21.7.17

Troppo amore per la Woolf (Barbara Arnett Melchiori, 1980)

Un intervento polemico - bello, puntuale e al tempo decisamente controcorrente - teso a ridimensionare Virginia Woolf, al tempo “mostro sacro” del femminismo, e, al tempo stesso, a rivalutare dei romanzieri “edoardiani”. Non conosco Bennett, ma condivido l'amore per Wells, un grande, anzi un grandissimo scrittore. Chiedo scusa agli amici e soprattutto alle amiche, ma anche a me i romanzi maggiori di Virginia Woolf sembrano tuttora sopravvalutati. Mi pare invece che la Arnett sottovaluti gli scritti saggistici della Woolf, soprattutto Le tre ghinee, un testo fondamentale nella storia del femminismo e del pacifismo. (S.L.L.)
«Da Omero alla Woolf »: così suona quotidianamente la pubblicità della collana di una nota casa editrice. Non «Da Omero a Joyce» (la scelta dell’autore di Ulisse accanto a quello dell’Odissea avrebbe una sua logica). Viene da domandarsi se qui in Italia da un po’ di tempo non si stia esagerando l’importanza degli scritti (singolarmente molto belli) di Virginia Woolf. Anche la stampa di sinistra dedica intere pagine a recensioni delle traduzioni (a volte troppo affrettate) che continuamente vengono proposte al lettore. Fatto sta che, da qualche anno in qua, questa scrittrice eminentemente elitaria è stata imposta al lettore italiano come lettura obbligatoria: la conoscenza delle sue opere è considerata requisito essenziale per la persona colta di oggi. Certamente ha contribuito a questo il suo femminismo, che si collega, anche se in chiave diversa, ad uno dei movimenti di massa più vivi attualmente. Non è poi da escludere che la pubblicità data, in seguito alla pubblicazione in Italia della biografia di Quentin Bell, alle sue relazioni lesbiche (cose risapute da sempre in Inghilterra) non abbia contribuito a stimolare un certo interesse « di moda » sulla vita privata dell’autrice. Solo Vito Amoruso (Rinascita, 14 marzo 1980, e si veda del resto il suo libro di dodici anni fa, Virginia Woolf, Bari, Adriatica, 1968) non si è lasciato travolgere.
Forse è arrivato il momento di fermarsi e di riflettere su una certa marginalità dell’opera della Woolf e di tutto il Bloomsbury group di cui essa faceva parte. Il restare fuori dalla mischia, il vivere nelle torri d’avorio (sia pure pendenti a sinistra) crea, non si può negare, un ammirevole distacco, ma taglia anche fuori dalla corrente, impoverisce la quantità e la qualità della materia prima con la quale l’artista lavora, materia che per il romanziere è il tessuto sociale del quale fa parte. Proprio la vita della Woolf da ragazza, nell’ambiente «aristocratico» dell’alta borghesia, con la nursery, le istitutrici, l’istruzione altamente selettiva, l’ha privata di qualche cosa di utilissimo negli anni formativi. Tutti gli scrittori devono crearsi un ambiente di lavoro congeniale o almeno tollerabile; qualche barricata contro le incursioni della vita ci vuole — James Joyce, che scriveva pagine immortali nel trafficato ingresso di un alberguccio con la valigia sulle ginocchia come scrivania è un caso del tutto eccezionale. Ma Virginia Woolf passava da un’infanzia superprotetta ad un ambiente di giovami intellettuali. La sua esperienza di lavoro manuale si limita alla tipografia — ma è la tipografia «a mano» messa su dalla Hogarth Press, la sua casa editrice, per produrre edizioni numerate, senza gli orari e le condizioni di lavoro imposte ai tipografi professionisti — e in ogni caso, i cucchiaini da tè dovevano essere d’argento.
Da questa posizione di superiorità sociale e culturale, con l’aiuto di quella discriminante essenziale che, nell’Inghilterra del suo tempo, era un accento impeccabile, e, perché no, imponendosi anche con il profilo indubbiamente aristocratico, Virginia Woolf ha portato a termine un’azione di sterminio contro i romanzieri a lei immediatamente precedenti, azione che ha avuto un successo tanto completo quanto ingiustificato. Chi da allora apre più i romanzi di H. G. Wells (ad eccezione di quelli di fantascienza) o di Arnold Bennett? La grande offensiva contro questi «edoardiani» fu condotta personalmente dalla Woolf in una conferenza divertente quanto maliziosa dal titolo Mr. Bennett and Mrs. Brown, tenuta a Cambridge nel 1924 e pubblicata lo stesso anno come prezioso opuscolo appunto nella tipografia artigianale della Hogarth Press. In essa la Woolf diverte gli ascoltatori (e i lettori) fornendo descrizioni parallele di una vecchietta incontrata in treno (l’ipotetica signora Brown) alla maniera di Galsworthy, di Wells e di Bennett. L'accusa che ella lancia contro questi scrittori è che essi avrebbero descritto tutto — quel che si vede dal finestrino del treno, i particolari della carrozza, i vestiti della signora Brown, di che stoffa sono, dove sono stati comprati e quanto sono costati — senza mai arrivare a cogliere l’essenza della persona umana, l’essenza della signora Brown. Poiché tutto questo esiste siamo costretti a credere che la signora Brown esista. Il «signor» Bennett «vuole indurre il lettore a immaginare questa donna per lui». Questa frase, per la Woolf, vuole essere una critica demolitrice — ed ebbe infatti tale effetto sul suo pubblico di letterati. Eppure si tratta di una felice intuizione della tecnica usata da questi scrittori cosiddetti realisti (ma spesso sottilmente simbolisti); tecnica che consiste nel coinvolgimento diretto del lettore: con l’attenzione al dettaglio creano un ambiente che permette ai loro personaggi di vivere, agire e comunicare in modo credibile.
La conferenza della Woolf non si ferma alle parodie dei passi di Galsworthy, Wells e Bennett, ma prosegue portando il suo argomento sul terreno legittimo della critica, esaminando e demolendo specificamente l’opera di Bennett. Per sfortunata negligenza, però (e certe negligenze non sono da poco quando si tratta della reputazione di uno scrittore), la Woolf sceglie come campione — o meglio si direbbe testa di turco — il personaggio di Hilda Lessways nel romanzo omonimo di Bennett (1911). Bennett, ironizza la Woolf, non sembra mai arrivare al personaggio di Hilda: descrive le case che Hilda vede dalla sua finestra, la casa dove Hilda abita, ci racconta tutto sulla proprietà immobiliare, ma dov’è Hilda tutto questo tempo? «Ahimè, sta sempre lì alla finestra». Ora, a parte l’importanza cruciale che appunto la proprietà immobiliare avrà nella vita di Hilda, in quanto rappresenta l’indipendenza economica senza la quale non c’è indipendenza femminile, sta di fatto che Hilda è già nota (o dovrebbe esserlo) al lettore di Bennett dal romanzo precedente; infatti Hilda Lessways è il secondo volume di una trilogia. È nel primo volume, Clayhanger, che Hilda viene presentata con notevole maestria: dapprima se ne parla soltanto, così da creare una certa aspettativa; ad essa, di lì a qualche pagina, segue un senso di delusione: Hilda non è bella, rimane nell'ombra, timida, impacciata; ha una improvvisa impennata quando difende gli scritti di Victor Hugo, si ritrae altrettanto improvvisamente, per poi, la sera stessa, imporsi definitivamente come personaggio, dissipando quella delusione iniziale: Hilda infrange tutte le regole della buona società uscendo da sola a cercare Edwin Clayhanger nel giardino della casa di lui — è la scena centrale, il perno del primo romanzo. E per di più la stessa scena è il perno anche del secondo romanzo, in quanto i due libri sono paralleli nel tempo: quel che varia è il punto di vista, quello di Clayhanger nel primo, quello di Hilda nel secondo. La scena nel giardino si ripete identica nei particolari, compreso il dialogo, ma con diverse omissioni o sottolineature a seconda di quel che| è rimasto nella memoria dell’uomo o in quella della donna. È un esperimento narrativo notevole, che purtroppo sfugge a Virgina Woolf in quanto ne inizia la lettura (e la sua critica) con il secondo volume, ignorando l’esistenza del primo. È come giudicare l’Ulisse di Joyce iniziando la lettura dal quarto capitolo.
Eppure questa lettura parziale le permette di concludere a proposito degli edoardiani: «I loro strumenti non sono i nostri strumenti — per noi quelle convenzioni significano la rovina, quegli strumenti significano la morte»; dove per «noi» si devono intendere, come risulta dal contesto, Lawrence, Joyce, Forster e la Woolf stessa. Trovo che in questo discorso almeno Lawrence e Joyce sono collocati molto male: non c’è soluzione di continuità fra Wells, Bennett, il Lawrence di Figli e amanti e il Joyce di Gente di Dublino. Lawrence e Joyce ben sapevano, come Wells e Bennett, che l’ambiente sociale, compresa la casa, contribuisce alla sostanza stessa del personaggio, fa del personaggio, specialmente quello femminile, quello che è. Per la signora Morrell in Figli e amanti, come per Hilda nel passo citato dalla Woolf, il fatto di abitare in una casa con un po’ di giardino in più rispetto a quello dei vicini definisce l’esatta posizione sociale (Lawrence come Bennett ci fa notare, cifre alla mano, quanto di più vale quella casa), ed è l’esatta posizione sociale che determina poi le scelte e i comportamenti.
Ma la critica di Virginia Woolf fu subito presa per buona — tanto più che (lo si deve riconoscere) fu negli anni immediatamente successivi, fra il 1925 e il 1928 che pubblicò quelle che Sergio Perosa definisce giustamente le sue opere più significative e centrali, La signora Dalloway, Gita al Faro e Orlando, le opere per le quali davvero dovrà essere ricordata (si veda appunto V. Woolf, Romanzi ed altro, a cura di S. Perosa, Mondadori 1978). È ingiusto che queste sue indubbie conquiste personali unite alla sua arroganza critica abbiano fatto dimenticare altri romanzi pur tanto ricchi, studi dell’uomo e soprattutto della donna nel suo habitat, e fortemente condizionati da quell'habitat. Chi in Italia legge oggi Anna of the Five Towns di Bennett, Ann Veronica di Wells o risalendo più indietro, The Odd Women di Gissing? Uno spiraglio di luce si è aperto con la recente traduzione di Tono-Bungay di Wells (qui, se non altro. La Repubblica ha dedicato un paginone con il contributo di Umberto Eco — anche se poi parlava di altro — e un buon commento informativo di Beniamino Placido). È in Tono-Bungay che Wells si pronunciava lucidamente sulla società del suo tempo — una valutazione che serve a spiegare molte cose anche dell’Inghilterra di oggi, una visione gerarchica che certo non interessava a Virginia Woolf, ma con la quale il romanzo non può non fare i conti: «Al di sopra di te c'erano i tuoi superiori, al di sotto c’erano i tuoi inferiori, e c’erano perfino taluni di collocazione talmente dubbia e incerta che, almeno temporaneamente e ai fini di sbrigare le faccende di ogni giorno, saresti stato giustificato nel considerare tuoi pari ».
Alle altezze intellettuali di Bloomsbury queste innumerevoli distinzioni sfuggivano, di lassù non si scorgeva la lotta della gente per salire anziché scendere la lunghissima e strettissima scala sociale, dove i vicini di casa, a seconda di qualche metro quadrato in più o in meno di giardino, venivano collocati un gradino più su o uno più giù. Non è l’Inghilterra che emerge dalle pagine di Virginia Woolf ma è indubbiamente ancora oggi l’Inghilterra di Margaret Thatcher.


“Rinascita”, 23 maggio 1980

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