10.7.17

Balzac e la magnifica ossessione (Beniamino Placido)

NEW YORK, 1945. O 1984. Oppure 1986: non importa. C'è un grande congresso internazionale di scrittori; o di professori o di uomini di lettere: nemmeno questo importa molto. Ad un certo punto qualcuno si alza, interrompe e chiede: “Non potremmo sapere per favore quali sono le idee dello scrittore di cui stiamo parlando?”. Ecco la domanda importante, anche se sbagliata. Ma più importante ancora è la risposta del Presidente di turno, riferita dalla scrittrice Francesca Duranti: “Che cosa ci importa delle idee di uno scrittore: si chiami Walter Scott, o Thomas Mann, o Joyce? Da quando in qua gli scrittori hanno creato i loro romanzi servendosi delle loro idee? Gli scrittori sono guidati soltanto dalle loro ossessioni”.
Valida, sempre in ogni tempo e in ogni luogo questa distinzione è fondamentale per Balzac. L'averla dimenicata o peggio, non averla presa in giusta considerazione ci è costato caro. Ci è costato un lungo periodo di rapporti faticosi, deludenti con questo prodigioso scrittore. Guardavamo alle sue idee e ci sembravano come in effetti sono francamente reazionarie. Dio, Patria, Famiglia. Soprattutto famiglia. E prima di tutto il patrimonio familiare. Il denaro. L'argent. Come diceva il critico Sainte-Beuve? Diceva che a considerare i mucchi d'oro disseminati nei romanzi di Balzac si sarebbe tentati di dire di lui come i veneziani di Marco Polo al suo ritorno dalla Cina: Messer Milione. Però continuavamo a leggere i suoi romanzi e continuavamo a trovarli affascinanti.
Di qui le emicranie che ci hanno accompagnato per alcuni anni. Emicranie condivise con (e ispirate da) critici illustri come Lukacs (gran produttore di emicranie ideologiche, peraltro). Quindi: emicranie rispettabili. E che tuttavia ci saremmo potuti evitare se solo avessimo badato come avremmo dovuto meno alle idee ufficiali, ufficialmente dichiarate, e più alle ossessioni più o meno segrete di Balzac. Ho davanti un piccolo libro che si raccomanda alla nostra attenzione proprio per questo. È l'Introduzione a Balzac scritta da un giovane francesista dell' Università di Bari, Francesco Fiorentino, appena pubblicata da Laterza. È una semplice guida. Di una guida ha l'ordine e la completezza. Ma anche qualcosa di più. Almeno due intuizioni felici. Sul carattere strategico-militaresco mai semplicemente decorativo delle celebri descrizioni balzachiane. E sul carattere di personaggi senza padre dei protagonisti dei suoi romanzi.
E come potrebbe esserci un padre nel mondo di Balzac? Il penultimo padre è stato Luigi XVI: debole e incerto. Lo abbiamo decapitato. L'ultimo padre è stato lui, Napoleone Bonaparte. L'imperatore glorioso e tirannico ci ha travolto e tradito. Si apre qui automaticamente una piccola parentesi per rammentare quello che già perfettamente sappiamo: che i personaggi aggressivi di Balzac sono tutti chi più chi meno reincarnazioni del Grande Corso. E lui stesso, Honoré de Balzac, scrittore di lungo corso (la Comédie humaine consta di 27 romanzi, pubblicati fra il 1830 e il 1845) fu trovato sul letto di morte che aveva il volto violetto, quasi nero, la barba non fatta, i capelli ricci tagliati corti, l'occhio aperto e fisso. Lo vedevo di profilo e somigliava talmente all'Imperatore.... Come ebbe a scrivere Victor Hugo in Choses vues.
E di quest'uomo che andava a letto ogni sera dopo cena alle 19, si alzava alle tre di notte per scrivere fino al mattino, tenendosi sveglio con il suo celebre caffè (miscela di tre chicchi: bourbon, moka e martinique) noi dovremmo esaminare le idee? Come se si trattasse di un matematico o di un filosofo? Portiamoci invece a pagina 53 di questa preziosa guida, dove Fiorentino scrive che tutta l'opera di Balzac si addensa intorno a grandi nuclei tematici, che come vere e proprie ossessioni non abbandonano mai il romanziere. Finalmente! Dobbiamo adesso tentare di definirle, queste benedette ossessioni di Balzac: se sono tante. Questa ossessione balzachiana: se è, come sospetto, una sola. Lo faremo discostandoci un poco dalla linea interpretativa proposta da Francesco Fiorentino. Non senza pagare un ultimo debito nei suoi confronti. Per l'ultimo capitolo, in cui riassume in poche pagine il percorso della critica letteraria su Balzac. C'è stato un primo periodo in cui lo si è preso per un romanziere realista. Realista lui! Ma se era uno scrittore evidentemente, spudoratamente visionario? Ce ne ha convinto Albert Béguin con il suo Balzac visionnaire del 1946. Ma l'aveva già capito Baudelaire a metà Ottocento; quando aveva scoperto e scritto che in Balzac anche le portinaie hanno del genio. In Balzac tutti (o quasi tutti) i personaggi anche le portinaie dei grandi palazzi parigini hanno menti fervide, passioni accese, gagliardi appetiti, ambizioni risolute, energie straripanti. Che cosa vogliono? Vogliono affermarsi. Vogliono conquistare il mondo. Con ogni mezzo. Con la pubblicità (proprio così: con la pubblicità sfrontata di un nuovo olio che favorisce la crescita dei capelli) se si chiamano César Birotteau. Con l'ambizione sfrenata se sono i giornalisti delle Illusions perdues. Con l'argent, in ogni caso. Quindi potremmo riportare al centro del discorso il danaro, raccogliere quel suggerimento di Sainte-Beuve e raccontare a noi stessi che ci siamo: Balzac descrive dunque la vera rivoluzione francese; quello scatenamento di appetiti voraci, insaziabili che ha fatto seguito alla Rivoluzione Francese ufficiale. Che ha travolto tutti: dai nobili ai giornalisti ai commercianti di olio (commestibile o per capelli), alle portinaie. Tutti, anche Balzac. Si sa che tentò sia pure goffamente di arricchirsi. E che non ci riuscì. Si dice che dobbiamo a questo i suoi romanzi. Per nostra fortuna, si aggiunge. Abbiamo perduto un imprenditore. Ci è rimasto uno scrittore. Potremmo a questo punto tirare i remi in barca e dire che abbiamo capito. Potremmo addirittura tentare di ricondurre Balzac e la sua ossessione dentro un'interpretazione marxiana. Dunque: per lui come per Marx è il danaro il primo motore non immobile dell'universo.
È il danaro l'equivalente generale. Ma se così facessimo, ci accontenteremmo di poco. C'è dell'altro. Questo danaro, questo argent ammucchiato ed esibito in ogni romanzo forse è solo un falso scopo, un sintomo deviante. Forse il vero motore dell'immaginazione balzachiana è altrove. Prendiamo un romanzo come La ricerca dell'assoluto. Una di quelle creazioni del Balzac non realista e nemmeno visionario, ma addirittura metafisico al quale abbiamo imparato a fare attenzione da qualche anno. Anche qui l'argent è al centro della scena. Perché serve al protagonista, il nobile fiammingo Balthazar Claes, che pur di procurarselo rovina prima la moglie, poi le figlie. Ma non lo vuole per sé. Non lo vuole per accumularlo. Né per investirlo. Lo vuole per finanziare un'idea che ossessivamente lo brucia dentro. L'idea che si possa cercare una pietra filosofale, un principio unificatore degli elementi. L'elemento primo al quale ridurre, per via di esperimenti chimici, l'azoto, l'ossigeno, il carbone, l'idrogeno. Perché ci deve pur essere un principio unificatore, nell'universo. Forse c'è. Forse non c'è. Non sarà comunque Balthazar Claes nobilmente, inutilmente ossesso a scoprirlo. Non in questo romanzo. Al pari di Balthazar Claes, anche Balzac pratica una sua ricerca dell'assoluto. All' interno della quale il danaro è uno strumento, non un fine.
Non ci sono difatti nel suo universo romanzesco soltanto i grandi ossessi dell'accumulazione e della finanza. Ci sono anche le vittime. Non ci sono soltanto i padri, perduti dietro il loro progetto espansivo, napoleonico. Come il nobile fiammingo Balthazar Claes; come l'avaro di provincia, Monsieur Grandet. Ci sono anche i loro figli. Più spesso, le loro figlie. Che sono anche le loro vittime. Come Eugénie Grandet. Di cui Balzac questo dice, nell'ultima pagina dell'omonimo romanzo: “Ecco la storia di questa donna che non appartiene al mondo, anche se vive nel mondo. Che fatta per essere una magnifica sposa, una splendida madre, non ha né marito, né figli, né famiglia”. Come tutti i romanzieri, Balzac è anche un antropologo. Come tutti i grandi antropologi si chiede qual è il principio unificatore (se c'è) dietro tanta diversità di culture e di atteggiamenti. Ricerca anche lui ossessivamente un assoluto. Cerca di capire se c'è un elemento primo comune all'avaro, spietato Grandet e alla sua delicata figlia. All'ossesso chimico Claes e alle sue delicatissime figlie. A quelli che riescono sempre, comunque ad accumulare e a vincere ed a quelli (a quelle) che non ci riescono mai. Non perché sono inferiori. Perché sono diversi. Non vogliono vincere. Vorrebbero, se fosse possibile, soltanto vivere. Si ha l' impressione anche che per Balzac la ricerca dell' assoluto si sia risolta in un clamoroso fallimento. Non per colpa sua. Perché le persone (e i personaggi) di questo mondo sono irrimediabilmente, dolorosamente diversi. Quel mitico elemento comune fra loro forse non c'è.


“la Repubblica”, 9 agosto 1989  

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