9.7.17

Una lunga amicizia. Il carteggio Gadda-Contini (Niccolò Scaffai)

«Ho una paura pazza dell’errore, intanto che continuo a perpetrarlo; sento un’umiliazione da peccato originale. Allora non dovrei fare più nulla; so di non meritare; e inizio, gratuitamente, una nuova apertura di credito. Ci sono costretto, in fondo: se no, come farei a vivere?». Può sorprendere che a formulare queste frasi non sia il protagonista letterario di una sofferta formazione, ma uno dei massimi filologi e critici del Novecento: Gianfranco Contini, che appena ventiduenne ma già autorevole studioso, così si rivolgeva a Gadda in una lettera del giugno ’34, ora contenuta in: Gianfranco Contini-Carlo Emilio Gadda, Carteggio 1934-1963, a cura di Dante Isella, Gianfranco Contini, Giulio Ungarelli. Con 62 lettere inedite («Saggi» Garzanti).
L’alluvione fiorentina del ’66 danneggiò, tra gli altri tesori, anche le carte donate da Gadda a Alessandro Bonsanti e conservate nell’archivio del «Vieusseux». Fra quelle carte, salvate dal fango, sono riemerse cinquantasette lettere di Contini allo scrittore composte tra il 1934 e il 1936, già presentate a Firenze da Dante Isella nel 2003. Con altre cinque, risalenti al periodo 1940-42, formano la prima, inedita parte del volume che riunisce il carteggio. È a Isella che si devono il progetto e l’allestimento del libro, consegnato a Garzanti fin dal 2007; la figlia Silvia, che già l’anno scorso aveva curato la pubblicazione postuma delle Carte mescolate vecchie e nuove del padre, ne ha seguito l’uscita, firmandone l'Avvertenza iniziale.
Il carteggio è la somma di tre addendi: le sessantadue lettere di Contini, a cura di Isella; le settantasei di Gadda, scritte tra il ’34 e il ’67 e già pubblicate dal destinatario nel 1988; altre venticinque lettere gaddiane curate da Ungarelli dieci anni dopo per Archinto, risalenti al ventennio ’43-’63. Tre libri giustapposti, insomma, e unificati nel nuovo volume. L’assetto ha permesso di conservare introduzioni e commenti di Contini e Ungarelli, ispirati a criteri diversi e non pienamente omologabili: da parte in causa, il primo optò per una «glossa perpetua» suggerita dalla privata memoria di eventi e persone; il secondo, da altra distanza, preferì una normale annotazione numerata. Isella ha seguito un metodo misto, già adottato per la sua curatela del carteggio Contini-Montale (Eusebio e Trabucco, Adelphi 1997): non singole parole o passi annotati, ma un’unica glossa, che per ciascuna lettera fornisce chiarimenti e riscontri. D’altra parte, la scelta conservativa ha un po’ nuociuto alla leggibilità, sciogliendo in distinte tranches le ‘battute’ incrociate di un dialogo che, con qualche sforzo, il lettore può astrattamente ricomporre grazie all’Indice cronologico finale. Eguagliare il risultato di Eusebio e Trabucco avrebbe richiesto un diverso montaggio dei testi e, di fatto, un nuovo commento (o un’accurata armonizzazione che evitasse ad esempio le informazioni ripetute).
Conviene soffermarsi proprio sul confronto con l’altro grande carteggio novecentesco di cui Isella è stato eccellente editore. Anche nelle lettere tra Contini e Gadda, del resto, Montale è quasi un terzo corrispondente. Non per niente, fu il poeta a far apprezzare lo scrittore a un Contini irritato dalla lettura di Polemiche e pace nel direttissimo, e fu ancora Montale che fornì un estratto del giovane filologo a Gadda, come questi dichiara nella sua prima lettera. Tuttavia, la sostanza dei due carteggi e i caratteri che rivelano sono diversi. Con Gadda prevale un’amicizia paritaria. Amicizia forse anche gelosa, soprattutto da parte dello scrittore, più per bisogno di comprensione che per narcisismo. Amicizia corroborata fin dall’inizio dai comuni «elementi etnici» (così Contini, nella sua prima lettera del ’34): milanese l’uno, di origine lombarda i genitori dell’altro. Con Montale, invece, il filologo non depone mai i ferri del mestiere, devoto ai testi del grande poeta, più che all'uomo. La differenza si riflette nei titoli dei libri che Contini dedicò all’uno e all’altro: Una lunga fedeltà. Scritti su Eugenio Montale e Quarantanni d’amicizia. Scritti su C. E. Gadda (1934-1988). È vero che il tono stilistico assunto con i due destinatari appare il medesimo: arguto, vivace, a tratti mimetico tanto nei confronti del plurilinguismo gaddiano quanto dell'allusività montaliana. Ma quello stile serve per illustrare distinti gradi di relazione tra intelligenza e umanità; doti cui corrispondono due obiettivi critici complementari: l’opera in sé e il suo legame con le istanze dell’autore. Con i contemporanei, l’indagine sugli elementi che ‘provocano’ il testo avviene attraverso il dialogo diretto e la condivisione dei medesimi contesti. Sono queste le caratteristiche che rendono affascinanti e preziosi i carteggi (non solo) novecenteschi, in cui gli scrittori rimangono in bilico tra la vita e la letteratura, la rivelazione di sé e la coltivazione del proprio ruolo o ‘personaggio’. E in cui vengono restituite a una vivente attualità le immagini degli uomini prima che degli intellettuali, dei loro incontri e dei luoghi che ne furono teatri, dei libri scritti e da scrivere.
(Luoghi e libri spesso legati a doppio filo: per Gadda, le Rime dantesche di Contini richiamano immediatamente «gli anni di Firenze»: lettera del 5 giugno ’64). Ne risulta un’idea di ‘epoca letteraria’ come spazio condiviso e percorribile lungo diverse rotte; idea più calda rispetto a quella di ‘canone’ e forse più attendibile di quella che vuole gli autori incasellati in una trafila lineare.
I traumi all’origine del rovello gaddiano fanno sì che nella corrispondenza con Contini siano spesso in primo piano le urgenze esistenziali e le passioni, anche negative: si veda la lettera del 6 agosto '49, in cui Gadda si rivolge con un po’ di sarcasmo a Contini, credendolo autore di un «piatto elogio della Svizzera», uscito sul “Corriere della Sera”. La glossa del curatore, non meno piccata, chiarisce l’equivoco, causato dalle iniziali dell’articolista - «G.C.», le stesse di Contini. Del resto, Gadda non ha mai nascosto le idiosincrasie che mossero la sua scrittura. L’essenza del «mio lavoro», scrive in una lettera del '63, «è un disperato tentativo di giustificare la mia adolescenza di “destinato al fallimento dallo egoismo narcisistico e follemente egocentrico dei predecessori”». Ciononostante, qui non si ha l’impressione di spiare le vite e le opere dal buco della serratura: non tanto grazie al riparo offerto dal ben noto cerimoniale stilistico gaddiano, quanto per la deontologia del filologo, che impone di non interpellare l'autore per fargli ‘spiattellare’ i propri significati e di non pungolarlo perché scopra le proprie intime fibre autobiografiche. Una gentile forzatura, se fu tale, si rivolse semmai verso la pervicace stanzialità di Gadda. Alla mobilità del più giovane Contini sempre in viaggio fra Domodosspla, Friburgo, Perugia e Firenze, e sempre desideroso di attrarre l'amico in quelle sedi, Gadda oppone l'aspirazione a “stare”(latinamente) su un poltrona, vestito d’uno zimarrone rosso, con pantofole ai piedi».
Contini conosceva bene il giusto mezzo tra il capire troppo e il non capire affatto. Gadda deve essersene reso conto molto presto consegnando all’interlocutore nel maggio del'34, una bellissima dichiarazione personale, che ogni scrittore potrebbe e dovrebbe fare propria: “Leggerò con piacere anche la condanna, in me la questione dello scrivere non è un'ambizioncella, ma una manìa, un prepotente bisogno... Perciò sono anche più calmo e rassegnato. La realtà deve essere, il resto non importa. Se io non sono realtà è giusto perire ...”.

alias il manifesto, 22 dicembre 2010


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