“Il poeta con la penna,
l'artista con il pennello,
il cuoco con il coltello”
Forse non esiste coltello
più versatile, o più essenziale per una cultura gastronomica, del
tou cinese. Questa lama meravigliosa viene spesso
denominata «mannaia» perché ha la stessa forma squadrata - ad
ascia - dell’attrezzo che i macellai usano per tranciare gli ossi.
L’uso del tou, tuttavia, è quello di un coltello da cucina
polivalente (per una volta, questo aggettivo non è un’esagerazione).
Secondo E.N. Anderson, un antropologo specializzato nell’area
geografica asiatica, questo utensile incarna il principio del
«minimassimo»: trarre il massimo valore dal minimo costo con il
minimo sforzo. L’accento è posto sulla frugalità: la migliore
cucina cinese fa emergere il massimo potenziale dal minimo numero di
strumenti. Il tou risponde a questo requisito. Questo coltello
dalla lama grande, scrive Anderson, è utile per:
Spaccare la legna, sfilettare e squamare il pesce, affettare le verdure, tritare la carne, schiacciare l’aglio (con il lato smussato della lama), tagliarsi le unghie, temperare le matite, intagliare nuove bacchette, uccidere i maiali, radersi (viene tenuto sufficientemente affilato, o si suppone che lo sia) e pareggiare conti vecchi e nuovi con i nemici.
A rendere il tou
ancora più versatile è il fatto che, a differenza dell’ulu
degli inuit, ha contribuito a rendere tale una delle due cucine più
importanti del mondo (l’altra è quella francese). Sin
dall’antichità, la principale caratteristica della cucina cinese è
l’unione dei sapori grazie al taglio sottile degli ingredienti. Il
tou ha il merito di aver contribuito a questo scopo. Durante il regno
della dinastia Zhou (1045-256 a.C.), quando il ferro fu introdotto in
Cina per la prima volta, l’arte della gastronomia raffinata si
chiamava k’o’peng, ossia «taglia e cuoci». Si diceva che
Confucio (vissuto tra il 551 e il 479 a.C.) si rifiutasse di mangiare
la carne tagliata in modo insoddisfacente. Intorno al 200 a.C., i
ricettari utilizzavano ormai molte parole diverse per indicare le
azioni del taglio e della tritatura, segnalando così una notevole
abilità nell’uso dei coltelli (dao gong).
Il classico tou ha
una lama lunga da diciotto a ventotto centimetri. Fin qui, dunque,
ricorda da vicino un coltello da chef europeo. La differenza più
vistosa è la larghezza della lama: circa dieci centimetri, quasi il
doppio del punto più largo di un coltello da chef. Il tou,
inoltre, non presenta rastremazioni, curvature o restringimenti. È
un ingombrante rettangolo di acciaio, ma quando lo si impugna ci si
rende conto che è anche sorprendentemente sottile e leggero, molto
più maneggevole di una mannaia francese. Richiede inoltre di essere
usato in modo diverso da un coltello da chef. In Europa, l’operazione
di taglio prevede perlopiù un movimento «a locomotiva» in cui si
dondola la lama avanti e indietro, seguendo il gradiente. Per via
della struttura piatta, il tou spinge invece a tagliare con un
movimento dall’alto verso il basso. Un cuoco cinese produce un
suono più intenso e più insistente di un collega francese: una
serie di colpi secchi anziché di picchiettii. La rumorosità,
tuttavia, non è indice di una tecnica rozza: con quest’unico
arnese, i cuochi cinesi producono una gamma di forme molto più ampia
di quella consentita dalle molteplici lame della cucina francese
(dadini, listarelle eccetera). Un tou è in grado di creare fili di
vario spessore (persino più sottili di capelli d’angelo), nonché
fette, cubi, strisce e trance, per citare solo alcuni esempi.
Questo utensile geniale
non ha un unico inventore o, se ce l’ha, il suo nome è caduto
nell’oblio. Il tou - e la gastronomia che ha generato - fu
un prodotto delle circostanze. La ghisa, scoperta in Cina intorno al
500 a.C., era più economica da produrre rispetto al bronzo, il che
permise di fabbricare grossi coltelli di metallo con manici di legno.
Soprattutto, il tou fu il risultato di una frugale cultura
contadina: era in grado di ridurre gli ingredienti a pezzi abbastanza
piccoli perché i sapori si mescolassero e i frammenti cuocessero in
tempi brevissimi, probabilmente sopra un braciere portatile. Questo
coltello era un utensile parsimonioso, che sapeva sfruttare al
massimo anche la più piccola quantità di combustibile: tagliate
ogni cosa a pezzettini, cuocete rapidamente, non sprecate nulla. Dal
punto di vista tecnologico è molto più ingegnoso di quanto sembri
di primo acchito. Insieme al wok, il tou consente di
estrarre il massimo sapore dal minimo indispensabile di energia.
Quando si friggono gli alimenti accuratamente sminuzzati, si espone
all’olio una superficie più estesa, che diventa così dorata,
croccante e appetitosa.
Come ogni tecnologia, il
tou ha pregi e difetti: la fatica e l’abilità necessarie
alla preparazione degli ingredienti sono compensate da tempi di
cottura molto rapidi. Un pollo intero impiega più di un’ora per
cuocere in forno; persino un singolo petto può richiedere venti
minuti. I pezzi di pollo tagliati con il tou, invece, sono
pronti in cinque minuti o anche meno; il tempo risparmiato viene
assorbito dall’operazione del taglio (benché, nelle mani giuste,
anche questa può essere rapidissima; su YouTube si può vedere lo
chef Martin Yan che fa a pezzi un pollo in diciotto secondi). La
gastronomia cinese varia molto da una regione all’altra: il pepe di
Sichuan, i fagioli neri e i frutti di mare di Canton. Ad accomunare i
cuochi di zone lontane sono però la maestria nell’uso del coltello
e l’attaccamento a questo attrezzo particolare.
Il tou era ed è
tuttora alla base dell’organizzazione della cucina cinese. Ogni
pasto deve comprendere il fan - una parola che normalmente
significa riso, ma che può designare anche altri cereali oppure i
noodles - e lo ts’ai, piatti di verdure e carne. Il
tou è un componente più essenziale dei singoli ingredienti
del pasto, perché è questo utensile a tagliare il ts’ai e
a dargli varie forme. Esiste poi un’ampia gamma di metodi di
taglio, con il relativo lessico; prendete una carota: la affetterete
verticalmente (qie) o orizzontalmente 8 (pian) Oppure
la sminuzzerete (kan)? In questo caso, per quale forma
opterete? Fettine (si), cubetti (ding) o frammenti
grossolani (kuai)? Qualunque sia la vostra scelta, dovrete
rispettarla fino alla fine; un cuoco si giudica dall’accuratezza
dei colpi di coltello. Avete mai sentito la famosa storia di Lu Hsu,
un prigioniero sotto l’imperatore Ming? Mentre era in cella
ricevette una ciotola di stufato, e capì subito che era stata sua
madre a portarlo: solo lei sapeva tagliare la carne in quadrati così
perfetti.
I tou hanno un
aspetto spaventoso. Se maneggiate dalla persona giusta, però, queste
lame minacciose sono strumenti delicati e garantiscono la stessa
precisione che uno chef francese ottiene con una serie di coltelli
specifici. In mani abili, il tou taglia lo zenzero a fettine
sottili come pergamene, e riduce le verdure a dadini così piccoli da
sembrare uova di pesce volante. Da solo, è in grado di preparare un
banchetto completo, permettendo di ricavare scaloppine quasi
trasparenti o pezzetti di fagiolini lunghi cinque centimetri e di
intagliare i cetrioli per farli somigliare a fiori di loto.
Questo strumento è più
di un semplice utensile per la cucina raffinata. In tempi di crisi
economica, gli ingredienti costosi si possono tranquillamente
omettere, purché la precisione del taglio e gli aromi restino
invariati. In Cina, questo coltello creò una straordinaria
omogeneità culinaria tra i ceti sociali, a differenza della
gastronomia britannica, dove i cibi ricchi e i cibi poveri si
distinguevano chiaramente (i ricchi gustavano il roast beef,
consumato intorno a una tavola apparecchiata; i poveri si
accontentavano di pane e formaggio, mangiandoli con le mani). In
Cina, il cuoco povero avrà forse molte meno verdure e carne da
cucinare rispetto a un collega ricco, ma tratterà gli ingredienti
nello stesso modo. A rendere cinese un pasto è soprattutto la
tecnica. Lo chef prende il pesce e la selvaggina, gli ortaggi e la
carne, nelle loro varie forme, e li tramuta in bocconi dalla
geometria impeccabile.
La principale virtù del
tou è la possibilità di evitare l’uso del coltello mentre
si mangia. In Cina, infatti, i coltelli da tavola sono considerati
superflui e persino un po’ volgari. Tagliare il cibo durante i
pasti è un atto brutale. Una volta che il tou ha fatto il suo
dovere, i commensali devono solo prendere i pezzi con le bacchette.
Tou e bastoncini lavorano in simbiosi: il primo taglia, i
secondi portano il cibo alla bocca. Ancora una volta, si tratta di un
metodo più frugale del classico approccio francese, in cui,
nonostante la laboriosa attività in cucina, sono necessari altri
coltelli per gustare la pietanza.
Il tou e i suoi impieghi
rappresentano una cultura dei coltelli che si colloca agli antipodi
di quella europea (e dunque americana). Quando uno chef cinese
utilizzava una sola lama, il suo omologo francese ne usava molte, e
con funzioni assai diverse: coltelli da macellaio e disossatori,
coltelli da frutta e da pesce. Non era solo una questione di
utensili. Il tou incarnò un modo di cucinare e mangiare molto
lontano dal cerimonioso stile europeo. C’è un abisso tra un piatto
di minuscole fettine di vitello, fritte come si fa nel Sichuan - con
sedano e zenzero senza aggiunta di grassi -, condite con pasta di
fagioli rossi e accompagnate da vino Shaoxing in un accurato
equilibrio di sapori, e una bistecca francese, intera e al sangue,
servita con un coltello affilato e con senape a piacere. I due pasti
simboleggiano due diverse concezioni del mondo, così come la
voragine tra la cultura dello sminuzzare e quella del trinciare.
Da In punta di
forchetta, Rizzoli, 2013
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