5.7.17

Per un secolo che muore (Alberto Asor Rosa)

Benedetto Croce
A leggere il titolo dell' ultimo libro di Luisa Mangoni: Una crisi di fine secolo (Einaudi), vien fatto subito di pensare che si tratti d'un intervento, a caldo, su questi ultimi deludenti scampoli di secolo xx. Invece, il secolo di cui si parla è l'Ottocento, la "crisi di fine secolo" riguarda fondamentalmente il decennio 1890-1900. Ma qualche analogia sussiste con la nostra condizione di ora, come vedremo; e costituisce una parte non piccola dell'interesse, anche appassionato, con cui quest'opera della Mangoni si fa leggere. I temi di Una crisi di fine secolo sono fondamentalmente due: il travaglio critico ed autocritico della cultura positivistica nel periodo precedentemente indicato, e nei primissimi anni del secolo XX; il rapporto tra cultura italiana e cultura francese, soprattutto nell'ambito delle reciproche influenze per ciò che riguarda lo svolgimento e l'approfondimento del primo tema.
Le tesi della Mangoni, esposte con grande chiarezza e forza di persuasione, sono, innanzi tutto, che tra cultura francese e cultura italiana si verifica durante questo periodo un intreccio più fitto e complesso che in altri momenti, all'interno del quale il tradizionale predominio della cultura francese su quella italiana, pur mantenendosi, viene corretto e integrato dalla rapidissima penetrazione in Francia di posizioni e autori italiani (Lombroso, Sighele, Ferrero); e che, in secondo luogo (ma questo costituisce effettivamente l'assunto maggiore e più interessante del lavoro della Mangoni), la cultura positivistica entra in questa fase in uno stato di "corrosione" interna di fronte alle domande che lei stessa si era poste nel corso della sua crescita precedente.
La questione non è di poco conto, anche dal punto di vista di una problematica d'ordine politico-culturale generale. Si potrebbe dire, infatti, che l'esperienza del positivismo europeo anni 1870-90, anche per ciò che riguarda il suo legame storico con la tradizione e l'eredità degli ideali giacobini e rivoluzionari francesi (Libertà - Eguaglianza - Fraternità), rappresenta bene il limite con cui si scontra un'ideologia progressista e scientista ogni qual volta deve fare i conti con una società le cui interne articolazioni, anche di ordine intellettuale, da elitarie e circoscritte si fanno sempre più complesse e sempre più difficilmente governabili. Non a caso, nell'esperienza di questo positivismo autocritico, hanno un così largo posto l'attenzione alla vita e ai caratteri della folla e delle masse (Le Bon, Psychologie des foules; Sighele, L'intelligenza della folla), e ai fenomeni di degenerazione psichiatrica sia individuale che collettiva (ovviamente, Lombroso; ma anche Enrico Ferri, Gabriel Tarde, e molti altri): sia l'una che gli altri - profondamente intrecciati, del resto, fra loro - mettevano in forse, infatti, una concezione rettilinea e progressiva dell'operare umano, sollevando, dall'interno stesso dell'analisi positiva, i fantasmi dei comportamenti irrazionali, delle eccezioni incomprensibili, dei regressi che si sostituiscono ai progressi, dei lucidi programmi che abortiscono nel caos e nella imprevedibilità, della disperata constatazione che il più delle volte le "associazioni" collettive (Parlamenti, Governi, Partiti) si comportano più irrazionalmente o più inspiegabilmente dei singoli individui. Questa crisi profonda degli statuti scientifici s'accompagna (e la Mangoni segue con molta attenzione questo parallelismo) ad un'analoga crisi delle tradizioni politiche della sinistra borghese radicale europea (ma in sostanza, anche in questo caso, soprattutto francese e italiana). Ciò che appare in discussione è la governabilità stessa del sistema, in conseguenza soprattutto di due fattori: i limiti, ideologici e sociali al tempo stesso, del ceto dirigente liberale e radicale (scientista in gran parte, per l'appunto, e laico, anticlericale, progressista); e l'incapacità di governare una società, in cui la contrapposizione fra élites e masse si fa sempre più bruciante, da parte del sistema politico costituzionale liberale, soprattutto nelle sue espressioni rappresentative più pure (anche qui, Francia e Italia).
La critica feroce del parlamentarismo e la reviviscenza di simpatie cesaristiche - osserva la Mangoni - non sono frutto del tutto di un atteggiamento antipositivistico, ma al contrario maturano dall'interno di una tradizione di pensiero positivistico, che marcia, forse senza saperlo e senza volerlo, verso un redde rationem decisivo, su tutta la linea. Quando, nel 1896, Ferdinand de Brunetière pronuncia la famosa conferenza su La Renaissance de l'idèalisme, non si trattava soltanto di riconoscere la portata storica di una crisi teoretica e culturale; si trattava di procedere alla ricostruzione autocritica di un intero sistema di pensiero, in cui "positivismo in crisi e pensiero controrivoluzionario cattolico si alleavano", avendo, ancora sullo sfondo ma già ben presente, un altro valore ripescato come il nazionalismo. L'analisi della Mangoni è svolta con un'eccezionale conoscenza delle fonti e con una invidiabile capacità di cogliere le relazioni tra i diversi fenomeni, opere, personaggi.
Qualche perplessità può destare la constatazione che, nell'approfondire la linea di discorso in precedenza descritta, l'autrice sembri tenere poco conto di autori e di discorsi, che negli anni passati si sono già cimentati a testimoniare e studiare l'"autocorrosione" del positivismo italiano. Penso, ad esempio, a Piero Bevilacqua, che nell' introduzione a Governo e governati in Italia di Pasquale Turiello (Einaudi, 1980), ha mostrato con grande precisione come dal ceppo della critica post-risorgimentale (di destra) ai limiti del parlamentarismo si possa arrivare in un breve giro di anni, ed in effetti si arrivi, alla critica del parlamentarismo (linea Turiello-Mosca, ed oltre); o a Lucia Strappini, che nella introduzione a Scritti e discorsi di Enrico Corradini (Einaudi 1980), aveva già evidenziato la crescita dell'ideologia nazionalistica dallo sviluppo estremo di alcuni ben noti miti positivistici (attraverso la mediazione di Mario Morasso, giustamente ricordato anche dalla Mangoni). Ma l'unica vera obiezione al discorso di Luisa Mangoni riguarda le sue conclusioni, e cioè la deliberata esclusione del giovane Croce e della genesi dell'idealismo italiano dal campo dell'analisi, in base alla seguente considerazione: "Concludere con Croce avrebbe significato... riproporre quello che per tanti aspetti si andava rivelando come un luogo comune della storiografia che fa di Croce l'artefice della sconfitta del positivismo in Italia. Croce fu certamente il protagonista dell'idealismo italiano, cui seppe dare una tradizione, una sistematicità e una durata; ma il suo prevalere avvenne nei confronti di una cultura già profondamente corrosa al proprio interno...".
Ora, che il positivismo arrivi al confronto con l'idealismo già corroso dall' interno, lo abbiamo detto altre volte, e lo abbiamo ripetuto qui con piena persuasione. Ma il discorso sulla crisi del positivismo non ci sembra possa concludersi senza tirare in ballo il nome di Croce, sia perché il giovane Croce è lui stesso il prodotto di quella crisi, sia perché senza il suo pensiero e la sua agitazione quella crisi o non ci sarebbe mai stata o si sarebbe indirizzata verso altri lidi. Basti pensare che, in situazioni differenti, la via d'uscita dalla crisi viene trovata non nel trionfo dell'idealismo ma in forme determinate di positivismo logico e di relativismo scientista, che invece in Italia vengono spazzate via insieme con la tradizione positivistica pura (la storia della fortuna di Vailati è anche da questo punto di vista altamente significativa). Oltre tutto, senza il giovane Croce è difficile capire anche quell'altro essenziale punto della crisi, che è rappresentato dall'intreccio fra il declino "interiore" del positivismo e la complicata storia di ascesa e quasi contemporanea crisi del marxismo, che contraddistingue anch'esso la svolta di fine secolo. La mia persuasione, cioè, è che c'è un periodo, forse di pochi, pochissimi anni, in cui l'intreccio moltiplica vertiginosamente i suoi fili ed è quasi impossibile (ancora impossibile) distinguere nettamente i due schieramenti. Quando l'intreccio si scioglie, i giochi ormai sono fatti. Ma fino a quel momento, la crisi è in atto, nel senso letterale del termine, cioè su ambedue i potenziali versanti messi in gioco. Esiste un lato "positivo" dell'"autocorrosione" del positivismo, che non andrebbe sottovalutato.
La colpa storica di Croce - e quindi la sua importanza grande nella delineazione di questo processo - non è (ovviamente) di aver combattuto il positivismo, è di aver sbarrato la strada alla "risoluzione" della sua crisi, cioè di aver impedito che la sua crisi si svolgesse fino in fondo, di averne sbarrato gli svolgimenti verso una concezione moderna e avanzata del sapere. Per questo, ripeto, a me pare che non si possa spingerlo verso i margini di questo discorso, senza sottrarsi la comprensione di una componente importante del problema stesso.


“la Repubblica”, 7 agosto 1985  

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