13.7.17

Invenzioni del Novecento. La fotocopiatrice (Remo Cesarani)

Nell'estate del 1991, come lettura d'agosto “il manifesto” commissionò ad un gruppo di suoi collaboratori, più o meno illustri, una serie d'articoli, ciascuno dedicato ad una invenzione o innovazione del Novecento che andava a morire intitolata Un secolo in pezzi. Alla macchina fotocopiatrice, inventata da Chester Floyd Carlson, è dedicato il testo che segue, opera di Remo Cesarani, italianista e comparatista, noto soprattutto per un innovativo corso scolastico di letteratura italiana, assai diffuso negli anni Ottanta del secolo scorso, dal titolo emblematico Il materiale e l'immaginario. (S.L.L.)
Ornella Vanoni testimonial nel 1961 di una delle prime Rank Xerox prodotte per l'Italia

Fotocopie d'identità per esseri ubiqui
Ricordo abbastanza bene quando sono arrivate fra noi le prime macchine fotocopiatrici. che la Rank-Xerox aveva brevettato e messo sul mercato, e dava a nolo mantenendo la proprietà della macchina e facendo pagare a chi la noleggiava un tanto alla copia. Erano macchine alte, grige e mastodontiche, e facevano pensare ai mammuth. a cui la leggenda attribuisce una memoria straordinariamente capace. Assomigliavano un po' a dei banconi di ferramenta, un po' a grossi armadi con i cassetti. Si mettevano in moto a stento, dopo essersi ben bene .arroventate e se si sbirciava all'interno, si vedevano lampade accese e specchi che ruotavano rumorosamente ogni volta che si cambiava il formato della carta. Erano i primi anni '60: un altro degli aspetti della nostra vita (la capacità di memorizzare e riprodurre i testi che scriviamo, ci scambiamo, archiviamo nei nostri scaffali), un altro dei settori del nostro immaginario stavano cambiando.
All’origine del cambiamento, come in ogni buona favola americana, c’era la storia di un uomo e della sua fortuna. Ce la racconta con gusto narrativo e con straordinaria curiosità conoscitiva tradotta immediatamente in segno grafico il disegnatore anglo-americano David Macaulay nel bellissimo The Way Things Work, il libro sul «mondo delle macchine, dalla leva al laser, dall’automobile al computer» che egli ha pubblicato nel 1988 e che è stato tradotto anche in italiano, da Mondadori. L’uomo di cui parla la favola era un inventore nato a Seattle, di nome Chester Floyd Carlson (1906-68), che lavorava nell’ufficio brevetti di una grande ditta di elettronica. Negli anni ’30, Carlson viveva a New York, era felice del suo lavoro, eccetto che per una cosa: il tempo e i soldi che doveva sprecare ogni volta che, per ragioni di ufficio, doveva fare delle copie fotografiche, dei «duplicati» dei suoi brevetti.
Carlson si sentiva così frustrato da quel modo tanto dispendioso di fare copie fotografiche dei suoi brevetti che decise di inventare lui stesso un nuovo procedimento e di aggiungere così un brevetto a quelli che erano protetti dal suo ufficio. La prima copia su carta fu realizzata il 22 ottobre 1938. 11 procedimento prese il nome di xerografia, scrittura a secco, dal greco «xeros», secco.
Si trattava di un procedimento semplice, basato sulla possibilità di fissare su un foglio di carta normale, avvolto attorno a un tamburo, una polvere di selenio ivi posatasi attraverso un processo elettrostatico. mediante attivazione di cariche elettriche prodotte in corrispondenza dei punti e li-
nee dell’originale quando questo fosse stato investito e attraversato da una sorgente luminosa.
Ci vollero un po’ di anni, un’oculata gestione del brevetto e la fondazione della Haloid Company, poi divenuta la Xerox Corporation, e la fusione di questa con l’inglese Rank. specializzata in macchine per ufficio. perché le prime macchine xerocopiatrici apparissero sul mercato nel 1958. Carlson accumulò una grossa fortuna. Il mondo ebbe a disposizione una nuova ingegnosissima macchina. I giapponesi, che dell’arte di copiare (o fotocopiare) i brevetti sono maestri, hanno a loro volta invaso il mercato con macchine, ma sempre più versatili, piccole, capaci di impicciolire e ingrandire, copiare a colori, rimescolare o distribuire le copie. La Rank Xerox, a sua volta, ha prodotto macchine fotocopiatrici di tutti i tipi e possibilità e, dopo qualche anno di crisi, è riuscita a restare un colosso economico.
La vita degli uffici, e soprattutto di quelli che presiedono all’organizzazione manageriale della produzione e distribuzione e di quelli addetti alla comunicazione, alla progettazione grafica, alla produzione editoriale e culturale è cambiata radicalmente: il parco delle macchine addette alla produzione, riproduzione e duplicazione dei messaggi si è arricchito di una nuova e importante protagonista, accanto ad altre già presenti o che stavano per arrivare ad affiancarla: la macchina da scrivere, il ciclostile (con i vari nomi di stencil, mimeografo, ectografo, litografo basato su un procedimento diverso da quello xerografico), l’elaboratore elettronico e la stampante a aghi, termografica o laser, il microfilm, la microfiche, il CD-Rom con 1’archivio elettronico, il collegamento per telefono o video con la banca dati, il fax e il modem per la trasmissione di testi a distanza.
Negli uffici queste macchine, con al centro la fedele foto-copiatrice, hanno imposto la loro presenza, cambiato modi di scrivere, memorizzare, comunicare, cambiato anche i modi di vivere e i rapporti di chi negli uffici lavora, dando origine, sul piano degli studi, a una branca particolare della sociologia, battezzata dai ricercatori canadesi «office folklore» o «photocopy folklore», che si occupa proprio di quei mutamenti. Un bell’esempio di «photocopy folklore» lo si è visto in una breve scena, ironica e amara, del film di De Palma Il falò delle vanità (tratto dal romanzo di Tom Wolfe): la scena ha per sfondo un party chiassoso in un ufficio newyorchese e al centro una giovane impiegata che si toglie le mutandine e si adagia su una fotocopiatrice per fare un duplicato della propria fica e mandare quel simulacro elettronico in omaggio all’uomo che l’ha tradita.
Dagli uffici le macchine si sono poi disseminate in tanti altri settori della nostra vita sociale: il facile mezzo di duplicazione e moltiplicazione è entrato nelle amministrazioni statali e comunali, le anagrafi, gli studi dei notai, una volta accettato dal codice civile il principio che «le copie fotografiche di scritture hanno la stessa efficacia delle autentiche, se la loro conformità con l’originale è attestata da pubblico ufficiale»; le città si sono popolate di copisterie; le biblioteche si sono riempite di fotocopiatrici a moneta. a gettone, a tessera elettronica. Il nostro modo di produrre e comunicare documenti e messaggi, di esplorare e conservare le scritture del passato, è stato trasformato dai nuovi mezzi. La fedele fotocopiatrice ha agito in profondo, senza troppa esibizione di sé; il ciclostile è riuscito a imporsi, nella pratica quotidiana, come protagonista del folclore e dell’immaginario collettivo del ’68, disperatamente ed eroicamente riproducendo volantini, guastandosi drammaticamente sul più bello, sporcando di inchiostri i suoi insonni operatori; il fax è divenuto il simbolo della solidarietà comunicativa del movimento studentesco delle Pantere negli anniversari di altre gloriose rivoluzioni, duplicandole con coraggiosa improntitudine e con qualche disinvolta leggerezza.
Possiamo fare, a proposito del «folclore xerografico», qualche non troppo impegnativa riflessione?
A me pare che le generazioni che hanno conosciuto l’introduzione nella loro vita di macchine come quelle di cui sto parlando si sono generalmente comportate in modo diverso da quelle che hanno visto, nell’800 e nella prima metà del 900, l’introduzione di tante altre macchine, da quelle a vapore, alla macchina fotografica, alle tante macchine elettriche. Nel momento alto della modernità ogni nuova macchina veniva accolta con entusiasmo o con ostilità aggressiva, ma sempre con curiosità, e con una voglia di sapere come funzionava (la stessa voglia che si coglie nel libro di Macaulay, il quale penetra con i suoi disegni dentro le macchine, ne svela il funzionamento e dimostra così di appartenere come si addice a un insegnante del Risdi di Providence, erede delle tante Bauhaus, ancora e totalmente al mondo della modernità). I nostri nonni e i nostri padri a ogni nuovo marchingegno, anche piccolo (un pelapatate elettrico, un trapano, una calcolatrice), reagivano con una voglia di sapere, di conoscere il signor Carlson di turno, di smontare l’aggeggio per tirarne fuori l’anima e il segreto miracoloso.
La mia impressione è che già un po’ la mia generazione, ma soprattutto quelle che sono seguite, e quella nuovissima, accolgano ogni innovazione con indifferenza, quasi le fosse dovuta. quasi non facesse che rendere possibile delle potenzialità già previste. Di cosa ci sia dietro le nuove macchine, di come funzionino, di quali conseguenze abbiano sul nostro apparato sensibile e sul mondo naturale che ci circonda non gliene importa quasi nulla. Tutti fanno fotocopie e quasi nessuno sa niente né dei materiali semiconduttori né dei fenomeni elettrostatici. Il libro di Macaulay lo sfogliano come se fosse una raccolta di favole.
Il procedimento di duplicazione istantanea, di riproduzione all’infinito di copie consentito dalle macchine della Rank-Xerox e dalle molte imitazioni ha probabilmente cambiato alcuni settori importanti della nostra attività di memorizzazione e comunicazione. Quando studiosi come Jean Baudrillard e Fredric Jameson parlano dell’importanza che ha l’elemento del «simulacro» nella nostra cultura, probabilmente uno dei modi per visualizzare questa loro idea è proprio anche quello di pensare ai processi di riproduzione elettrica o elettronica delle immagini e delle scritture (ma si può, naturalmente, anche ragionare in modo antropologico e pensare alla figura del «doppio» nella mitologia e nell’iconologia antiche, a cominciare da quella storia di Elena che non di persona ma attraverso una propria copia, o simulacro, aveva partecipato alla guerra di Troia).
Quando schiere di studiosi e di studenti affollano le macchine fotocopiatrici delle biblioteche e si illudono, un po’ magicamente, che fotocopiare le pagine di un libro quasi equivale ad archiviarlo nella propria memoria, il possederne una fotocopia quasi vale l’averlo letto e assorbito nella propria mente, essi probabilmente non fanno altro che ripetere, con assai minore consapevolezza e anche con assai minore efficacia, alcune delle secolari tecniche (e utopie) di memorizzazione di cui due anni fa hanno ricostruito splendidamente la storia Pietro Corsi, Lina Bolzoni e altri in una memorabile mostra fiorentina (poi trasferita a Parigi e altrove) intitolata appunto La fabbrica dei pensiero (catalogo Electa).
Una spia della presenza diffusa e al tempo stesso della scarsa concretezza e problematicità che hanno le nuove macchine e i nuovi procedimenti presso le generazioni odierne e i loro maestri del pensiero (se si eccettua qualche nipotino di MacLuhan), la si ha se si studia il linguaggio giornalistico odierno e la presenza frequente che in esso hanno immagini tratte dal mondo della duplicazione elettronica. Basta una campionatura tratta dai giornali di queste ultime settimane. Parlando, per esempio, della vertenza sindacale dei giornalisti, ho trovato spesso, a proposito dei progetti di produzione a catena, con la tecnica delle sinergie, di fogli appartenenti allo stesso gruppo editoriale, la denuncia del pericolo di avere dei giornali l’uno la «fotocopia» dell’altro. A proposito delle discussioni sulle riforme costituzionali, ho trovato, in molti interventi dei nuovi aderenti all’ingegneria istituzionale, la denuncia del nostro sistema bicamerale come di un sistema in cui una camera è la «fotocopia» dell’altra. In occasione del recente dibattito al parlamento sul messaggio di Cossiga, avendo Craxi prima minacciato un intervento durissimo e poi avendo egli cestinato la parte dirompente, Massimo D’Alema, che ha una lingua maligna, ha osservato che Craxi, in questa occasione, ha presentato nell’aula di Montecitorio «la fotocopia di se stesso».
Si tratta di immagini e metafore che segnalano un minimo di presenza dei nuovi procedimenti nel nostro pensiero e nel nostro linguaggio; e tuttavia si tratta di immagini forse un po’ troppo vaghe, un po’ troppo deboli e passive. Ci vorrebbe, perlomeno. uno scatto metaforico ulteriore, un po’ di investimento creativo.
Non credo che sarebbe difficile. Si potrebbe, per esempio, pensare in termini xerografici ai modi di operare, dentro l’industria della comunicazione culturale, di un personaggio prestigioso come Furio Colombo. Ecco infatti che, mentre egli dirige con suprema competenza la scuola di giornalismo della «New York University» e fa lezione ai suoi studenti, c’è una sua fotocopia che, con perfetta simultaneità, scrive un articolo su come si fa il giornalista nel nostro mondo multimediale e multisoggettivo (e multixerocopico) per «Problemi dell’informazione»; contemporaneamente un’altra sua fotocopia scrive un articolo per la Stampa sulla morte di Isaac Singer ed è un articolo, dal punto di vista del mestiere giornalistico, esemplare: l’autore ha impiegato almeno tre ore per imparare l’yiddish, due per leggere il nuovo libro di Singer su Max Barabander, mezz’ora per scrivere concretamente il pezzo. Ma intanto ecco che un’altra xerocopia di lui fa il direttore dell’Istituto italiano di cultura di New York (dove una seconda xerocopia, nella persona del vecchio direttore dell’istituto di cultura, si occupa delle cose burocratiche e cerca di tenere in piedi la baracca); un’altra sua xerocopia dirige la Fiat Usa; un’altra concede un’intervista a Rai2 e un'altra ancora prepara un programma culturale per Rai 3.

Con l’invenzione della xerocopia i vasti spazi della comunicazione culturale e multimediale sono attraversati con velocità e simultaneità da continui fenomeni di duplicazione sinergia.

"il manifesto", 28 agosto 1991

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