Un articolo scritto a
ridosso del grande attentato delle Torri e alla vigilia
dell'intervento USA in Afghanistan, quando si parlava di scontro di
civiltà. Portelli utilizza ottimamente come chiave la grande
letteratura. I risultati mi paiono buoni e le riflessioni di allora
non mi paiono aver perso molto di attualità. (S.L.L.)
Siamo nel primo capitolo
del Moby Dick di Herman Melville (1851).
Il narratore, Ishmael,
sta per imbarcarsi, e scrive:
«Senza dubbio questo mio
viaggio per balene fa parte di quel vasto programma che la
Provvidenza ha predisposto molto tempo fa. È una sorta di breve
interludio e assolo fra performances più importanti. Immagino che
questa parte del programma di sala potrebbe apparire così:
Grande
contestata elezione
per
la Presidenza degli Stati Uniti
Viaggio
in mare di un certo Ismaele
SANGUINOSA
BATTAGLIA
IN
AFGHANISTAN»
La prima cosa che uno
pensa è: altro che Nostradamus. Questo ha infilato il viaggio di
Ismaele fra la contestata elezione Bush-Gore e l’imminente guerra
in Afghanistan. Però, anche se non mancano le letture esoteriche di
Moby Dick, credo che trattarlo da profeta sia meno utile che
non domandarci che cos'è che, attorno al 1851, gli faceva scrivere
certe cose. Per esempio: gli Stati Uniti venivano da una guerra di
espansione territoriale contro un altro stato sovrano, e di lì a
poco avrebbero conosciuto una guerra civile, un presidente
assassinato, un altro assoggettato a impeachment, e
un’elezione presidenziale (1876) tanto scandalosa che in confronto
l’imbroglio Bush-Gore è uno scherzo. Intanto nel 1838 gli inglesi
avevano iniziato una penetrazione in Afghanistan (per sottrarlo
all’influenza russa...); nel 1848, una guerra risultò
nell’annessione della provincia afghana di Peshawar all’India
britannica (infatti oggi sta in Pakistan). Forse il malessere
inspiegabile che spinge Ishmael in mare dipende anche dal sentirsi
schiacciato fra qualcosa di sbagliato nei rapporti interni
dell’Occidente, e qualcosa di sanguinoso nei rapporti fra
l’Occidente e quei luoghi lontani in cui si trova l’Afghanistan.
Umberto Eco ha scritto in
questi giorni un articolo di quel raro buon senso che può nascere
solo da un ragionare complesso e da una visione ampia (“la
Repubblica”, 5 ottobre). Dice delle cose elementari e difficili su
che cosa vuol dire radici, sull’antropologia e il suo incontro con
le culture sulla capacità e necessità della nostra cultura di
rivedere continuamente i propri parametri. Andrebbe fatto circolare
come antidoto ai veleni ignoranti delle varie Fallaci e Panebianco e
dei loro mandanti. Io qui vorrei continuare il ragionamento
aggiungendo una dimensione che mi sembra mancante: l’acuta
riflessione che Eco propone sullo sguardo che l’Occidente deve
posare su se stesso e sugli altri, infatti, rischia di restare
autoreferenziale se non si confronta anche con la dimensione dello
sguardo che gli altri posano su di noi.
Molto opportunamente, Eco
ricorda ai suoi lettori che della cultura occidentale fanno parte
anche Hitler e Stalin. Figuriamoci se non sono d’accordo - il
problema è, semmai, che Hitler e Stalin fanno troppo parte della
cultura occidentale: li riconosciamo come mostri perché i loro
crimini sono stati compiuti all'interno dell’Occidente, in
città che sono le nostre, contro vittime «occidentali» come noi.
Ma se invece che dall’interno noi guardassimo da fuori, di mostri
ne vedremmo altri che non meno spaventosi solo perché hanno
ammazzato gente di diverso colore e religione in continenti diversi
dal nostro. Se guardassi la civiltà occidentale dal Congo, forse
vedrei re Leopoldo del Belgio, sovrano forse amatissimo dai suoi
cittadini e massacratore e rapinatore in Africa (sono sicuro che
esistano fonti africane in proposito; io conosco solo un tagliente
saggio di Mark Twain e Cuore di tenebra di Conrad. In nessuno
dei due parla un africano). Se la guardassi dall’Algeria, insieme a
molte cose belle vedrei anche le quindicimila (secondo fonti
francesi) o quarantacinquemila (secondo fonti algerine) persone
ammazzate nell’arco di due giorni durante i moti indipendentisti
del maggio 1945, dalla civile e democratica Francia che si era appena
liberata dell’occupazione nazista. Forse quando parliamo della
cultura occidentale, milioni di persone non pensano a come viviamo
noi, ma a come facciamo vivere loro; e non è detto che questo
sguardo da fuori e da sotto contenga sulla nostra civiltà meno
verità del nostro sguardo da sopra e da dentro.
Dice molto bene Eco: «Il
problema che l’antropologia culturale non ha risolto è cosa si fa
quando il membro di una cultura i cui principi abbiamo magari
imparato a rispettare, viene a vivere in casa nostra». Il punto è
che la cosa funziona in tutte e due le direzioni: ben prima che loro
venissero a «casa nostra», siamo stati noi ad andare a casa loro,
non sempre con le buone maniere, e non sempre per fare i lavori più
umili che loro non volevano più fare... E allora, se per noi
occidentali, come dice giustamente Eco, sono un problema le ragazze
orientali che vogliono portare il chador in Francia, non sono forse
un problema per gli «orientali» le donne occidentali che non lo
portano in Pakistan o in Algeria? Lasciamo da parte per un momento
chi ha «ragione» (io sono di quelli a cui il chador non
piace, credo - da occidentale? - che tutte dovrebbero potersi
presentare come gli pare. Ma ho un’amica a New York che ha scelto
di rimettersi la hijab). Chiediamoci piuttosto: che emozioni
complicate, che miscugli di desiderio e orrore, che frustrazioni ed
esecrazioni, che lacerazioni, rabbie, dolore può avere generato
questa presenza, e tutto quello che si porta dietro, in chi se la
sentiva arrivare in casa?
Forse in Africa, in Asia,
in America Latina, quando pensano alla «civiltà Occidentale»
pensano a questo multiplo doppio legame che ti impone «sii' come
noi» e al tempo stesso ti impedisce di esserlo, che accende desideri
e poi li nega - che ti ordina «sii libero» e manda le cannoniere se
ci provi, che ti può usare da cavia per la ricerca sull’Aids ma
che devi fare una battaglia infinita per avere accesso ai farmaci che
ne derivano. Per questo, trovo intelligente l’operazione raccontata
da Eco, di far venire antropologi africani o asiatici a studiare il
nostro modo di vita occidentale; ma credo che andrebbe integrata con
una riflessione di quello che milioni di persone imparano sulla
civiltà occidentale semplicemente guardando come si presenta in
terra di colonia.
Se davvero il modello di
vita euro-nordamericano si estendesse al mondo intero, come finge di
credere Berlusconi, il pianeta non ce la farebbe a sostenerlo.
Questo lo sanno benissimo fuori dell’Occidente, e lo sappiamo
benissimo anche noi (c’è un ecologismo anti-immigrazione negli
Stati Uniti: ogni messicano che diventa nordamericano significa un
aumento dei consumi di energia e dei danni ambientali...). Che senso
ha allora proporre un modello di civiltà e benessere che non
potrebbe esistere senza la loro fame? Che confusioni mentali, morali,
che invidie e ripulse produce tutto questo? Che cosa vedono queste
persone quando guardano gli occidentali - a casa loro, prima che a
casa nostra?
Moby Dick è un
libro strano. È un libro di caccia tutto raccontato dalla parte dei
cacciatori, ma alla fine la balena ha la meglio; nella sua ansia di
distruggere il male il quacchero capitano Ahab trascina tutti a una
catastrofe suicida. Sappiamo quello che pensarono Ahab e Ishmael
della balena; ma il vero colpo di genio di Melville è che il punto
di vista della balena ce lo dobbiamo immaginare noi. Che cosa vede
Moby Dick quando gli incombe
addosso la baleniera che cerca di ucciderlo e lui reagisce chiudendo
le mascelle sulla gamba del suo aggressore? pensa alla superiorità
della tecnologia umana, quando Achab gli pianta l’arpione nella
schiena? E che cosa sente, quando davanti all’ultima minaccia
mortale colpisce disperatamente e sprofonda lasciando che l’oceano
gli si richiuda sopra?
Post-scriptum. Giorni
fa, un bell’articolo di Eugenio Scalfari su questi argomenti finiva
con una nota meno convincente. Cito a memoria: «con passione e
ragione, navigò sempre verso occidente Odisseo». Non mi convince
per tre ragioni:
1. Nell’ultima parte
del suo viaggio, dal Circèo a Itaca, Ulisse viaggia verso Est;
2. Prima di viaggiare
verso Occidente, Ulisse e i suoi compagni di spedizione viaggiano
verso l'Asia dove - in una storia di fondazione della nostra civiltà
- distruggono una città e massacrano i suoi abitanti;
3. Come ci insegnano Walt
Whitman (Passage to India) e Cristoforo Colombo («cercar
l’Oriente per l’Occidente»), se uno continua a viaggiare verso
occidente finisce per trovarsi in India. E in India potrebbe
ricordarsi di quel «selvaggio seminudo» che alla domanda «che ne
pensi della civilizzazione occidentale?» rispose una volta: «penso
che sarebbe una buona idea». Si chiamava Gandhi, e non va più di
moda.
“il manifesto”, 9
ottobre 2001
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