4.6.18

Roland Barthes. Lezione di crepuscolo

Roland Barthes


Giugno 1981
Barthes è morto da un anno e quando ebbi la notizia e mi si chiese di parlarne pensai che bisognasse lasciare le parole a quelli che le hanno già preparate. Mi aveva mandato i suoi saluti, poco tempo prima; ma non ci si vedeva da anni. Credo di aver sempre saputo, fin da quando lavoravamo insieme a «Ragionamenti» e ad «Arguments», che l’intelligenza sua aveva bisogno, per venire alla luce, di un’ombra costante. Quell’ombra non è nei suoi saggi più noti, di una milizia semiologica che gli specialisti hanno contestato, ma in quelli dove con loro deride se stesso e cerca il piacere, cioè il dolore, del testo. Quell’ombra, nei suoi ultimi tempi, era venuta avvolgendolo come nebbia o pallore di vecchie foto dell’infanzia e della madre di cui parla, nel suo postumo La camera chiara. C’era in quel Barthes un avvicinamento a Proust, il maestro che non aveva forse osato affrontare che in poche splendide pagine.
La lezione inaugurale della cattedra di Semiologia letteraria al Collège de France, pronunciata il 7 gennaio 1977 ci fa comprendere bene quale fosse stato il momento iniziale di quella proiezione d’ombra. Non era mai stato né voluto essere «solare». La chiarezza si batteva sempre, nelle sua prosa, con qualcosa di imperfetto e fuggente. Nella sua scrittura c’era, e voleva esserci, la scrittura appunto; quindi una pluralità e infinità, un «divisionismo». Quelle qui conclusive sono parole ormai ben note: «Mi accingo dunque a lasciarmi portare dalla forza di ogni vita vivente: l’oblio. Vi è un’età in cui si insegna ciò che si sa; questo si chiama cercare. Ora è forse l’età di un’altra esperienza: quella di disimparare». 
Franco Fortini
C’è in questa Lezione un passo autobiografico che mi ha turbato. Barthes ha appena detto che il linguaggio, anzi la lingua, contiene indivisi servilità e potere, che la letteratura è la sede delle utopie del linguaggio, che per ostinazioni e spostamenti lotta per la libertà e verità del desiderio; che la semiologia gli sembra sempre più il «lavoro che raccoglie l’impuro della lingua, lo scarto della linguistica, la corruzione immediata del messaggio». E a questo punto aggiunge: «per quel che mi concerne, la semiologia ha preso le mosse da un movimento propriamente passionale; mi era parso (intorno al 1954) che una scienza dei segni potesse attivare la critica sociale e che Sartre, Brecht e Saussure potessero trovarsi uniti in questo progetto...».
Così Barthes ha indicato proprio l’anno che precede il suo contatto con «Ragionamenti» e la prima comparsa in italiano di suoi scritti, che tradussi per 1’«Avanti!». E siccome nelle pagine che seguono si afferma (passando agli anni successivi al ’68) che il moto liberatorio si era trasformato in coro di «piccole signorie» e che quindi era stato necessario tornare al Testo, «che ha in sé la forza di eludere all’infinito la parola gregaria», bisognerà dire che qualcosa pur era avvenuto nel frattempo, quasi un quindicennio. Che cioè la «critica sociale» apparve anche troppo rapidamente a Barthes proprio «un miscuglio di malafede e di coscienza tranquilla» (e come tale mi rimproverò una lettera del 1961 dove gli chiedevo ragione del suo silenzio di fronte ai massacri di nordafricani che in quei giorni venivano uccisi a decine, forse a centinaia — come oggi sappiamo — a Parigi: le cosidette ratonnades). Ed egli la fuggì per altri ambienti e incontri, per altri libri, nel decennio di De Gaulle.
Così egli può, nella sua Lezione, rivendicare il diritto, anarchico, a spostarsi, ossia «trasferirsi dove non si è attesi o ancora più radicalmente abiurare da ciò che si è scritto...» allorché il potere gregario lo «strumentalizza e lo asservisce», citando Pasolini, cui l’abiura avrebbe consentito di scampare dalla «strumentalizzazione del potere». A me è sempre parso che su questo punto Pasolini si ingannasse e che forse proprio per questo impiegasse erroneamente il verbo abiurare in luogo del meno «religioso» disconoscere. La strumentalizzazione inerisce a qualsiasi discorso pubblico (e, in una minore misura, anche privato) e l’«abiura» non è che la recita di una libertà illusoria. Identificare, come Barthes fa (e con lui Pasolini), servitù della lingua e servitù delle sue forme e sedi di manifestazione (il film, l’articolo su quel giornale, il discorso in quella sala ecc.) è la tenacissima illusione di chi crede che l’uso letterario della lingua sia una sorta di guscio trasparente e rigido che consente di essere, nello stesso tempo, nel mondo ma non del mondo; quando semmai questo privilegio è dato, prima della scrittura, alla vita intellettuale e morale e al suo rischio.
«Noi abbiamo creduto che il potere fosse un oggetto eminentemente politico; oggi crediamo che esso sia anche un oggetto ideologico», dice Barthes; e «che sia discorso di potere ogni discorso che genera la colpa, e di conseguenza la colpevolezza, di chi lo riceve». Anche qui il parallelismo con Pasolini è impressionante, col rifiuto (nietzschiano) di ogni pentimento e l’illusione che un gesto di privata sovranità ci redima. Questa è la loro (di Barthes e Pasolini) definitiva irreligione: non voler delegare l’assoluzione a altri.
E, nelle ultime pagine, in questo Barthes che accetta di contemplare, con «perversità», le cose del mondo e la bellezza e di dimenticare per poter avere e dare sapientia, c'è il medesimo scoramento e la medesima stanchezza che, nelle pagine di La camera chiara, vira ad un violetto mortuario. Egli è già in cammino verso la morte della madre e sua.
Un pomeriggio di pochi mesi fa, in un autobus che percorreva il quai Malaquais, guardando i volti dei viaggiatori seduti, che illuminava il bagliore delle nuvole sospese e, da oltre il fiume, il platino del sole d’inverno riflesso dalle fiancate del Louvre, come avviene quando il prospetto della città ci rammenta che si va verso la latitudine di Londra e di Amsterdam, ebbi il senso che quella medesima scena era certo stata, con minimi mutamenti, prima della mia nascita, fra l’inizio del secolo e la Marna e che la letteratura e la pittura quell’ora già l’avevano interpretata. Tale senso, di essere rapito col proprio corpo in una dimensione della storia o, per meglio dire, del passato, è in questa Lezione barthiana. Sono i patres, e le madri, a chiamare. Come in Proust, appunto. Quando i fantasmi paterni sono solo nel passato e se nel futuro non scorgiamo fantasmi di figli o nipoti, possiamo conoscere che cosa questo significa, che cosa vogliono da noi «quelle voci incantevoli e funebri».
Barthes suonava il pianoforte. Sapeva cos'è uno «staccato» e quale potente senso di sospensione e promessa si crei nel silenzio che segue l’ultima nota. L’esecutore alza le mani dalla tastiera poi si volge e ci guarda.

In Insistenze, Garzanti 1985

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