3.6.18

La rivolta di Pugaciov (Enzo Roggi)


Il secondo centenario della grande guerra contadina in Russia
Il cosacco analfabeta che portò sotto la bandiera della ribellione antifeudale i servi della gleba della regione degli Urali e del Volga - L'impresa scosse la potenza dell'assolutismo e il suo messaggio sopravvisse alla sconfitta militare e al condottiero
Cade quest’anno il bicentenario della quarta ed ultima guerra contadina in Russia, la sanguinosa “pugaciovshina”, dal nome del cosacco analfabeta Emeljan Pugaciov che portò sotto la bandiera della sua autocrazia antifeudale i servi della gleba della regione degli Urali e del Volga. Fu l’ultimo, organizzato sussulto dei paria, sconfitto e allo stesso tempo vittorioso giacché la sua ideologia non solo gli sopravvisse ma si espanse come barlume di coscienza delle masse servili della campagna e della città.
L’andamento della guerra è assai noto anche per la rappresentazione romantica che ne è giunta al grande pubblico attraverso opere letterarie molto popolari. Un cosacco cinquantratreenne che prestava servizio nell’Armata Turek nel Caucaso settentrionale, disertò e fece propagare la voce di essere lo zar Pietro III (che in realtà era stato ucciso undici anni prima lasciando il posto a Caterina II). In un paese ove il ricorso all’impostura era da tempo un normale mezzo di lotta politica o di scisma religioso, l’apparire d’un millantatore non ebbe inizialmente alcuna eco. C’era, tuttavia, un fatto singolare, e cioè che lo impostore questa volta non era un feudatario o un nobile ma un semplice cosacco del Don. Questa circostanza parve togliere ulteriore significato a quella disperata avventura personale. Ma non fu così. Pugaclov nell’estate del 1773 apparve sull'Ural e si pose alla testa dei cosacchi ribelli; era la prima delle tre fasi della sua guerra. Istintivamente a Pietroburgo si capì ch'era sorto un nuovo Stepan Razin e la corte gli dichiarò guerra spietata.
Il cosacco organizza rapidamente un esercito di contadini, servi e forzati delle miniere e delle fabbriche uraliche assaltando e conquistando le isolate fortezze della periferia, poste sulla via delle scorrerie mongole e tartare. Ben presto ha in mano una vasta zona che è, allo stesso tempo, retroterra bellico, teatro di reclutamento e terreno sperimentale d’un nuovo ordine. Incoraggiato dalla facilità del successo, si porta a Orenburg e pone lo assedio. I volontari giungono a migliaia nel suo esercito e, cosa ancor più preziosa, Pugaciov riceve armi anche pesanti dalle fonderie degli Urali. Durante l’assedio di Orenburg egli ha il tempo e i mezzi per riorganizzare il suo esercito secondo i dettami dell’arte bellica e tenta di rafforzare la sua causa iniziando una politica di proselitismo nelle località del SudEst. Invia ovunque i suoi famosi «manifesti» che promettono affrancamento e giustizia. Nomina il “Collegio di guerra dello Stato” che è l'organo politico-militare supremo in cui siede ed esercita li proprio potere assoluto.
Constatate le dimensioni della rivolta, Pietroburgo mosse cospicue unità militari sotto il comando del generale Kar, che furono duramente battute. Allora Caterina inviò un esercito quale la Russia aveva mobilitato solo in conflitti con altri paesi. Lo guidava il generale Bibikov che si trovò inizialmente molto a disagio in una guerra cosi anticonvenzionale, specie nei mesi invernali. Ma nel marzo 1774 riuscì a battere Pugaciov presso Tatishev e a liberare Orenburg dall’assedio.
L’esercito ribelle ripiega allora verso gli Urali ove ha le sue basi più forti; è la seconda fase della guerra. Consolidate queste posizioni grazie anche all’adesione della Bashkiria in mano all’alleato Salovat Julaev, viene ripresa la marcia verso occidente. In luglio Pugaciov assedia Kazan, sulla via di Mosca, ma senza riuscire a sconfiggere la guarnigione. Gli insorti dovettero cosi lasciare la zona e ripiegare lungo il Volga.
La terza fase della guerra prese appunto nome dal grande fiume e assunse ì caratteri di un’azione combinata fra le unità regolari di Pugaciov e le formazioni partigiane contadine. La minaccia riprese a proiettarsi verso il centro della Russia. Caddero molte città, fra cui Penza e Saratov. Tre i fattori del successo: l’alto grado di organizzazione dell’esercito ribelle, il largo appoggio della popolazione, la capacità di evitare il contatto con il grosso dell’armata zarista.
Quando questo terzo fattore venne meno, fu la catastrofe. Lo scontro si svolse sotto Tsaritsin (oggi Volgograd) e fu rovinoso per Pugaciov che si ritirò ancora al di là del Volga nella speranza di raggiungere per la terza volta gli Urali. Ma a questo punto intervenne il tradimento della parte più ricca dei cosacchi. Pugaciov fu catturato nella steppa e consegnato ai suoi nemici, il trionfo sulla “pugaciovshina” fu consumato il 10 gennaio 1775 a Mosca quando il condottiero fu giustiziato assieme ai suoi ultimi compagni.
Cosa era stata, al di là dei suoi caratteri militari, la quarta ed ultima guerra contadina? E in che cosa essa raccoglieva o superava il messaggio delle tre che l’avevano preceduta? Per guerre contadine s’intendono, in Russia, quelle rivolte di ampie dimensioni che si sviluppano fra il 1606 e il 1775 mentre dal seno del feudalesimo sorgono i fattori della sua negazione: un mercato nazionale che spezza i limiti delle economie locali a carattere naturale, la nascita d’un ceto mercantile e usuraio. Tipica è la durezza con cui la classe feudale si oppone all’emergere di questi fattori. In tutto questo periodo si assiste ad un irrigidimento dei diritto servile. Cosi nel 1649 viene eliminato l’ultimo temperamento della servitù della gleba e cioè la norma secondo cui i contadini-servi che - fossero fuggiti dalle terre del loro padrone diventavano liberi se non catturati entro cinque anni.
L’autocrazia dello zar si trasforma in assolutismo: Pietro I (1682-1725) non solo consolida ed espande l’impero ma opera una connessione fra gli interessi dei vari gruppi feudali dando luogo ad una unificazione socio-politica, cioè alla nobiltà come classe unica; sotto Caterina II (17621796) la nobiltà si rafforza con l’assegnazione ad essa di terre dello Stato, della Chiesa e anche dei contadini liberi. Il privilegio nobiliare viene accresciuto con la soppressione dell’unico vincolo che lo giustifichi giuridicamente: l’obbligo di servire lo Stato.
Nella seconda metà del XVIII secolo la condizione del contadino-servo (e similmente quella dell’operaio servo nelle manifatture, nelle miniere e nelle industrie belliche) era assai vicina a quella dello schiavo e ciò è comprovato dalla stessa incapacità di queste classi subalterne, abbrutite da una condizione subumana, di lasciare la ben che minima traccia di una testimonianza culturale attorno alla propria condizione. Solo nei tempi della quarta guerra contadina emersero alcuni poeti orali o cantastorie che diffusero “lamenti” sulla povertà e la schiavitù, sulla stoltezza dei funzionari e sulla furbizia dei servi nello sfuggire alle loro angherie. Spetterà ad un nobile illuminato, Aleksandr Radichev, consegnare alla storia un quadro abbastanza preciso dello spettacolo sociale ed umano della campagna russa con il famoso Viaggio da Pietroburgo a Mosca. Scarne ma fustiganti le sue conclusioni politiche contro la iniquità della condizione servile: «Da un lato, la quasi onnipotenza, dall’altro, l’impotenza più inerme. Di fronte al contadino il signore terriero è legislatore, giudice, esecutore del suo stesso giudizio e, ove lo desideri, un accusatore contro cui l’accusato non può dire niente».
Schiavo su tutta l'immensa area della Russia, il contadino lo era, per quanto possibile, ancor più nelle zone cerealicole comprese fra il Volga e l’Ural, laddove cioè si scatenò la «pugaciovshina». Qui, la «barshcina», cioè lo obbligo di lavorare senza compenso le terre del signore, si estendeva fino a sei giorni la settimana, per cui anche se il contadino aveva la formale disponibilità di un fazzoletto di terreno non sapeva come lavorarlo, tanto più quando le forze giovani della famiglia venivano sottratte dalla coscrizione militare che durava tutto il periodo della giovinezza e della maturità. Una forma particolarmente esosa di servitù colpiva i numerosi pescatori cosacchi dell'Ural che erano vessati dagli «atamani», i quali avevano l’appalto statale del sale che occorreva per il trattamento e la commercializzazione del pesce. Nelle miniere e nelle fabbriche belliche non esisteva salario e vigeva una « barshcina » simile a quella terriera.
Fu per questo che Pugaciov potè operare una saldatura che non era riuscita ai capi rivoltosi che l'avevano preceduto: mise insieme la rabbia e la forza di contadini, pescatori e operai. Dette loro un programma vago, centrato sull’abolizione delle vessazioni più odiose e sulla promessa della libera disponibilità di «terreni, boschi, porti, diritti di pesca e di estrazione del sale, senza riscatto e senza tributi feudali». La formula politica basilare dei suoi «manifesti» era la concessione ai servi di «essere da ora in avanti schiavi devoti della nostra Corona », cioè sudditi di una autocrazia a base contadina, unica forma statuale allora concepibile della ideologia subalterna dei servi della gleba.
Ma il capo ebbe anche la abilità di far proprie rivendicazioni molto particolari delle categorie professionali, dei gruppi etnici. Nell’insieme dunque offri una base ideale sufficientemente trascinante ai combattenti e alle popolazioni. Gli mancò invece un’abilità che non poteva avere: quella di capire che il servo poteva battersi per non essere più tale, ma non poteva costruire una società a propria somiglianza. Oggi diremmo che non seppe concepire una strategia delle alleanze nella quale, in ogni caso, l’egemonia non sarebbe spettata al contadino della gleba. La nascente borghesia non lo capì e forse lo temette. Ed egli fu solo dinanzi alla potenza ancora grande dell’assolutismo feudale. Fu già opera grande l’essere riuscito a scuotere quella potenza.

“l'Unità”, 7 settembre 1974

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