Mentre a Parigi sta per
esplodere la rivoluzione, in un piccolo villaggio inglese a sud-ovest
di Londra, un parroco ha appena pubblicato un libretto che diventerà
uno dei testi più diffusi in Gran Bretagna. “The Natural
History and Antiquities of Selborne” (1789) raccoglie le
lettere indirizzate dall’autore, Gilbert White, allo zoologo Thomas
Pennant e all’avvocato naturalista Daines Barrington, una miniera
di informazioni su flora, fauna, clima, abitanti, siti storici della
sua parrocchia. A differenza dei testi in voga all’epoca, ha
pochissime immagini ed è il frutto, e qui sta il suo valore, di
un’osservazione diretta, sul campo.
È l’inizio di una
scienza naturalistica che esce dai laboratori tassonomisti. White
individua specie nuove, mette in relazione, capisce il ruolo positivo
del lombrico per la fertilità del suolo, studia il comportamento,
anche sessuale, degli animali, in particolare degli uccelli, attento
ai suoni e al canto, con la curiosità e l’acutezza con le quali
Jane Austen penetrava nella natura umana del vicino piccolo mondo di
Steventon.
La storia naturale di
Selborne è ritenuto il testo pionieristico della storia ambientale,
una nuova disciplina nata negli anni Settanta con i movimenti
ambientalisti che riporta la natura nella storia. La ricerca prende
in esame diversi ambiti: i cambiamenti lenti dei tempi biologici e le
trasformazioni storiche; l’ecologia; la sensibilità e le idee di
natura; la conservazione e i movimenti ambientalisti. Alfred Crosby,
Jared Diamond, Richard Grove, Donald Hughes con un manipolo di altri
storici, Piero Bevilacqua in Italia, hanno dato il giusto rilievo ai
grandi passaggi tecnologici e culturali dell’umanità che hanno
mutato profondamente l’aspetto fisico e l’equilibrio del pianeta
– l’agricoltura nel neolitico, il colonialismo e la rivoluzione
industriale – seguendo le tracce lasciate da un altro pioniere,
George Perkins Marsh (Man and Nature, 1864).
In un colloquio avuto con
lei mentre scriveva il suo testo sulla rivoluzione ecologica nel New
England, Carolyn Merchant sottolineava ad esempio gli effetti
negativi dell’agricoltura imposta dai coloni inglesi che soppianta
la gestione femminile in sintonia con l’ambiente regionale. Quando
la natura entra nelle discipline, modifica la prospettiva con cui gli
avvenimenti sono stati osservati in precedenza. In un testo utile per
capire tante crisi contemporanee, “Dust Bowl: the Southern Plans
in the 1930″, Donald Worster racconta le tempeste di sabbia che
negli anni Trenta hanno flagellato le grandi pianure statunitensi,
provocando quell’esodo di milioni di contadini verso gli stati
vicini seguito da Steinbeck in Furore, fotografato da Dorothea
Lange e Walter Evans. Non furono un inaspettato fenomeno naturale,
sostiene, ma la conseguenza di un’imprevidente forzatura
sull’ambiente: l’aver sviluppato un’agricoltura industriale,
che impoverì ancora di più il suolo, in una regione non adatta, da
sempre arida, poco piovosa.
Una siccità più forte e
lunga, il vento e il terreno eroso provocarono la polvere. Non ci fu
raccolto, i contadini non riuscirono a pagare i debiti contratti con
le banche che li avevano incoraggiati ad abbandonare la piccola
agricoltura, e le banche si presero la terra e le aziende. Nella
Grande Depressione le erronee politiche economiche ed ecologiche
giocarono dunque un ruolo centrale.
il manifesto, 24 dicembre
2011
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