23.7.17

Sapiens l’invasore genocida (Claudio Tuniz)

Si parla molto delle cosiddette specie esotiche invasive. Stabilitesi nel nuovo habitat, esse causano l’estinzione di altre specie, facendo variare significativamente gli ecosistemi naturali preesistenti. Nella lunga lista di colpevoli pubblicata dalle autorità che tutelano la biodiversità manca però una specie, di origine africana, che è riuscita in tempi relativamente brevi a invadere l’intero pianeta: Homo sapiens. Su come questo sia potuto accadere, e con quale impatto ambientale, cominciamo ora a farci un’idea, ma esistono ancora molti punti oscuri.
Nel libro Una specie imprevista (il Mulino), il paleontologo Henry Gee ci consiglia di non basarci troppo su quanto archiviato nei pochi resti fossili disponibili per azzardare ipotesi ardite sulla natura e sulle origini umane, e ci ricorda che la nostra evoluzione ha avuto moti aspetti contingenti e casuali. Non saremmo per niente speciali, se confrontati con altri animali. E molte altre specie hanno avuto un grande impatto sull’ambiente, ad esempio i batteri, a cominciare da miliardi di anni fa. In base alle sue considerazioni, quindi, non dovremmo illuderci di essere particolarmente invasivi.
Di parere opposto è il noto scienziato cognitivo Philip Lieberman (La specie imprevedibile, Carocci) che usa la paleoantropologia, l’archeologia e le neuroscienze per dimostrare la nostra unicità. Secondo Lieberman, tra le cose che ci rendono speciali vi è la flessibilità con cui ci relazioniamo con i nostri simili, basata sull’ambivalenza della nostra natura cooperativa e competitiva. Discutendo questo tema nel libro Humans (Springer), scritto con Patrizia Tiberi Vipraio, sostengo che sia stato proprio questo carattere a renderci tanto invasivi.

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Ad ogni modo, speciali o no, non possiamo non restare impressionati dallo spiazzamento operato dalla nostra specie, nei confronti di moltissime altre, in poche decine di migliaia di anni. Quello che era solo un piccolo gruppo di primati bipedi glabri e con un grande cervello è stato capace di espandersi e modificare globalmente l’ambiente del pianeta, con la sua flora e la sua fauna.
Direttamente o indirettamente, abbiamo anche causato, probabilmente, l’estinzione di tutte le altre specie umane che vivevano come noi durante la fine dell’ultima era glaciale: perfino degli Hobbit. Non stiamo ovviamente parlando dei nanerottoli nati dalla fantasia di Tolkien, ma della specie umana scoperta nel 2004 nell’isola di Flores, in Indonesia. Nell’enorme grotta di Liang Bua, a dieci metri di profondità, furono trovati i resti di esseri straordinari. Alti meno di un metro, con piedi piatti enormi, lunghe braccia e un cervello di dimensioni simili a quello di uno scimpanzé, essi presentavano tuttavia molte caratteristiche umane. Ad esempio lavoravano la pietra, producendo strumenti per cacciare topi giganti, elefanti nani e perfino quegli enormi varani i cui discendenti si possono ancora ammirare nelle vicinanze.
Secondo uno studio recentemente pubblicato su «Nature» ora sappiamo che essi si estinsero tra 50 e 60 mila anni fa, proprio in concomitanza con il nostro arrivo in quella regione. Ma siamo stati proprio noi i colpevoli? «Anche se non abbiamo ancora la pallottola che ha fatto fuori gli Hobbit — dice ai giornalisti uno degli autori dell’articolo — abbiamo però trovato la pistola fumante». Questa specie, nota anche come Homo floresiensis, era sopravvissuta su quell’isola durante almeno due ere glaciali. Si discute se si fosse evoluta localmente o provenisse anch’essa dall’Africa.
Noi Sapiens, invece, eravamo sicuramente di origine africana. Il nostro viaggio verso Oriente era durato centinaia di generazioni. Alti e snelli, dipinti con colori e disegni elaborati, usavamo armi con punte micidiali che potevano colpire a distanza. Eppure la nostra pericolosità non era meramente tecnologica; si nascondeva anche nella capacità di immaginare mondi diversi, rispetto a quello osservato, e di aderire a credi, stili di vita e norme di comportamento che ci univano intorno alla stessa «cultura». Essa ci permetteva di formare gruppi ampi e coordinati. Questo ci rendeva una specie particolarmente pericolosa.
È possibile che anche l’uomo di Denisova compaia fra le nostre vittime. Questa specie trae il suo nome dalla caverna siberiana in cui, nel 2010, furono trovati alcuni suoi resti: la falange di un dito mignolo e due denti. Anche questa specie si estingue dopo il nostro passaggio. E che ciò sia accaduto dopo, e non prima di incontrarci, è provato dal fatto che con loro abbiamo avuto alcuni incroci genetici, di cui resta traccia nel Dna delle popolazioni attuali in Oceania e nel Sud-est asiatico.
La storia delle estinzioni che coincidono con il nostro arrivo sembra ripetersi di continuo, e questo riguarda non solo altre specie umane, ma anche molte specie animali di media e grossa taglia. Con il tempo, gruppi di Sapiens attraversarono l’ultimo tratto di mare che li separava dal continente australiano. Dal registro archeologico sappiamo che per milioni di anni enormi animali erano vissuti indisturbati su quel continente, passando attraverso molte ere glaciali. Si trattava di giganteschi marsupiali con il muso da cammello (diprotodonti), uccelli senz’ali di una tonnellata ( genyornis ) e varani di 7 metri ( megalania ), solo per fare alcuni esempi. Tutti scompaiono con il nostro arrivo.
In soli duemila anni si estinguono 23 su 24 specie conosciute superiori a 50 chili e molte altre specie di peso inferiore. Generando vasti incendi per cacciare, modificammo l’intera struttura della catena alimentare del continente. Si è cercato di attribuire questo disastro ai cambiamenti climatici, ma le scoperte archeologiche e paleoclimatiche più recenti confermano la nostra responsabilità. E non sempre si può indicare la caccia indiscriminata come prima causa delle estinzioni. Ad esempio, gli abbondantissimi frammenti dei loro gusci d’uovo bruciati, rinvenuti in tutto il continente, indicano come abbiamo fatto a provocare l’estinzione di Genyornis , 47 mila anni fa. Non è stato solo attraverso la caccia e la distruzione del loro habitat; è stato soprattutto cibandosi delle loro enormi uova.

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Pochi millenni dopo, circa 45 mila anni fa, altri Sapiens arrivarono in Europa, dove da tempo vivevano i nostri «cugini» Neanderthal. Essi erano passati attraverso varie ere glaciali in un’area che andava dalla Spagna alla Siberia, fino al Medio Oriente. Le datazioni di centinaia di campioni provenienti da molti siti archeologici ci dicono che la nostra convivenza con loro sarebbe stata inferiore a 3 mila anni: un periodo relativamente breve, trattandosi di un’altra specie umana molto antica e ben acclimatata. La sostituzione dei Neanderthal da parte nostra è proceduta con uno schema a mosaico che ha accentuato l’allontanamento delle diverse comunità di Neanderthal le une dalle altre.
Gli ultimi residui della loro cultura spariscono dal registro archeologico circa 40 mila anni fa. Ma tracce del loro Dna sono oggi presenti in tutti noi Sapiens usciti dall’Africa, in una proporzione che va dal 2 al 4%. Già prima del nostro arrivo, i Neanderthal avevano comunque subito una profonda crisi demografica, riducendosi a non più di 70 mila individui, suddivisi in piccoli gruppi lontani e isolati fra loro. C’è chi sostiene che l’estinzione dei Neanderthal sia avvenuta perché abbiamo sottratto loro le risorse per sopravvivere. Ma non si può dubitare che fosse già in funzione l’esercizio esagerato della violenza che ha portato noi Sapiens così spesso al genocidio. Per ora non esistono comunque prove della nostra responsabilità diretta nella loro fine.
Storie simili si possono raccontare per le Americhe, dove, in assenza di altre specie umane, esisteva una meravigliosa biodiversità nei grandi mammiferi dell’era glaciale. Il loro destino era comunque segnato. Con la comparsa dei primi Sapiens, arrivati da Nord attraverso l’attuale Alaska, circa 15 mila anni fa, in poco tempo scompaiono la tigre dai denti a sciabola, cammelli ed elefanti arcaici, e innumerevoli specie di bisonti. In tutto, in Nord America spariscono 34 su 37 generi di grandi mammiferi e in Sud America 50 su 60 generi.
In tempi più recenti, sempre in coincidenza con il nostro arrivo, si estinguono tutte quelle specie che non avevano imparato a temerci: nei Caraibi il bradipo gigante (5 mila anni fa), in Madagascar il gigantesco uccello elefante, Aepyornis maximus (2 mila anni fa), in Nuova Zelanda i grandi uccelli moa (800 anni fa), nelle isole Mauritius il dodo, Raphus cucullatus (500 anni fa). Le estinzioni dei grandi animali in Africa e in Eurasia hanno avuto un andamento più lento, poiché in questi casi gli animali si sono evoluti con noi, imparando a temerci. Ciò nonostante si calcola che molti di essi si estingueranno entro questo secolo. Secondo il Wwf, anche se non conosciamo con precisione il numero delle specie che si estinguono annualmente, sappiamo che oggi è minacciato il 23% dei mammiferi e il 12% degli uccelli.
Ormai ogni zona del mondo subisce i danni delle attività umane: dall’introduzione di dannose specie aliene al commercio illegale di specie protette, dalla distruzione degli habitat naturali ai cambiamenti climatici. Andando avanti di questo passo, alla fine, resteremo solo noi Sapiens? Certo che no! Oltre ai pochi fortunati cui non prestiamo attenzione, saremo in buona compagnia di mucche, polli, maiali, cani, gatti e di quei pochi animali che ci saranno utili per l’alimentazione e lo svago. Più gli insetti. Più ovviamente le nostre «creature»: i robot.


“Corrieredella sera - La Lettura”, 22 maggio 2016

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