Nel mese scorso una
sentenza del Consiglio di Stato pare abbia trovato una soluzione,
negativa, alla spinosa vicenda della trascrizione italiana dei
matrimoni omosessuali contratti in paesi dell'Unione Europea che li
consentono. Non si trattava di una sentenza obbligata. Il
costituzionalista Massimo Villone spiega qui i termini della
questione. (S.L.L.)
Il Consiglio di Stato ha
posto la parola fine alla vicenda delle trascrizioni dei matrimoni
contratti all'estero tra persone del medesimo sesso. La trascrizione
non è consentita, perché la mancanza del requisito del sesso
diverso rende quel matrimonio un atto giuridicamente nullo, ed anzi
«inesistente». Ed è ovvio che una inesistenza non è
trascrivibile.
È una sentenza
ideologicamente orientata, perché tra le scelte interpretative
possibili, sempre molteplici, sceglie quella indirizzata verso il
diniego della trascrizione. La ragione traspare da una frase
rivelatrice, per cui la diversità del sesso deve ritenersi
indispensabile «in coerenza con la concezione del matrimonio
afferente alla millenaria tradizione giuridica e culturale
dell'istituto, oltre che all'ordine naturale costantemente inteso e
tradotto nel diritto positivo come legittimante la sola unione
coniugale tra un uomo e una donna».
Qualunque giurista, anche
apprendista o in prova, sa che l'ordine naturale è concetto dal
quale è bene tenersi lontani. Il diritto è sempre una realtà
storicamente e territorialmente determinata, anche quando si
autodefinisce in termini di perenne universalità. Ed è appena il
caso di notare che la «millenaria tradizione», qualunque cosa se ne
pensi in principio, è largamente venuta meno. Quasi tutti i paesi di
«tradizione giuridica e culturale» affine o assimilabile alla
nostra riconoscono giuridicamente il rapporto tra persone dello
stesso sesso. E questo dimostra che non c'è alcun «ordine
naturale», tanto meno «costantemente tradotto». Se ci fosse stato,
non sarebbe accaduto.
A meno di non voler
ritenere che quei paesi si siano collettivamente consegnati al
peccato e al demonio. E che spetti al nostro difendere fino in fondo
le ragioni della purezza e della grazia.
La scelta della
«inesistenza» è coerente con la premessa dell'«ordine naturale».
Porta a conseguenze paradossali. Supponiamo che due persone del
medesimo sesso abbiano doppia cittadinanza, in Italia e in uno stato
estero che riconosce il matrimonio tra omosessuali. Si sposano in
quello stato, e secondo gli articoli 27 e 28 della legge 31 maggio
1995, n.218, che disciplina la fattispecie, il matrimonio da loro
contratto all'estero dovrebbe essere valido anche in Italia. Invece,
è inesistente. Quindi, nel momento in cui scendono dall'aereo e
pongono piede sul territorio italiano il loro status giuridico cambia
da coniugati a single, in modo istantaneo e automatico. Niente figli,
niente comunione di beni, niente diritti e obblighi reciproci.
Semplici conoscenti occasionali. Quando risalgono sull'aereo, tutto
si ristabilisce. Uno scenario insensato.
In Italia, i giudici
hanno retto in larga misura il peso del cambiamento. È per la via
giudiziale che il diritto a formare una comunione stabile di affetti
e interessi, ad avere dei figli, ad educarli, è stato costruito come
un diritto fondamentale e inviolabile di ogni persona. Un diritto che
come tale prescinde dal sesso. E che essendo di ognuno non può
essere compresso o negato dal legislatore in base a una definizione
legislativa della coppia.
Lo dice la Corte
costituzionale. Ad esempio nella sentenza 162/2014, sulla
fecondazione eterologa. Ma va aggiunto che in buona parte il problema
nasce con la stessa Corte. Con la sentenza 138/2010 lesse nel
matrimonio di cui all'articolo 29 la disciplina del codice civile del
1942, che ovviamente conosceva soltanto la coppia formata da due
persone di sesso diverso. Ben si poteva invece dare una lettura
evolutiva, che tenesse conto del nuovo. Ma la Corte non lo fece. E
solo parzialmente ha poi recuperato con la sent. 170/2014, sul
cosiddetto divorzio automatico o imposto nel caso di cambio di sesso
di uno dei coniugi. Ha affermato il diritto a una piena tutela
giuridica della coppia del medesimo sesso, dichiarando la
incostituzionalità. Ma ha rinviato al legislatore, rimanendo la
distinzione posta nella sentenza 138 con la miope lettura della
nozione costituzionale di matrimonio. Ha così caricato sui diritti
fondamentali tutto il prezzo dell'inerzia legislativa. Ed è appunto
quel che oggi accade.
Non era nemmeno
necessario arrivare alla Corte di Strasburgo (Oliari e altri contro
Italia, 21 luglio 2015) per sapere che il vuoto normativo sul tema
era ed è inaccettabile. La nostra Costituzione avrebbe certamente
retto una sentenza più coraggiosa, e una interpretazione evolutiva.
In questa materia e in molte altre cose, è più avanzata non del
paese, ma delle scelte politiche oggi espresse nelle istituzioni.
Forse da questo punto la sentenza del Consiglio di Stato servirà a
qualcosa, spingendo il disegno di legge Cirinnà-bis fuori dalle
secche in cui è con ogni evidenza finito.
Il Consiglio di Stato non
ha inteso leggere il cambiamento. Al contrario, la sentenza avrebbe
potuto essere scritta tal quale venti o trenta anni fa. Una sentenza
vintage, da antiquariato giurisprudenziale. Il relatore Deodato è
accusato di integralismo per le posizioni adottate sui social
networks e si difende dicendo che la pronuncia è collegiale. Lo
sappiamo. Ma sappiamo anche che il relatore ha un peso decisivo sulla
pronuncia, e che la relazione normalmente non si affida a chi è noto
per le esternazioni già fatte in materia.
In ogni caso, una
sentenza che non rende al giudice un buon servizio. In uno Stato
laico, la giurisdizione è il tempio del diritto, non di una fede. Di
nessuna fede.
“il manifesto”,
29.10.2015
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