ultimo Caproni: «l'inappropriabilità
e l'infigurabilità del bene»: col che il senso della lettura di
Ficara (anche serrata meditazione, benché indiretta, sullo statuto
della critica) coincide con la forma del testo che ha di fronte.
«Sentimentale», del
resto, è aggettivo riferibile a una canzonetta o a una tragedia (e
l'ampio spettro di significato sta nel libro, a partire dal grado
zero iniziale: «sentimentale, col cuore pesante», «effusione
sentimentale»: da qui non si fa che innalzarsi); ma sentimentale è
anche un piano tecnico del discorso, una retorica e dunque un modo di
organizzare il pensiero. E dunque: «Ma sentimento cosa? sentimento
quale?», deve essersi chiesto Ficara. E da lì ha costruito un libro
fortemente analitico dove ogni conclusione provvisoria è
l'inaugurazione di un altro percorso (nemmeno aiutato dalla
constatazione che il cinismo, il leggendario cinismo di Montale, è
l'ultimo vestito indossato dai sentimentali - o viceversa che il
sentimento è un abito cinico: perché proprio nei Mottetti,
forse fino ai Mottetti, Montale cinico non è), come se la
risposta all'enigma non potesse essere che una domanda diversamente
posta, e magari implicita, sporta su un'altra domanda.
Non se ne può riferire
minutamente, dunque, così come i Mottetti non si possono
raccontare: se sono un romanzo, in quanto introflessi - sul piano
formale - e introversi - sul piano mentale -, sono un romanzo non
lineare, e quel che vi succede è atomizzato, ridotto così come per
conseguenza della lotta tra spirito e materia, che si sopraffanno e
confondono e scambiano: la lotta con l'angelo, ma anche l'angelo in
lotta. Non perché, secondo sentenza paolina, la lettera uccide ma lo
spirito vivifica (certe volte è vero il contrario; o il contrario dà
più senso e salute alla lettura), ma davvero il discorso di Ficara
si configura come un'orazione il cui scopo è un commento spirituale
ma aggrappato alla lettera, e inquieto.
Il tessuto di questa
spiritualità ha una tramatura filosofica, infissa nella
contemporaneità di Montale e nostra; ma basta una scheggia di testo
per rendersi conto di come l'uso dei richiami filosofici non si
sottragga alla stretta filologia: se ne ha per esempio traccia nel
Cartesio della prima meditazione come fonte di un testo degli Ossi
di seppia.
Incasellare le figure
femminili in Montale si può e si deve, fa qualche luce sulla
biografia e, di riflesso, sulla poesia là dove si incrocia con la
biografia. Ma nello svolgimento del discorso di Montale, e nel libro
di Ficara, le figure femminili si sovrappongono, come specificazioni
di un'unica figura, come epifanie che ora mostrano ora nascondono la
divinità. È proprio la dialettica di presenza e assenza, di
salvazione e dannazione che distingue ma non separa Clizia, Mosca e
le altre. Sono donne diverse, in poesia, perché diverso è il
momento del discorso di Montale. Fin quando, dopo la morte di Mosca,
l'assenza è toccata fisicamente, ma ancora disperatamente protesa
verso la metafisica («perché se non sei / è solo la mancanza / e
può affogare»). Lì, col sentimentale, convivono il cinico e lo
scettico, e il nichilista di sempre.
“alias domenica il
manifesto”, 10 giugno 2012
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