18.7.17

Adonis, poeta, siriano. Intervista di Leonardo Martinelli

 “La poesia è come una donna,
vuoi amarla ogni giorno”

“Il Corano disprezza i poeti
ma per gli arabi erano fondamentali.
Ho scoperto la potenza delle parole 
grazie a mio padre contadino”

Ali Ahmad Sai‘id Esber, Adonis, nato in un villaggio siriano nel 1930 si è laureato in filosofia a Damasco. Poeta, scrittore, giornalista, ora vive a Parigi. Tra le sue opere, le poesie, Memoria del vento, Storia lacerata nel corpo di una donna, e i saggi La preghiera e la spada, La musica della balena azzurra, Oceano nero.
«È la lingua/ che mi abita in tuo nome – ha fatto scorrere/ il suo sangue in me in tuo nome – ha cantato/ i nostri corpi e quel che c’è stato tra me e te./ Che cosa sono queste lettere sparse/ dalla foresta dell’amore in noi?». Adonis legge con cura e passione. Scorrono i versi e scende giù il caffè libanese, troppo forte e troppo dolce, mentre lui a tratti ride, rannicchiato nel suo appartamento parigino. Sentimentale il più grande poeta arabo contemporaneo? «Quella parola non mi piace. Direi che è carnale quello che scrivo. Ma esiste sempre un pensiero all’origine di ogni composizione: come per tutti i poeti, da Eraclito a Dante, fino a Rimbaud».
Giovedì esce per Guanda la sua ultima raccolta, La foresta dell’amore in noi. Ci ha messo un anno per scrivere tutte queste poesie, brevi e certe volte brevissime (« Solo questa lapide/è rosa eterna »). Evoca esilio e migrazioni, ma soprattutto mani, fianchi, natiche, seni e corpi. Ha 87 anni Ali Ahmed Saïd Esber, il suo vero nome. Ma è terribilmente giovane dentro. Ancora tanta la voglia di viaggiare, raccontare, amare.

Com’era la vita da piccolo a Qassabin, il suo villaggio d’origine?
«Si trova sospeso fra il mare e la montagna, nel nord della Siria. Non ho conosciuto una vera infanzia: dai miei primi passi, ho subito fatto parte della vita nei campi. Non c’era scuola, né elettricità. Qassabin era poverissima».
Ma la poesia entrò subito nella sua vita…
«Mio padre era un contadino. Ma colto, amava la poesia araba e in particolare quella sufi. Era musulmano, ma mistico: la sua religione non era istituzionale. Sfogliavamo manoscritti antichi. È lui ad avermi insegnato a leggere e scrivere. Poi, noi bambini andavamo sotto un albero: c’erano anziani che si occupavano di noi, leggevamo insieme».
È vero che una poesia ha cambiato radicalmente la sua vita?
«Avevo appena 13 anni. Choukri al-Kouatli era diventato presidente della Siria, che stava uscendo dall’epoca del mandato francese. Venne dalle nostre parti. Feci un sogno a occhi aperti: avrei scritto una poesia in arabo classico, l’avrei declamata davanti al presidente e poi lui, ammirato, mi avrebbe chiesto: “Cosa posso fare per te?”. Avrei risposto: andare a scuola».
E allora?
«Andò proprio così. Mi ritrovai, almeno per due anni, in un liceo francese».
Quando diventò Adonis?
«Più tardi, a 17 anni. Scrivevo poesie, ma non proprio classiche. Cambiavo già la metrica e soprattutto il ritmo, l’arrangiamento musicale delle unità metriche. Le inviavo a giornali siriani, ma nessuno le pubblicava. Un giorno, per caso, lessi del mito di Adone, divinità della bellezza e della caccia, amata da Astarte, diventata Afrodite e poi Venere. Un giorno Adone era andato a cacciare il cinghiale, ma alla fine il cinghiale, infuriato, lo aveva ucciso. Il suo sangue si trasformò in anemone, il rosso papavero. Ecco, diventai Adonis».
Perché?
«Nella mia testa quelle riviste erano cinghiali che volevano uccidermi… Già al primo tentativo funzionò: pubblicarono le mie poesie. Quando mi videro, un ragazzino, malvestito, non mi credevano. Ma quale Adone…».
Nel 1956 lei dovette lasciare Damasco, ormai perseguitato politico. Poi dall’inizio degli anni Ottanta si trasferì a Parigi. Dove si sente davvero a casa sua?
«A Beirut, perché è una città mai chiusa in maniera definitiva. Beirut è un progetto, aperto su tutte le possibilità. È come la mia vita, un progetto rifatto all’infinito».
Perché la poesia è così importante nel mondo arabo?
«Prima dell’islam il poeta pretendeva di dire la verità: la poesia dava il senso del mondo. Con Maometto la visione è cambiata: non è la poesia che dice la verità, ma la religione. Nel Corano si disprezzano i poeti, come in Platone. Ebbene, all’inizio non si faceva più poesia. Ma poi, in particolare dall’epoca abbaside, la religione è diventata solo un mezzo per il potere. Si è messo l’islam da parte e si è lasciata la gente pensare liberamente. Si è sviluppata di nuovo una grande poesia. E la filosofia osava dire che la religione non poteva spiegare il mondo. I poeti non erano credenti ma vivevano “sotto l’egida dell’islam”, che aveva il potere politico».
Anche lei si inserisce in questa tradizione…
«Sì, ma diciamo che sono un mistico senza Dio. Una sola forza, che si chiama Dio, e che dirige il mondo dall’esterno per me non esiste. Credo, invece, in una forma di panteismo».
Cosa rappresenta per lei questa raccolta di poesie, che sta per uscire in Italia?
«L’astrazione dello spirito dal corpo per me è solo un fenomeno religioso, una falsità. Il corpo umano è un tutto e, se esiste uno spirito, questo è la pelle, il corpo, che è spirituale. E il corpo della donna è un continente: per capirlo, bisogna rivederlo ogni giorno. Non si fa mai l’amore due volte. Credo di avere espresso in La foresta dell’amore in noi questo concetto meglio che altrove. Una poesia carnale, che parte da un pensiero…».
Quale il maggiore rischio della poesia?
«Non deve dare risposte, altrimenti cade nella religione o nell’ideologia. La poesia non può cambiare il mondo, ma darne solo una nuova immagine. Non è uno strumento».
Si dice che la poesia è in crisi, che non si legge più…
«La crisi non è della creazione poetica, ma culturale. La storia, la rivoluzione tecnica, la trasformazione dei media: tutto questo banalizza ciò che vi è di più grande ed essenziale. È la mondializzazione, una crisi culturale. L’Europa, in questo senso, vive grossi problemi. La separazione tra la politica e la cultura diventa sempre più forte. Così l’Europa s’islamizza. Nel mondo arabo non c’è alcun rapporto fra la politica e la cultura. Che vuol dire: non c’è politica».
Chi legge oggi la poesia?
«In realtà i lettori sono più interessanti e profondi, perché più puri: non si leggono più le poesie in una prospettiva politica e sociale. Poi sono spesso creatori di poesia».
Da quanto tempo non va più in Siria?
«Dal 2010. Mia madre nel frattempo è morta. Mi odia il regime di Bashar al-Assad, mi odia l’opposizione. Mi odiano tutti: meglio così. La rivoluzione è stata solo una menzogna».
Il suo sogno?
«Che ci siano elezioni libere, sotto l’egida dell’Onu, ci credo ancora. Ne ho un altro».
Quale?
«Che non si identifichi più il popolo siriano con il suo regime. André Parrot, archeologo francese, diceva: ogni uomo civilizzato ha due Paesi, il suo e la Siria. Perché la Siria è l’alfabeto. La prima epopea del mondo. Gilgamesh. La culla dell’umanità».

“Tuttolibri La Stampa”, 1 febbraio 2017

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