Dalla Lectura Dantis
che sulle sue pagine, giorno dopo giorno, il “Corriere della Sera”
andò componendo nel 2004, coprendo trenta canti scelti della
Commedia, riprendo qui quella del canto di Bonagiunta Orbicciani da Lucca e di Forese Donati, il XXIV
del Pugatorio, opera di
Edoardo Sanguineti, il nostro compagno poeta e comunista, che ci
capita spesso di rimpiangere. (S.L.L.)
Dante e Bonagiunta in una miniatura (British Museum) |
Battibecco sulla
poesia nel sesto girone
L’incontro con
Bonagiunta è uno dei luoghi più tormentati e tormentosi della
Commedia - che pure non sono pochi. Ma la presenza di una
dichiarazione di poetica, da parte di Dante, non poteva non rendere
cruciale l’interpretazione di questo episodio. Si aggiunga che ne
dipende, per molti riguardi, ogni nostra possibile concezione dello
stilnovismo, e dunque, in certo modo, dell’intiera vicenda della
nostra poesia duecentesca.
Additato a Dante da
Forese, in prima fila nella schiera dei golosi che popolano la sesta
cornice, Bonagiunta è prescelto da Dante, sopra gli altri, anche
perché egli lo sente mormorare «non so che Gentucca». La quale, a
credere al Buti, è «una gentil donna chiamata madonna Gentucca,
ch’era di rossin pelo», da Dante altamente prediletta «per la
virtù grande et onestà ch’era in lei, non per altro amore»,
tanto che, per merito suo, gli riuscirà gradita la pur sgradita
Lucca, proverbiale tana di barattieri, per testimonianza di Dante
stesso. Non occorre essere particolarmente sofisticati per rilevare
che, in bocca a Bonagiunta, la giovinetta lucchese (non maritata,
«non porta ancor benda») è designata come «femmina». È cosa che
disdice alla poetica dantesca delle «nove rime» e del «dolce stil
novo», se proprio nella Vita nuova, volgendosi alle donne che
hanno «intelletto d’amore», in quella celebre canzone che
Bonagiunta subito citerà come inaugurale alla nuova maniera di Dante
si sottolinea come il poeta si rivolgesse, parlando «a donne in
seconda persona», non già ad ogni donna, «ma solamente a coloro
che sono gentili e che non sono pure femmine».
Lo scarto semantico che
Dante impone tra due parole è dunque l'emblema lessicale che
prefigura quel conflitto di poeti che subito oltre si dichiara,
quando Bonagiunta chiede se davvero si trova dinanzi, vivo, «colui
che fore / trasse le nove rime, cominciando / "Donne ch'avete
intelletto d'amore"». E nel De vulgari eloquentia, non a
caso, la canzone è ricordata come quella che «solis endecasillabis
gaudet esse contexta», sul modello della cavalcantiana Donna me
prega, alla quale per altro è connessa dalla natura
programmatica di trattazione in versi intorno alla natura d'amore e
all'ideologia del poetare. Per inciso, di soli endecasillabi gode di
essere intessuta anche la dottrinale Voi che 'ntendendo, che
Dante citerà, anche con intento autocritico, nel Paradiso (un
po' come qui, in Purgatorio, aveva già fatto intonare da
Casella Amor che ne la mente).
In ogni caso, il luogo
decisivo è, ovviamente, la risposta di Dante, la famosa
autodesignazione per cui egli proclama: «I' mi son un che, quando /
Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch'e' ditta dentro vo
significando». Che è una sorta di ristrutturazione di quanto era
già nitidamente espresso nella prosa del «libello» giovanile.
Spinto dalla «volontade di dire», e tuttavia esitante, non avendo
«ardire di cominciare», diviso tra «disiderio di dire» e «paura
di cominciare», onde inaugurare la poetica della «loda» della
«gentilissima» Beatrice, Dante attende finché la sua lingua, un
giorno, «parlò quasi come per sé stessa mossa». Passano ancora
«alquanti die», e finalmente egli comincia «una canzone con questo
cominciamento», che è appunto Donne ch'avete. La risposta di
Dante a Bonagiunta non soltanto riecheggia diversi altri luoghi della
Vita nuova, che proclamano strenua fedeltà al volere e al
dettare d' Amore, ma riprendono il luogo topico, di ampia diffusione
nella cultura medievale, sacra e profana, di Amore (e di Dio stesso)
come dictator, onde le penne dei poeti e dei santi «di retro
al dittator sen vanno strette».
È una risposta quale
poteva e doveva dare, nel 1300, l'autore delle «nove rime», anche
se strategicamente dilatabile ormai, al buon intenditore che legga la
Commedia, sino al «sacrato poema», con un supplemento di
senso affatto inedito. Ma è pur vero che le «nove rime» erano
elaborate, come Bonagiunta lamentava in un noto sonetto polemico
indirizzato al Guinizzelli, con un mutamento radicale nella «manera
/ de li plagenti ditti de l'amore», avendo in mente, non c'è
dubbio, la guinizzelliana Al cor gentil. Ma il Dante 1300, se
è il Dante che ha già sostituito (proprio con la sua poetica della
«loda»), alla donna angelicata, una Beatrice che è un vero angelo,
e ha dunque rifondato una sua specifica dottrina d' amore, è quello
che ancora non ha incontrato, nel suo itinerario, quel suo
Guinizzelli che, per quella medesima canzone, sarà presto ritrovato,
una cornice più su, tra i lussuriosi peccanti di amore
«ermafrodito». C'era già stata la rivelazione folgorante di
Francesca da Rimini, sulla congiunzione di amore e gentilezza, è
vero. Ma qui è sottolineato, teste Bonagiunta, che il vero «dolce
stil novo» è quello che Dante ha fondato, e che liquida ormai come
irricevibili, comunque, le poetiche del Notaro, di Guittone, di
Bonagiunta appunto. Se si prescinde da una siffatta svolta
ideologica, che al solito è anche una svolta di linguaggio, non si
coglie più il «nodo» discriminante, e non si misura la distanza
che corre «da l' uno a l' altro stilo».
Detto questo, è pure
bene rammentare che Dante, grande narratore, e grande autore
drammatico, nel suo «poema sacro», con straordinaria avvedutezza
costruttiva, interpone l'incontro con Bonagiunta, come una sorta di
intermezzo, nell'arco compatto che stringe questo capitolo del
Purgatorio al precedente, all'interno dell'incontro con Forese. Anche
quello è, in altra forma, un dibattito, per molti versi,
sull'ideologia poetica e sopra l'etica della scrittura.
Non si può intendere il
colloquio, e la vergogna che coglie i due fiorentini nel «memorar»
la loro giovinezza («qual fosti meco, e qual io teco fui»), senza
fare riferimento ai sonetti della loro famosa tenzone: un testo che,
a volerlo udire, per dirla dantescamente, è «bassa voglia». Da
questi non soltanto si apprende quanta «roba» Forese ha messo «giù
per la gola» (i «petti de le starne» e la «lonza del castrone»),
ma si misura la forza della radicale ritrattazione espiativa delle
violente insinuazioni che coinvolgevano la «malfatata / moglie di
Bicci vocato Forese». Ormai Nella è celebrata come diletta e devota
«vedovella». Ma, a stringere tematicamente l'esplorazione della
cornice dei golosi, facendo forza su Forese, stanno, in primo luogo,
i vincoli di sangue. E c'è Piccarda, e si prepara il sublime
incontro che avverrà nel cielo della Luna, e, in toni radicalmente
opposti, Corso, di cui il goloso infine profetizza, con colori
visionari violenti, lo sprofondamento infernale, nella «valle ove
mai non si scolpa».
Così, se la prima parte
del colloquio, nel canto XXIII, poteva approdare infine, evocando la
sorella, alla deprecazione di quella nuova Barbagia impudica che è
la corrotta Firenze, e che presto sarà punita per le sue
dissolutezze, questo XXIV può ribadire come una «trista ruina»
attenda la città che, ogni giorno di più, si spoglia di ogni
pregio. E il fratello Corso appare come colui che, di tutto questo,
«più n' ha colpa».
Il «poema sacro», del
resto, è, in primo luogo, opera di vaticinio, è conquista e
svolgimento di una missione profetica, è il grande annuncio della
vittoria del veltro sopra la lupa.
Corriere della Sera 20
luglio 2004
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