27.7.17

La nostra patria nel tempo (Lev Trockij)

Letteratura e rivoluzione è una sorta di storia letteraria del primo Novecento russo che Trockij cominciò a scrivere già durante la cosiddetta “guerra civile”, quando guidava l'Arnata Rossa, e che pubblicò a Mosca nel 1923. Da quel libro è tratto il brano che segue, incipit della seconda parte intitolata Alla vigilia. Le intuizioni del rivoluzionario russo sono più valide oggi che cento anni fa, quando le pensò e le scrisse. Non credo che siano pensabili positivi cambiamenti nella vita dell'umanità (anche “riformistici”, non necessariamente “rivoluzionari”) in un'ottica che non sia internazionalistica ed internazionale. (S.L.L.)
Trockij - Comizio volante a Mosca

«Amo il mio secolo perché è la patria che posseggo nel tempo». L’amo già perché mi permette di allargare di molto i limiti della mia patria nello spazio.
Vaterlandslose Gesellen (individui senza patria!), così l’imperatore germanico chiamò i suoi connazionali che non si lasciavano ubriacare dallo scalpitio equino della grandezza nazionale. Sia pure. Siano pure privi di quella patria ufficiale che è rappresentata dal cancelliere, dal carceriere e dal prete. Ma in vero è beato chi è privo di questa patria, poiché eredita il mondo!
Io amo la mia patria nel tempo, questo ventesimo secolo nato tra tempeste e procelle. Esso reca in sé possibilità illimitate. Il suo territorio è il mondo. Mentre i suoi predecessori stavano allo stretto dentro oasi misere di un extrastorico deserto.
La grande rivoluzione del XVIII secolo fu opera sì e no di venticinque milioni di francesi. La Fayette era chiamato il cittadino dei due emisferi, e Anacharsis Clootz si credeva il rappresentante dell’umanità. Era un’illusione ingenua, quasi puerile. Che cosa sapevano del mondo e dell’umanità, questi poveri barbari del XVIII secolo, che non avevano né il telegrafo né la ferrovia? Lafayette era francese e si batté per l’indipendenza della giovane America, il divino Anacharsis era un barone tedesco e partecipò alle sedute della Convenzione, e alla limitata immaginazione dei loro contemporanei pareva che questi «cosmopoliti» unificassero in sé il mondo. Che cosa si sapeva allora dell’immensa Russia? Di tutto il continente asiatico? Dell’Africa? Erano termini geografici che coprivano un vuoto storico. Né il XVIII secolo né persino il XIX conoscevano la storia universale. Solo noi oggi siamo alla sua soglia.
La «storia universale» di Weber o di Schlosser è una triste compilazione in cui manca la cosa principale: il processo unitario e intrinsecamente coerente dello sviluppo umano. La «storia universale» di Hegel è un processo totale, ma purtroppo esso non è che un’astrazione idealistica, in cui scompare senza lasciar traccia l’umanità reale. Non si deve, tuttavia, accusare gli storici di ciò di cui è colpevole la storia. È la storia che ha creato alcuni mondi chiusi - l’europeo, l’asiatico, l’africano... — e a lungo ha respinto ogni relazione con la stragrande maggioranza dell’umanità. Anche gli storici che non si accontentavano della cronologia delle spade incrociate e volevano essere storici della cultura, in fondo avevano che fare col fior fiore di poche nazioni. Le masse popolari costituivano l’elemento extrastorico. La storia era aristocratica come le classi che la facevano.
Il nostro tempo è grande — e degno di pietà è chi non se ne accorge! - proprio perché ha posto per la prima volta le basi della storia universale. Sotto i nostri occhi esso trasforma il concetto di umanità da una finzione umanitaristica in una realtà storica.
L’arena delle azioni storiche diventa immensamente grande e il globo terrestre paurosamente piccolo. Le rotaie delle ferrovie e i fili del telegrafo hanno rivestito tutto il globo terrestre di una rete artificiale quasi si trattasse di un mappamondo di scuola.
Prima dell’avvento del capitalismo il mondo era campagna. Il capitalismo è venuto e ha svuotato i serbatoi delle campagne, questi vivai dell’ottusità di una nazione, e ha stipato di carne e di cervello umano i bauli di pietra delle città. Superando ogni ostacolo ha avvicinato fisicamente i popoli della terra, e sulla base di queste loro relazioni materiali ha svolto un’opera per la loro assimilazione spirituale. Il capitalismo ha messo sottosopra le vecchie culture e ha dissolto spietatamente nel proprio cosmopolitismo di mercato le combinazioni di stagnazione e pigrizia, che erano considerate caratteri nazionali costituitisi una volta per sempre.


Da Letteratura e Rivoluzione (a cura di Vittorio Strada), Einaudi 1983

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