22.7.17

Jena, ottobre 1806. Hegel e Napoleone (Valerio Riva)

Per il secondo centenario della nascita di Hegel, nell'agosto del 1970, “l'Espresso” dedicò gran parte del supplemento a colori (“l'Espresso colore”) al filosofo tedesco. Il pezzo forte era costituito da una lunga conversazione con Gyorgy Lukacs dal titolo Dov'è oggi lo Spirito del mondo, ma era preceduto dalla rievocazione di un momento significativo della vicenda umana di Hegel, il suo coinvolgimento passivo nella battaglia di Jena (1806) che ebbe come protagonista Napoleo­ne. Valerio Riva che ne è l'autore costruisce l'articolo, che qui è postato, seguendo in parallelo gli atti e i movimenti del filosofo e quelli dell'imperatore. Buona lettura. (S.L.L.)

Il 12 ottobre 1806 Napoleone fu risvegliato a mezzanotte in punto dal suo cameriere particolare. Erano a Gera, in Sassonia. A 60 chilometri di lì c’era Weimar, e sulla strada di Weimar, poco prima d’arrivare alla città, a Kapellendorf, c’era il ’’povero” re di Prussia, ’’così buono”. L’imperatore si alzò, si lavò il viso, si rivestì, fece una rapida colazione, poi si mise a tavolino. Scrisse a sua moglie Giuseppina: «Sto benone; sono perfino ingrassato, da che sono partito; e dire che ogni giorno faccio, proprio io, di persona, dalle venti alle venticinque leghe, come mi capita, a cavallo, in carrozza. Vado a dormire alle otto e mi sveglio a mezzanotte; e qualche volta penso che a quell’ora forse tu non ti sei ancora coricata».
Quando ebbe finito di scrivere la lettera, firmò, mise il sigillo e notò l’ora, in calce: le due del mattino. Era già cominciato il 13 ottobre. A quell’ora, per la stretta gola che fa il Muhlthal quando pasa sotto i Landgrafenbergen, quindicimila uomini dell’armata prussiana si ritiravano in buon ordine, lentamente, in direzione di Weimar. La notte era quasi tiepida, umida: c’era una gran nebbia. In casa sua, nel centro di Jena, il professore straordinario Giorgio Guglielmo Federico Hegel, che da un mese e mezzo aveva compiuto i 36 anni e versava in gravi preoccupazioni finanziarie, sospese per un attimo il lavoro: sentiva sparare frequenti colpi di cannone dalle parti di Gempenbachtal e di Winzerla. La sera prima era stato sulle mura, al tramonto, e aveva visto gli scontri a fuoco delle pattuglie francesi e dei soldati prussiani di retro-guardia. Era molto preoccupato: due pacchi contenenti metà del manoscritto della sua prima opera importante, la Fenomenologia dello spirito, piedistallo di un nuovo sistema filosofico, erano stati spediti da una settimana all’editore Gòbhardt di Bamberga, e il professor Hegel non sapeva se erano arrivati a destinazione. Ora aveva tra le mani la seconda metà del manoscritto: bisognava mandarla, d’urgenza, il libro doveva ad ogni costo uscire per il 1807 e lui in un impeto di disperazione s’era impegnato a finire gli invii proprio entro quella settimana. Ma la guerra era arrivata troppo presto: il primo dei due pacchi era stato spedito fin dall’8, ma Hegel non sapeva che già dal giorno prima i francesi erano entrati a Bamberga.

La ’’Fenomenologia” viaggiava attraverso la foresta della Turingia, varcava la Saale, puntava verso il Meno: e le osti francesi le andavano incontro, con la rapidità del baleno, travolgendo l’esercito prussiano, mettendo a sacco le città, portando i vessilli della rivoluzione. Cosa sarebbe successo di quel fascio di fogli? Dietro ai vessilli francesi, nei solchi di quei carriaggi viaggiava la libertà assoluta diventata oggetto a se stessa: in quelle armate l’autocoscienza aveva imparato “che cosa la libertà sia”; ma quelle spade avevano pure imparato a suo tempo a dare «la più fredda e piatta morte, senza altro significato che quello di tagliare una testa di cavolo o di prendere un sorso d’acqua ».
Prima ancora che la notte cedesse al giorno e la fitta nebbia si dileguasse, il maresciallo Lannes, entrato in Jena, aveva deciso di non perdere il contatto con il nemico. Gli esploratori francesi scoprirono che per scavalcare i Landgrafenbergen non era strettamente necessario seguire passo passo i prussiani: per due sentieri difficili e seminascosti si poteva arrivar fino in cima all’orlo dell’altopiano e di là guardar giù nella grande vallata che si stendeva tra Jena e Weimar. Per quelle scorciatoie Lannes spedì una compagnia: giunti in alto i soldati di Suchet furono attaccati dalle avanguardie del generale prussiano Hohenlohe a cui Federico Guglielmo aveva affidato la difesa di Weimar: il generale Reille dovette mandare in rinforzo un battaglione del 40. Ma in alto, a circa 400 metri, ai francesi si offrì uno spettacolo terribile e straordinario. La nebbia cominciava a dissiparsi, la giornata era magnifica: si poteva distintamente scorgere tutto l’esercito prussiano schierato in battaglia su tre file, per una distesa di chilometri e chilometri; le alture ad anfiteatro nereggiavano d’uomini, dal villaggio di Gross-Schwabhausen fino alle sorgenti dell’Ilm, all’altezza di Kapellendorf.
Il centro dello schieramento era a Cospeda, un paese fortemente tenuto dal nemico. In più sulla strada per Weimar c’era un accampamento di trentamila uomini. Lannes spedì subito un corriere per portare la notizia all’imperatore. Erano le sette del mattino.

Tra le 8 e le 9 entrarono in città i tiratori francesi, seguiti dalle truppe regolari. Era il momento che Hegel temeva di più: da più d'un mese lo tormentava l’idea che come conseguenza immediata della guerra sarebbero venuti dei soldati e avrebbero preteso di installarsi in casa sua. Quegli “acquartieramenti”, come li chiamava nelle lettere piene di lamentele al benevolo Niethammer, erano proprio la sua idea fissa. Avesse potuto andarsene prima da Jena! Quella città una volta tanto agognata, quando c’erano Schelling e Fichte, adesso gli sembrava un convento: i suoi amici erano fuggiti quasi tutti, chi in Baviera, chi nel Baden. Anche Hegel sperava ardentemente di trovare il modo di trasferirsi ad Heidelberg; ma Kastner gli aveva scritto che il governo di Karlsruhe era avverso alla nuova filosofia. Per ingraziarsi il consigliere aulico Voss, che tutti dicevano fosse la pedina giusta, il professore gli scrisse una letterina esponendogli i suoi programmi futuri: prima, voleva «insegnare alla filosofia a parlare tedesco» così come Lutero aveva fatto parlar tedesco alla Bibbia e lo stesso Voss a Omero; e poi voleva tenere un corso di estetica nel senso di quel che i francesi chiamavano un “cours de littérature”. Voss cortesissimo gli aveva risposto, fra tante lodi e complimenti, che non aveva fondi per un professore in più. Così Hegel era rimasto a Jena a fantasticare intorno a una rivista di critica che la smettesse col malvezzo imperante delle recensioni formalistiche, superficiali, stupide, buone solo ad assolvere e condannare. E invece la guerra lo aveva incastrato in quella città che ormai odiava, in mezzo ad abitanti stupidissimi, che nemmeno sapevano come difendere i loro sacrosanti diritti. L’imperatore stesso, sosteneva Hegel, aveva autorizzato gli abitanti delle città tedesche occupate a rifiutarsi di ottemperare a requisizioni indiscriminate. Bastava comportarsi con dignità e prudenza e dare alle truppe vittoriose solo quel tanto che era loro strettamente necessario. Quel 13 ottobre Hegel provò a mettere in pratica la teoria: ai soldati francesi che gli irruppero in casa diede da mangiare e da bere. Ma quando ebbero mangiato e bevuto, gli occupanti vollero dell’altro. Hegel si offese, gridò, ma gli altri gli andaron sotto il muso coi pugni e con le spade, si lanciarono sui cassetti, sventrarono i pagliericci, squadernarono gli armadi. Cristiana Carlotta Giovanna Burckardt, nata Fischer, che era la padrona di casa, cominciò a piangere: era una donna belloccia, con un’aria sensuale, e quei manigoldi di francesi non nascosero d’averci fatto un pensierino. Hegel perse la testa. Per fortuna, si accorse che uno dei saccheggiatori portava sul petto il nastrino della legion d’onore. Lo prese per il bavero e con voce che tremava di sdegno, gli gridò che sperava almeno che un uomo insignito di una tale onorificenza avrebbe riservato un trattamento onorevole a un semplice studioso tedesco. I soldati si calmarono e finirono per prendere solo il vino.
A una lega a nord della città, in quel momento, i soldati prussiani fecero prigioniero l’ufficiale francese Eugène de Montesquiou: gli tolsero la sciabola, la borsa e l’orologio, e lo condussero alla tenda del principe Hohenlohe.

Al principe, Montesquiou rivelò di essere latore di una lettera dell’imperatore diretta al re di Prussia. Era una lettera degna in tutto del “signore del mondo”: la lettera di una «persona solitaria che si pone di contro a tutti», immane autocoscienza il cui movimento e il cui godimento sono anch’essi una “sfrenatezza immane”. Proponeva, la lettera, di far la pace, subito, visto che quella guerra era proprio impolitica: «Vostra maestà», aveva scritto Napoleone (probabilmente sghignazzando), «aveva posto come condizione per il ristabilimento della pace che le truppe francesi uscissero dal territorio della confederazione. La condizione è stata osservata: solo che invece di ripassare il Reno, abbiamo varcata la Saale e siamo usciti dalla parte opposta ».
Passata la prima paura, ora Hegel era tornato a pensare ai suoi ’’scartafacci”. Come fare per spedire il resto a Bamberga? L’unica era augurarsi che i francesi uscissero vittoriosi anche dalla prossima battaglia, che il fronte si allontanasse il più possibile, e che la strada Jena-Bamberga diventasse presto una strada di retrovia, con tanta maggior sicurezza del servizio di posta. Impiegò tutto il resto del giorno a trovare un corriere: la signora Voigt gli fece sapere che avrebbe fatto partire un postiglione l’indomani mattina. Hegel si precipitò da lei: trovò la casa trasformata in alloggio dello stato maggiore francese. Suggerì alla Voigt di chiedere una scorta militare per il postiglione francese. Suggerì alla Voigt di chiedere una scorta militare per il postiglione. I francesi acconsentirono. La mattina del 14, l’ultima parte della Fenomenologia partiva da Jena accompagnata da un drappello di soldati dell’imperatore.
Ma quando Hegel tornò a casa, capì che la situazione sarebbe presto divenuta insostenibile. I soldati erano di nuovo minacciosi; già tutt’intorno molte case erano preda agli incendi. Lui e la signora Burckardt, da soli, non avrebbero potuto resistere a lungo. Incominciò allora la peregrinazione.
Presero una cesta, la riempirono di tutto quello che potevano, e corsero a rifugiarsi nella casa del commissario Hellfeld. La casa dava sulla piazza del mercato. Stanco, innervosito, inquieto Hegel si affacciò ad una finestra e vide tutto il mercato illuminato da una fila di fuochi accesi dai battaglioni francesi. La piazza era piena di roba saccheggiata dalle botteghe della città. Era avvenuta la più grande ridistribuzione di beni che la storia di Jena potesse ricordare. Quello che era stato proprietà di borghesi, di cittadini, era diventato adesso proprietà di nessuno o bene comune, su quella grande piazza. Anche Hegel aveva perso le sue proprietà: probabilmente erano ammucchiate nella piazza, tra i falò dei bivacchi. Gli venne da pensare quanto fosse poco vera l’affermazione di Kant secondo cui proprietà e non proprietà sono in sé non contraddittorie. Considerate dialetticamente, come faceva in quel momento, apparivano entrambe molto contraddittorie. Il saccheggio e la ridistribuzione erano avvenuti in nome dell’eguaglianza dei singoli: ma per quei soldati il bisogno che avevano di quella roba era diverso dal bisogno che ne aveva Hegel: per loro era un bisogno accidentale, momentaneo, usare e gettare: per lui, era il bisogno di procurarsi un bene stabile, un uso senza termine. Ma ecco la contraddittorietà: se quei beni venivano distribuiti secondo i bisogni, appariva l’ineguaglianza: se distribuiti secondo l’uguaglianza, «la quota di partecipazione alla proprietà dei singoli non aveva rapporto al bisogno». In quella gran trasmigrazione e deperimento di beni. la proprietà gli appariva fondamentalmente contraddittoria: benché valga in quanto solo è stabile, la sua natura consiste nell’essere usata, nel “dileguare”.

A Jena, Napoleone arrivò alle due del pomeriggio. I notabili della città gli avevano preparato una degna accoglienza. Ma Napoleone si fermò solo un attimo. Lannes gli aveva fatto sapere che i prussiani s’erano già messi in moto: due grandi corpi di armata avevano abbandonato Weimar e ora marciavano uno verso Naumbourg e l’altro verso Jena, agli ordini del principe Hohenlohe. L’imperatore non ebbe esitazioni: meglio andar subito a vedere dall’alto del Landgrafenberg com’era la situazione. Risalì a cavallo, e uscì dalla città, diretto alle colline.
Al professor Hegel sembrò di vederlo uscire in ricognizione. Il primo pensiero che gli venne, fu dove potesse mai essere in quel momento il re di Prussia. Dicevano che stava a una decina di chilometri da Iena, ma vedendo Napoleone seduto su un cavallo uscire al trotto dalla città, Hegel non poté fare a meno di dirsi, sorridendo, che forse il buon Federico Guglielmo doveva esser già molto più lontano di Kapellendorf.
Il re era invece press’a poco dove lo situava la voce popolare. Napoleone lo sapeva benissimo: e sapeva anche che finché lui restava dentro Jena dominata dalla scarpata dell’altopiano, sarebbe stato come dentro un sacco. Bisognava portare tutto l’esercito su in alto, in posizione dominante, e trasportare lassù soprattutto l’artiglieria. Napoleone non era capace di star fermo: faceva continuamente la spola tra la città e l’altopiano, e quand’era lassù si spingeva tanto avanti da correre il rischio di capitare tra le file del nemico. Ora il sole era molto calato sulla linea dell’orizzonte e il crepuscolo mostrava cose e persone come avvolte in una ambigua penombra. A un certo momento le sentinelle francesi videro una sagoma davanti a loro, la presero per un ricognitore nemico, spararono: per un miracolo non centrarono l’imperatore. Ma come mai l’artiglieria non era ancora arrivata? Napoleone aveva fretta. Preso da un’ansia febbrile, decise di tornare di nuovo in pianura: e a metà strada la vide, la sua artiglieria: bloccata nel letto d’un torrente così angusto che i mozzi delle ruote degli affusti s’incastravano nelle sponde di pietra dell’incassatura. Gli venne una furia immensa, l’ira gl’impediva di parlare. Riuscì appena a chiedere dove fosse il generale comandante dell’artiglieria; gli fu risposto che non era ancora arrivato. Senza più dire una parola, s’avvicinò ai serventi che cercavano a colpi di piccone e di pala di allargare il passaggio, prese una lanterna, l’accese e tendendo il braccio illuminò la roccia perché potessero lavorar meglio. I soldati raddoppiarono i colpi. Restò lì fino a notte inoltrata: finalmente, pezzo per pezzo, l’artiglieria riuscì a passare. Ora, in silenzio, al buio, l’esercito francese prendeva ordinatamente posizione, a due passi dal nemico. La nebbia ricominciava a levarsi. Napoleone aveva ritrovato il suo buon umore. Era mezzanotte.

A quell'ora Hegel aveva cambiato un’altra volta di casa. Neanche dagli Hellfeld era stato possibile fermarsi. Sempre seguito dalla Burckardt e dalla cesta, Hegel si ricordò di un suo allievo, il Gabler. che avrebbe potuto dargli una mano. Il padre di Gabler era prorettore; Hegel sapeva che adesso in casa sua alloggiava un ufficiale superiore dell’esercito francese: il luogo era dunque sicuro. Ma per quella coppia spaventata e infelice i Gabler non avevano posto. Il figlio si ricordò però che in soffitta era vuota una cameretta da studente. Accompagnò il filosofo e la Burckardt fin lassù in cima: la stanzetta era angusta, fredda, mal illuminata. Ma per la prima volta Hegel si sentì al sicuro. Mentre la Burckardt si stendeva sul letto, il professore, seduto su una poltrona sgangherata riusciva finalmente a riflettere. Rivedeva la scena del pomeriggio, l’imperatore, tanto agognato, sogno di tanti giorni, mesi, anni, l’uomo a cui, bene o male, apertamente o meno, aveva dedicato sostanzialmente quel suo primo grande tentativo di sistemazione filosofica che era la Fenomenologia: quell’uomo di cui aveva parlato in quelle pagine in termini oscuri, faticosi, ma come animati da un brivido e da una foga misteriosi. Era lui “il signore del mondo”? Era la persona assoluta che in sé raccoglie ogni essere determinato e per la cui coscienza non esiste nessuno spirito più alto? Lo aveva visto tutto «concentrato in un punto», «seduto su un cavallo», «irradiarsi sul mondo e dominarlo». Era la coscienza di quel contenuto che, liberato dalla propria forza negativa, si svelava come il caos delle potenze spirituali scatenate quali essenze elementari, prese pazzamente da una furia di distruzione? Oppure era, come gli era sembrato un’altra volta, lo «spirito coscienzioso», il concreto spirito morale, che non compie questo o quel dovere, ma sa e fa ciò che è concretamente giusto? Il trotto deciso di quel cavallo, la subitanea consapevolezza di Hegel, in quell’attimo, che qualunque cosa facesse il re di Prussia, qualsiasi fossero gli auspici della giornata, Federico Guglielmo avrebbe perso e Napoleone trionfato, gli avevano dato una improvvisa intuizione: aveva lì, din#hzi a sé, non più l’inerte coscienza della moralità, non più l’oscillante certezza della coscienza, ma una certezza incrollabile, la consapevolezza di compiere solo il dovere puro, che ha la sua verità nella certezza immediata di se stesso. Quel pomeriggio su quel cavallo egli aveva visto veramente passare 1’”anima del mondo”.
Ma a chi poteva dirle quelle cose? Alla Burckardt che dormicchiava su quel letto? Aveva forse potuto scriverle apertamente nella sua opera? Da quando, allievo di teologia a Tubinga, aveva piantato di nascosto in un campo, con i suoi amici, un albero della libertà e segretamente s’era pasciuto di riviste proibite, di clandestine notizie dalla Francia, da quando negli scritti cosiddetti teologici aveva cercato di scardinare il cristianesimo in nome della santità della polis greca, e poi, svanita l’idealizzazione che aveva fatto dell’antichità s’era impadronito della religione disvelata e ne aveva fatto un edificio interamente laico, da allora egli si era sentito il filosofo della rivoluzione, l’aveva analizzata, descritta, riassunta e tutta rappresentata. Ma in termini oscuri, in una retorica faticosa, in una specie di tormentosa ipocondria: ora le aveva innalzato un sistema, e un pezzo di quel sistema lo aveva finalmente lì davanti agli occhi. Ma sapeva già anche come sarebbe andata a finire: «Di nuovo si ricostituisce l’organizzazione delle masse spirituali, nelle quali viene distribuita la folla delle coscienze individuali. Queste, che hanno provato la paura del loro signore assoluto», che sono cioè passate attraverso il terrore e la morte, «si rassegnano di nuovo alla negazione e alle differenze, tornano a ordinarsi sotto le masse». La restaurazione seguiva alla rivoluzione. Eppure il ciclo non doveva continuare in eterno: guardando di colpo tutto all’indietro, come se la storia fosse finita in quel momento, Hegel intuiva che per un ribaltamento improvviso, il puramente negativo poteva diventare puramente positivo. Non più un governo anarchico, ma la volontà universale, la libertà assoluta passata dall’autodistruzione all’autocoscienza, essenza perfetta e compiuta. Nella notte, nel gran silenzio seguito a una giornata di rombi e di scoppi, in mezzo a tutto quel fumo e alle luci di tutti quegli incendi, il professor Hegel si sentiva finalmente al termine della storia. La ’’Bastiglia tedesca” stava per cadere.
Cadde infatti il giorno dopo. Il 15 ottobre cominciò con una nebbia così spessa che l’aiutante di campo di Lannes, Meyer, spedito ad ordinare alla brigata Claparède di appoggiare a sinistra, sperdutosi nella nebbia sentì d’un tratto delle voci vicinissime e s'accorse di essere andato a finire tra i tedeschi. Le armi cominciarono a sparare, da una parte e dall’altra: erano le nove del mattino, non ci si vedeva di qui a lì, e francesi e tedeschi facevano fuoco davanti a loro a casaccio, nella nebbia. Ma quando il sole a poco a poco forò la nebbia, i due schieramenti si ritrovarono l’uno addosso all’altro: da una parte gli indecisi prussiani, impreparati ad una battaglia per quel giorno; dall’altra i francesi che «manovravano come ad una parata». Napoleone aveva dato ordini ben precisi: attaccare arditamente tutto ciò che è in marcia, non dare al nemico la possibilità di riunirsi e di riorganizzarsi, approfittare di tutti gli sbagli o gli equivoci dell’avversario, non lasciarlo fermare, non combattere da fermi, adottare la tattica del movimento perpetuo. Sulle alture di Jena, l’anima del mondo calava l’hegelismo nella strategia militare. Alla fine della giornata il re di Prussia cercava scampo in una disperata fuga attraverso i campi, i soldati prussiani si disperdevano in disordine per tutta la campagna, migliaia e migliaia di prigionieri coperti di sangue sfilavano disfatti dinnanzi all’imperatore. Napoleone tornò a Jena che era già notte. Murat e Rapp correvano al gran galoppo verso Weimar, superando di volo i resti di ventotto squadroni e ventisei battaglioni prussiani accorsi troppo tardi sul teatro della battaglia: sul bordo della strada videro il corpo del comandante tedesco, Ruchel, esanime, straziato da una palla nel petto. I due francesi avrebbero voluto acciuffare la regina,che Napoleone considerava la causa della guerra. Ma la regina era scappata da qualche ora, in lacrime. Non rimaneva che la vecchia duchessa. Ci fu qualche confusione nel palazzo, all’arrivo dei francesi, ma durò poco. Scossa, ma fierissima, la vecchia signora accolse con apparente serenità i due ufficiali francesi ed educatamente li invitò a cena. I due accolsero l’invito. Goethe, che aveva appena finito di scrivere il “Faust" e faceva anche lui il tifo per Napoleone annotava: «la nobildonna è stata di una ammirevole dignità».


Tra gli incendi, in mezzo alle grida dei soldati francesi ormai dediti al saccheggio più sfrenato, la città di Jena passava l’ultima notte di grande paura. Dall’alto dell’abbaino in cui li aveva messi lo zelante ma beffardo Glaber, il professore e Cristiana Burckardt avevano smesso di guardare atterriti le stragi e le devastazioni. Avevano chiuso la finestra, tirate le tendine, stavano entrambi sul letto, e si stringevano disperatamente. «L’amore», aveva scritto qualche anno prima il professore, «è più forte della paura... L’amore è un reciproco prendere e dare. Timoroso che i suoi doni possano venir scherniti, timoroso che un opposto non voglia cedere al suo prendere, esso cerca di far la prova per vedere se la speranza non lo ha ingannato... Ciò che più intimamente è proprio si unifica nella carezza, contatto sensuale, fino a smarrire la coscienza: e un embrione di immortalità si è fatto». Nove mesi dopo Cristiana Burckardt partoriva un figlio illegittimo di Hegel, lo chiamava Ludwig, e gli dava il suo cognome di zitella, Fischer. Il professore era già da molti mesi a Bamberga; per nessuna ragione sarebbe mai più tornato indietro, a quell’abbaino alto sopra gli incendi, a quella donna che ora gli sembrava opaca e spudorata. Cominciava quella che Lukàcs ha chiamato «la tragedia tedesca».

"L'Espresso colore", ritaglio senza data, ma agosto 1970

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