Il 15 dicembre del 1989, al tempo della Bolognina, “l’Unità” era diretta da Massimo D’Alema e condiretta da Renzo Foa, che dopo, nonostante il glorioso cognome, passò con Berlusconi e dopo ancora morì, relativamente giovane, forse per la vergogna.
Il quotidiano risentiva del momento travagliatissimo sul piano internazionale e sul piano interno, oltre che degli effetti non sempre positivi della direzione e della condirezione. Il gadget regalato quel giorno ai lettori del quotidiano, che era ancora organo del Pci, appariva una piccola cosa rispetto ai tempi del direttore Veltroni che si concedeva più lussi. E tuttavia mi pare che nascesse da una buona idea e da una buona pratica (come si dice oggi), che discendesse da una buona scuola.
Si trattava di un libretto, che raccoglieva dieci interviste di Eugenio Manca a persone che svolgevano mestieri un po’ speciali, creativi, dal poeta all’editore, dal cantautore alla restauratrice d’arte. Tema dell’intervista e titolo del volume I ferri del mestiere. Ma la novità maggiore, sottolineata dalla acuminata presentazione di Tullio De Mauro, era il “prima dell’intervista”: a 10 persone “della strada” molto giovani, studenti e lavoratori, avevano proposto una domanda su quei 10 mestieri. Le risposte avevano un elemento comune: attribuivano a quei mestieri un’aura romantica e chi li praticava una patente di “genio e sregolatezza”. Le risposte, poi, venivano usate come “reagente”, venivano fatte leggere al “personaggio” pubblico, più o meno famoso, prima della conversazione sui ferri del mestiere. Ne vengono fuori interviste belle e problematiche, con tante insicurezze e una nota comune. Tutti sottolineano l’elemento di fatica e disciplina richiesto dall’attività che svolgono, sfatando le leggende che ancora circolavano nella gioventù. Da quell’aureo libretto, che temo non si conservi neanche in biblioteca, riprendo qui la risposta di Davide, 17 anni, apprendista carrozziere a Roma, alla domanda su chi fosse il poeta. Il primo commento del grande Giorgio Caproni fu: “dev’essere un ragazzo sveglio questo Davide…”. (S.L.L.)
Il quotidiano risentiva del momento travagliatissimo sul piano internazionale e sul piano interno, oltre che degli effetti non sempre positivi della direzione e della condirezione. Il gadget regalato quel giorno ai lettori del quotidiano, che era ancora organo del Pci, appariva una piccola cosa rispetto ai tempi del direttore Veltroni che si concedeva più lussi. E tuttavia mi pare che nascesse da una buona idea e da una buona pratica (come si dice oggi), che discendesse da una buona scuola.
Si trattava di un libretto, che raccoglieva dieci interviste di Eugenio Manca a persone che svolgevano mestieri un po’ speciali, creativi, dal poeta all’editore, dal cantautore alla restauratrice d’arte. Tema dell’intervista e titolo del volume I ferri del mestiere. Ma la novità maggiore, sottolineata dalla acuminata presentazione di Tullio De Mauro, era il “prima dell’intervista”: a 10 persone “della strada” molto giovani, studenti e lavoratori, avevano proposto una domanda su quei 10 mestieri. Le risposte avevano un elemento comune: attribuivano a quei mestieri un’aura romantica e chi li praticava una patente di “genio e sregolatezza”. Le risposte, poi, venivano usate come “reagente”, venivano fatte leggere al “personaggio” pubblico, più o meno famoso, prima della conversazione sui ferri del mestiere. Ne vengono fuori interviste belle e problematiche, con tante insicurezze e una nota comune. Tutti sottolineano l’elemento di fatica e disciplina richiesto dall’attività che svolgono, sfatando le leggende che ancora circolavano nella gioventù. Da quell’aureo libretto, che temo non si conservi neanche in biblioteca, riprendo qui la risposta di Davide, 17 anni, apprendista carrozziere a Roma, alla domanda su chi fosse il poeta. Il primo commento del grande Giorgio Caproni fu: “dev’essere un ragazzo sveglio questo Davide…”. (S.L.L.)
I poeti? Mah, non ne conosco manco uno. Se lo incontro, un poeta, io non lo so riconoscere. Non è come un avvocato, che so?, o un dottore, che li vedi sempre con la borsa e le carte. Quello di questa macchina, per esempio, è un dottore. Si vede anche dalla croce rossa sul vetro. I dottori han sempre fretta, corrono sempre, e magari vanno a tamponare. Come questo qui. I poeti non lo so se hanno fretta. Non credo. Mica devono andare a curar la gente, loro.
Come sono fatti? come tutti gli altri, no? Oddio, è curioso immaginare un grande poeta come uno qualunque, che ha la famiglia, che guida la macchina, va a fare la spesa… Io penso al poeta come a uno che ha sempre la testa fra le nuvole, tutto spettinato, uno che corre appresso alle fantasie, mica alle cose vere che capitano ogni giorno. Sta per aria. Ha sempre in testa quella cosa, e va su e giù con le parole finché non trova quelle giuste. Magari se le inventa. Perché non sempre li capisci. Ci sono parole che non ti basta il vocabolario. Però quando leggi certe poesie, per esempio certe poesie d’amore, ti sembra… ti sembra.. Poi magari stai peggio di prima.
Ah, non lo so a che serve la poesia. Io questo non lo so proprio. Però a me piace. Più o meno. Anche a scuola mi piaceva: Leopardi, Carducci, Trilussa. Soprattutto Leopardi. Pure adesso. Quando si lavora di martello no, ma quando si passa lo stucco, e stai per ore e ore a scartavetrare, a lisciare, passa e ripassa, su e giù, allora mi viene in mente qualche verso: la donzelletta vien dalla campagna…, e lo ripeto, ma sottovoce, se no gli altri operai chi sa cosa pensano. Leopardi mi piace, ma ammazza!, sono tutti così tristi i poeti?
Non lo so come uno sceglie di fare il poeta. Non è un mestiere come gli altri. Penso che uno se lo sente quando è piccolo, no? Però non c’è nessuno dei miei amici che mi ha setto: sai voglio fare il poeta. Il carrozziere, il calciatore, il cantante sì. Il poeta no. Sarà perché la poesia non si mangia, mentre invece di automobili ce n’è tante e i carrozzieri servono di più. Anche se di carrozzieri ce ne stanno ‘na cifra…
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