10.7.17

1989. I conti con Togliatti (Alberto Asor Rosa)

Io sono un comunista che non è mai stato togliattiano: o che, meglio, non ha fatto in tempo a diventarlo. Sono stato iscritto la prima volta al Pci fra il 1952 e il 1957: ammiravo molto Togliatti; ma non posso dire di aver subito in profondità il suo innegabile fascino intellettuale. Non ho fatto neanche in tempo a diventare un comunista stalinista: nel 1957 sono uscito dal Pci perché non riuscivo ad accettare che l'invasione sovietica dell'Ungheria rientrasse nel grande disegno della liberazione mondiale dei popoli oppressi. Togliatti mi appare oggi un personaggio lontano, quasi completamente estraneo alla mia cultura e formazione politica. Questo non significa che non ne veda il ruolo svolto nella storia italiana ed europea dell'ultimo quarantennio: e su quest'ultimo punto vorrei avanzare qualche considerazione.
Qualunque sia oggi il giudizio sul nostro passato, non v'è dubbio, mi pare, che Palmiro Togliatti resti l'unico uomo politico comunista l'unico uomo politico comunista dell'Occidente capitalistico che sia riuscito a coniugare la prospettiva terzinternazionalista, e dunque l'adesione al quadro staliniano, con l'accettazione piena, e a mio giudizio incondizionata, della pratica della democrazia rappresentativa. Nel fatto che abbia tenuto insieme le due cose, consiste altrettanto indubbiamente la sua doppiezza. Ma la doppiezza fa parte ab imis delle qualità del grande politico: ed essa, nel caso nostro, ha funzionato da autentica virtù salvifica, se è vero, com'è vero, che ne è derivato che il movimento comunista sia stato in Italia un movimento di massa e non settario, prospettico ma concreto, con forti tensioni rivoluzionarie ma profondamente riformatore. Tutti sanno ed è inutile tornarvi su questa sede quali strumenti, mezzi ed anche veri e propri espedienti egli abbia usato per raggiungere questo scopo: la strategia delle alleanze, le aperture verso i cattolici, la politica verso gli intellettuali, l'opzione culturale storicistico-marxista (con forti simpatie crociane), la pubblicazione delle opere di Antonio Gramsci in funzione antizdanoviana; accoppiando tutto questo con un senso preciso del carattere mondiale della rivoluzione socialista sotto il segno della solidarietà all'Unione Sovietica e dell'unità indefettibile e intoccabile, ideologicamente fondata, del Partito.
Su ognuno di questi punti la discussione ovviamente è aperta (per taluni di noi, come ho detto, è aperta ormai da trent'anni) e il rifiuto può essere legittimamente assai netto. Ma sul lungo periodo io credo Togliatti verrà ricordato, più che per la sua adesione strategica allo stalinismo, per il capolavoro tattico, che gli ha consentito di edificare una struttura e una tradizione di partito comunista italiano dai caratteri tanto peculiari rispetto agli altri partiti fratelli europei da costituire un unicum piuttosto che un'anomalia. Alla fin fine, si tratta nelle grandi linee dello stesso partito comunista con cui ancora oggi gli altri partiti italiani ed europei fanno i conti: e la durezza dell'attacco portato al rapporto dei comunisti di oggi con la tradizione togliattiana dimostra quanto ancora questo nodo conti nella definizione di una nuova identità comunista. Insomma: è vero, verissimo che spiegare non vuol dire giustificare: ma bisogna stare attenti che non giustificare non porti come conseguenza non spiegare (ed è quanto sta accadendo). Fare la storia in campo politico è difficilissimo (com'è noto): l'unica strada che comunque non si può imboccare è quella che piega il passato al nostro presente. Non dimentichiamoci che non c'è nulla di più staliniano di un uso strumentale dei personaggi e delle vicende della storia: e questo stalinismo del pensiero è riaffiorato qua e là nelle uscite polemiche di molti commentatori anche di liberalissime persuasioni. Insomma, si può fare della storia staliniana anche nei confronti degli stalinisti. Ora, poniamo che i comunisti italiani, facendo oggi i conti con il loro Togliatti, si trovino a sviluppare fino in fondo quella pratica della lotta democratica, che in lui si trovava avvolta, o meglio implicata, nella corteccia della strategia staliniana: le strade che si aprono sono due. O il disvelamento e il compimento della componente democratica della lezione togliattiana portano in prospettiva alla dissoluzione della stessa identità comunista; oppure l'avventurarsi fino in fondo sul terreno della democrazia, e una pratica radicale di essa, conducono alla scoperta di nuove frontiere del conflitto, ad una rinnovata, moderna critica della democrazia capitalistica, a concepire, elaborare e praticare nuove forme dell'opposizione e del governo, ad un allargamento dell'orizzonte stesso della democrazia, ad una profonda riforma della politica stessa e del sistema dei partiti, ad una nuova cultura politica antagonistica (libertà, diritti, espansione delle soggettività, qualità della vita, ecc.). Sono due prospettive egualmente rispettabili, ma si deve sapere che sono molto diverse. A me non par dubbio che il nuovo corso di Achille Occhetto abbia inteso spingere il Pci ad imboccare la seconda strada: quando l'ultimo Congresso indica come un obiettivo da raggiungere una nuova autonomia culturale comunista, non indica, mi pare, un obiettivo di dissoluzione ma di ri-costruzione, in un quadro non più soltanto italiano, ma europeo. Un modo concreto, e non verboso, di andare al di là dell'insegnamento togliattiano sarebbe, ad esempio, quello di rimettere le mani nella macchina Partito, restata, questa sì, sostanzialmente togliattiana (e per tanti versi, dunque, inadeguata, come spesso si vede, alla linea del nuovo corso). Qui vorrei chiudere.
Il giudizio su Togliatti non può essere dato oggi correttamente che in un quadro di relazioni e confronti europei. La dissoluzione della vecchia doppiezza comunista non si realizza in un contesto di certezze sostitutive, già bell'e pronte, che sia sufficiente abbracciare per potersi dire nuovi e di nuovo pronti per la lotta: la crisi del socialismo realizzato corre parallela alla crisi della sinistra progressista europea. In una situazione storica di lunga durata come questa, il tentativo togliattiano di sviluppare una certa forma e visione della democrazia non rappresenta l'ultima, singolare e, in questa chiave, incomprensibile appendice del socialismo dell'Est ma una delle tante, specifiche forme di concepire una strada di progresso e di liberazione nelle condizioni date di una certa porzione dell'Occidente capitalistico. Se questo fosse vero, il rapporto critico (anzi criticissimo, come dicevo all'inizio, anche di superamento, certo, all'accorrenza) con la tradizione e l'eredità togliattiana non dovrebbe essere assunto prevalentemente nel senso di cogliere e rigettare il tratto generico che la caratterizza, ossia lo stalinismo, operazione che ognuno oggi è capace di compiere, quanto di riprendere e sviluppare il suo tratto peculiare e inconfondibile, ossia il tentativo (datato nei contenuti e nelle forme, ma tutt'altro che disprezzabile concettualmente) di collegare un'opposizione di massa e di classe ad un processo di trasformazione e d'inveramento della democrazia. Questo potrebbe essere il contributo specifico dei comunisti italiani (post-togliattiani, senza bisogno d'essere anti-togliattiani) alla costruzione di una nuova sinistra europea.


“la Repubblica”, 2 settembre 1989  

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