2.6.18

Il nostro mondo visto da lontano (Alessandro Portelli)


Un articolo scritto a ridosso del grande attentato delle Torri e alla vigilia dell'intervento USA in Afghanistan, quando si parlava di scontro di civiltà. Portelli utilizza ottimamente come chiave la grande letteratura. I risultati mi paiono buoni e le riflessioni di allora non mi paiono aver perso molto di attualità. (S.L.L.)

Siamo nel primo capitolo del Moby Dick di Herman Melville (1851).
Il narratore, Ishmael, sta per imbarcarsi, e scrive:
«Senza dubbio questo mio viaggio per balene fa parte di quel vasto programma che la Provvidenza ha predisposto molto tempo fa. È una sorta di breve interludio e assolo fra performances più importanti. Immagino che questa parte del programma di sala potrebbe apparire così:
Grande contestata elezione
per la Presidenza degli Stati Uniti
Viaggio in mare di un certo Ismaele
SANGUINOSA BATTAGLIA
IN AFGHANISTAN»
La prima cosa che uno pensa è: altro che Nostradamus. Questo ha infilato il viaggio di Ismaele fra la contestata elezione Bush-Gore e l’imminente guerra in Afghanistan. Però, anche se non mancano le letture esoteriche di Moby Dick, credo che trattarlo da profeta sia meno utile che non domandarci che cos'è che, attorno al 1851, gli faceva scrivere certe cose. Per esempio: gli Stati Uniti venivano da una guerra di espansione territoriale contro un altro stato sovrano, e di lì a poco avrebbero conosciuto una guerra civile, un presidente assassinato, un altro assoggettato a impeachment, e un’elezione presidenziale (1876) tanto scandalosa che in confronto l’imbroglio Bush-Gore è uno scherzo. Intanto nel 1838 gli inglesi avevano iniziato una penetrazione in Afghanistan (per sottrarlo all’influenza russa...); nel 1848, una guerra risultò nell’annessione della provincia afghana di Peshawar all’India britannica (infatti oggi sta in Pakistan). Forse il malessere inspiegabile che spinge Ishmael in mare dipende anche dal sentirsi schiacciato fra qualcosa di sbagliato nei rapporti interni dell’Occidente, e qualcosa di sanguinoso nei rapporti fra l’Occidente e quei luoghi lontani in cui si trova l’Afghanistan.
Umberto Eco ha scritto in questi giorni un articolo di quel raro buon senso che può nascere solo da un ragionare complesso e da una visione ampia (“la Repubblica”, 5 ottobre). Dice delle cose elementari e difficili su che cosa vuol dire radici, sull’antropologia e il suo incontro con le culture sulla capacità e necessità della nostra cultura di rivedere continuamente i propri parametri. Andrebbe fatto circolare come antidoto ai veleni ignoranti delle varie Fallaci e Panebianco e dei loro mandanti. Io qui vorrei continuare il ragionamento aggiungendo una dimensione che mi sembra mancante: l’acuta riflessione che Eco propone sullo sguardo che l’Occidente deve posare su se stesso e sugli altri, infatti, rischia di restare autoreferenziale se non si confronta anche con la dimensione dello sguardo che gli altri posano su di noi.
Molto opportunamente, Eco ricorda ai suoi lettori che della cultura occidentale fanno parte anche Hitler e Stalin. Figuriamoci se non sono d’accordo - il problema è, semmai, che Hitler e Stalin fanno troppo parte della cultura occidentale: li riconosciamo come mostri perché i loro crimini sono stati compiuti all'interno dell’Occidente, in città che sono le nostre, contro vittime «occidentali» come noi. Ma se invece che dall’interno noi guardassimo da fuori, di mostri ne vedremmo altri che non meno spaventosi solo perché hanno ammazzato gente di diverso colore e religione in continenti diversi dal nostro. Se guardassi la civiltà occidentale dal Congo, forse vedrei re Leopoldo del Belgio, sovrano forse amatissimo dai suoi cittadini e massacratore e rapinatore in Africa (sono sicuro che esistano fonti africane in proposito; io conosco solo un tagliente saggio di Mark Twain e Cuore di tenebra di Conrad. In nessuno dei due parla un africano). Se la guardassi dall’Algeria, insieme a molte cose belle vedrei anche le quindicimila (secondo fonti francesi) o quarantacinquemila (secondo fonti algerine) persone ammazzate nell’arco di due giorni durante i moti indipendentisti del maggio 1945, dalla civile e democratica Francia che si era appena liberata dell’occupazione nazista. Forse quando parliamo della cultura occidentale, milioni di persone non pensano a come viviamo noi, ma a come facciamo vivere loro; e non è detto che questo sguardo da fuori e da sotto contenga sulla nostra civiltà meno verità del nostro sguardo da sopra e da dentro.
Dice molto bene Eco: «Il problema che l’antropologia culturale non ha risolto è cosa si fa quando il membro di una cultura i cui principi abbiamo magari imparato a rispettare, viene a vivere in casa nostra». Il punto è che la cosa funziona in tutte e due le direzioni: ben prima che loro venissero a «casa nostra», siamo stati noi ad andare a casa loro, non sempre con le buone maniere, e non sempre per fare i lavori più umili che loro non volevano più fare... E allora, se per noi occidentali, come dice giustamente Eco, sono un problema le ragazze orientali che vogliono portare il chador in Francia, non sono forse un problema per gli «orientali» le donne occidentali che non lo portano in Pakistan o in Algeria? Lasciamo da parte per un momento chi ha «ragione» (io sono di quelli a cui il chador non piace, credo - da occidentale? - che tutte dovrebbero potersi presentare come gli pare. Ma ho un’amica a New York che ha scelto di rimettersi la hijab). Chiediamoci piuttosto: che emozioni complicate, che miscugli di desiderio e orrore, che frustrazioni ed esecrazioni, che lacerazioni, rabbie, dolore può avere generato questa presenza, e tutto quello che si porta dietro, in chi se la sentiva arrivare in casa?
Forse in Africa, in Asia, in America Latina, quando pensano alla «civiltà Occidentale» pensano a questo multiplo doppio legame che ti impone «sii' come noi» e al tempo stesso ti impedisce di esserlo, che accende desideri e poi li nega - che ti ordina «sii libero» e manda le cannoniere se ci provi, che ti può usare da cavia per la ricerca sull’Aids ma che devi fare una battaglia infinita per avere accesso ai farmaci che ne derivano. Per questo, trovo intelligente l’operazione raccontata da Eco, di far venire antropologi africani o asiatici a studiare il nostro modo di vita occidentale; ma credo che andrebbe integrata con una riflessione di quello che milioni di persone imparano sulla civiltà occidentale semplicemente guardando come si presenta in terra di colonia.
Se davvero il modello di vita euro-nordamericano si estendesse al mondo intero, come finge di credere Berlusconi, il pianeta non ce la farebbe a sostenerlo. Questo lo sanno benissimo fuori dell’Occidente, e lo sappiamo benissimo anche noi (c’è un ecologismo anti-immigrazione negli Stati Uniti: ogni messicano che diventa nordamericano significa un aumento dei consumi di energia e dei danni ambientali...). Che senso ha allora proporre un modello di civiltà e benessere che non potrebbe esistere senza la loro fame? Che confusioni mentali, morali, che invidie e ripulse produce tutto questo? Che cosa vedono queste persone quando guardano gli occidentali - a casa loro, prima che a casa nostra?
Moby Dick è un libro strano. È un libro di caccia tutto raccontato dalla parte dei cacciatori, ma alla fine la balena ha la meglio; nella sua ansia di distruggere il male il quacchero capitano Ahab trascina tutti a una catastrofe suicida. Sappiamo quello che pensarono Ahab e Ishmael della balena; ma il vero colpo di genio di Melville è che il punto di vista della balena ce lo dobbiamo immaginare noi. Che cosa vede Moby Dick quando gli incombe addosso la baleniera che cerca di ucciderlo e lui reagisce chiudendo le mascelle sulla gamba del suo aggressore? pensa alla superiorità della tecnologia umana, quando Achab gli pianta l’arpione nella schiena? E che cosa sente, quando davanti all’ultima minaccia mortale colpisce disperatamente e sprofonda lasciando che l’oceano gli si richiuda sopra?

Post-scriptum. Giorni fa, un bell’articolo di Eugenio Scalfari su questi argomenti finiva con una nota meno convincente. Cito a memoria: «con passione e ragione, navigò sempre verso occidente Odisseo». Non mi convince per tre ragioni:
1. Nell’ultima parte del suo viaggio, dal Circèo a Itaca, Ulisse viaggia verso Est;
2. Prima di viaggiare verso Occidente, Ulisse e i suoi compagni di spedizione viaggiano verso l'Asia dove - in una storia di fondazione della nostra civiltà - distruggono una città e massacrano i suoi abitanti;
3. Come ci insegnano Walt Whitman (Passage to India) e Cristoforo Colombo («cercar l’Oriente per l’Occidente»), se uno continua a viaggiare verso occidente finisce per trovarsi in India. E in India potrebbe ricordarsi di quel «selvaggio seminudo» che alla domanda «che ne pensi della civilizzazione occidentale?» rispose una volta: «penso che sarebbe una buona idea». Si chiamava Gandhi, e non va più di moda.

“il manifesto”, 9 ottobre 2001

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