Da un vecchio numero di
“micropolis” recupero un “pezzo” cui sono affezionato e di
cui sono in qualche modo orgoglioso: a 18 anni di distanza non
muterei nulla di quanto scrissi allora. Timpanaro mi pare un capitolo
importante nella storiadi quell'Italia antimoderata di cui con
passione scrisse Massimo Ganci cinquant'anni fa in un libro edito da
Palumbo.
Più di recente con
commozione - oltre che con leggerezza – ne ha scritto, centrando
il “fuoco” sulla capitale siciliana ma non senza qualche apertura
“continentale”, Piero Violante in Swinging Palermo,
edito da Sellerio nel 2015, ricordando Mario Mineo, Giuliana
Saladino, Beppe Fazio, Rosario La Duca e altri.
Il
caso di Timpanaro, come i casi perugini di Aldo Capitini, Walter
Binni, Maurizio Mori (e di certo se ne trovano altri in altre città
italiane), svela come siano state - nelle cento città del nostro
disgraziato Paese – più numerose di quanto non si creda le figure
novecentesche di questo stampo, di maestri emarginati e sconfitti
dall'opportunismo e dal conformismo, gli “esempi” di virtù
civile da riscoprire, studiare, indicare ai più giovani. (S.L.L.)
C’è un testo “segreto”
di Giacomo Leopardi, un pamphlet rimasto a lungo inedito e tuttora
poco conosciuto, un Discorso sopra lo stato presente dei costumi
degli Italiani scritto probabilmente nel 1824. Quando ci capita
di veder pontificare in Tv gli Sgarbi o i Montanelli o di leggere sui
quotidiani le “illuminazioni” di Galli Della Loggia,
desidereremmo che fosse a tutti noto. In quel libretto, infatti, i
vizi caratteristici degli intellettuali italiani, servilismo,
cinismo, invidia, abitudine alla finzione, gusto del pettegolezzo
documentano la mancanza di un vero legame sociale, perfino
all’interno della “società stretta” dei colti e dei borghesi.
Per Leopardi ne deriva, nei letterati, e spesso anche negli
illetterati, una generale disistima di sé, radice di tutti i
trasformismi, di tutte le conversioni fasulle, del silenzio che
circonda chi, per rigore intellettuale e disciplina morale, non si
piega all’andazzo.
Il filosofo di Recanati
pagò duramente gli atteggiamenti che coerentemente derivò da queste
convinzioni. I gruppi intellettuali egemoni nell’età della
Restaurazione e del Risorgimento, quei cattolici moderatamente
liberali e moderatamente romantici, che trovavano in Firenze il
centro di irradiazione, nutrivano per lui, così poco incline ai
compromessi personali e storici, una profonda avversione, non
disgiunta da un’untuosa compassione per il malato e da
un’ammirazione forzata per il saggio che li metteva in riga con la
sua erudizione. Il marchese Gino Capponi, che di quel milieu fu uno
dei capi riconosciuti, quando lesse le Operette Morali, gettò
alle ortiche l’aplomb aristocratico gridando: “Quel maledetto
gobbo ci ha rotto i coglioni”. Pertanto Leopardi, pur ammirato e
compatito, per sua propria scelta rimase fuori sia dalle istituzioni
culturali ufficiali della Restaurazione, alle cui regole non voleva
piegarsi, sia dal giro dei “liberali”, e dovette per anni
mantenersi con la redazione di antologie e crestomazie, con la
traduzione e l’edizione di classici greci e latini.
Così fatti pensieri ci
sono venuti in mente alla notizia della morte di Sebastiano
Timpanaro, un altro “antipatico” ostile alle mode culturali ed
alle pratiche degli intellettuali “piacioni”. Allievo di Giorgio
Pasquali, filologo di razza come Leopardi, a lungo rifiutò una
cattedra universitaria, preferendo guadagnarsi la vita con la
correzione delle bozze per la casa editrice Nuova Italia di Firenze.
Non voleva partecipare ai giochetti delle congreghe e delle cordate
che caratterizzano il mondo accademico. Solo molto tardi,
universalmente stimato come maestro tra i filologi classici, avrebbe
accettato nell’ateneo fiorentino una nomina a contratto: pochi
soldi, ma un discreto livello d’indipendenza.
Dal Pasquali aveva
imparato che “la filologia non è scienza esatta né scienza della
natura, ma disciplina essenzialmente, se non unicamente, storica” e
come lui aborriva dall’uso di linguisti e paleografi di fermarsi ai
confini della storia, sostenendo che le loro “scienze” non
potevano spingersi oltre. Come il suo maestro pensava che “nella
scienza esistono, in concreto, solo i problemi ed attribuirli all’una
o all’altra casella o farli a pezzi tra più caselle è cura spesso
vana”. Aspirava perciò ad una filologia “totale”, quella di
colui che, amando i libri, cerca di appropriarsi di tutta
l’intelligenza che nei libri è presente. L’idea della storicità
della filologia era peraltro corroborata in Timpanaro dal marxismo,
che gli mostrava come immerso nella storia sia non solo il testo, ma
anche e più ancora il filologo: l’oggetto della sua ricerca può
essere remoto, ma i problemi che egli si pone vengono dal tempo suo
proprio, con tutte le sue dinamiche sociali e culturali.
Essere filologo e
lessicologo significava dunque per Timpanaro non considerare la
parola l’oggetto ultimo della ricerca, ma rinvenire attraverso la
ricerca quanto la parola esprima e/o occulti. Dedicò perciò un
libro importante, teorico, al metodo probabilistico del padre della
moderna filologia scientifica (La genesi del metodo del Lachmann,
1974), ma nella pratica lo riattualizzò, mettendo tra i propri
maestri anche Marx e Freud. La critica della parola si faceva così
critica dell’“ideologia” e di ogni altra forma di “falsa
coscienza”.
La perizia filologica che
mostrava negli studi sui poeti latini (gli “arcaici” e Virgilio),
diventava, grazie a questi apporti, un efficace strumento d’indagine
su ogni sorta di prodotto culturale: gli dava l’abilità del
detective nel rintracciare gli indizi più impensati come il rigore
del giudice nel sottoporli senza pregiudizi al vaglio della critica.
Queste qualità Timpanaro esercitò con coraggio perfino nei
confronti dei suoi maestri: non solo Pasquali, ma anche Marx e Freud,
con i rispettivi epigoni. Non esitò, in un saggio del 1978, Il
lapsus freudiano, a rileggere criticamente la teoria
psicanalitica, rilevandone la propensione ideologica a ricondurre
ogni alterazione del linguaggio, ogni amnesia, al conflitto tra gli
obiettivi apparenti ed attuali di chi commette l’errore e gli
obiettivi repressi. In realtà - avvertiva Timpanaro - l’errore
casuale, il lapsus, deriva anche, forse più spesso, dal
fenomeno della “banalizzazione”, nel quale gli schemi più
familiari ed abituali tendono a sovrapporsi all’intenzione stessa
del parlante. Era una integrazione–correzione del freudismo,
antidogmatica, che gli proveniva dal mestiere del filologo, che,
confrontandosi con codici, lezioni, mende, scopre quanto
frequentemente l’errore del copista nasca dalla sostituzione
dell’inconsueto con l’abusato, ma essa esprimeva anche la
diffidenza verso ogni sopravvalutazione del ruolo del soggetto. La
banalizzazione, infatti, non riguarda soltanto le pratiche
linguistiche, ma anche l’esercizio della critica, storica,
letteraria, sociale, attività che per definizione dovrebbe sottrarsi
ai luoghi comuni: anche nella critica può infatti annidarsi un
adeguamento non del tutto consapevole a schemi convenzionali dettati
dall’esterno. L’unico antidoto consiste nell’applicare a se
stessi una rigorosa intransigenza, nella fatica di studiare, pensare
e valutare, esigenza non solo scientifica, ma anche morale e
politica.
Fu la matura fedeltà a
questo costume che portò Timpanaro ad uscire assai spesso dagli
schemi collaudati, non una birichina volontà di disobbedienza. Nella
lotta contro la banalità si trovò così a nuotare controcorrente.
Citiamo qui due casi, tra loro assai diversi e perciò
esemplificativi dello studioso e del politico.
Quando, nel 1981, uscì
l’incompiuto e fino ad allora inedito romanzo di Edmondo De Amicis,
Primo Maggio, i più furono condotti dall’immagine vulgata
dell’autore di Cuore ad interpretarlo come espressione di un
vago umanitarismo idealistico. Era una “banalizzazione”, effetto
dell’abitudine e della pigrizia. Per Timpanaro quella lettura, che
mostrava evidente la lezione di Marx nella rappresentazione artistica
dei rapporti di classe, fu l’occasione per un ribaltamento di
prospettive. Il saggio Il socialismo di Edmondo De Amicis
rivelava così nello scrittore piemontese non tanto l’autenticità
della “conversione” socialista, quanto un’acuta intuizione
delle dinamiche sociali, non solo in Primo Maggio, ma anche in
opere precedenti, soprattutto nei racconti e resoconti di viaggio.
Altre banalizzazioni gli accadde di smascherare nelle pratiche di
volta in volta propagandistiche, movimentistiche o opportunistiche
delle formazioni della sinistra postsessantottina. A quella
esperienza partecipò come militante del Pdup, ma aveva fin
dall’inizio avvertito la diffusa incapacità di produrre analisi,
il pendolarismo tra un soggettivismo volontaristico e la ripetizione
di schemi cristallizzati. Ne scrisse, senza animosità, ma con
rigore, su “Praxis”, la rivista fondata da Mario Mineo.
Questa peculiare
criticità lo aveva del resto contraddistinto fin da quando, negli
anni Sessanta, aveva avvertito nel marxismo ufficiale, e spesso anche
in quello critico, un buco nero, la rimozione della fisicità e della
materialità dell’esistenza umana, che, per quanto sussunte
dall’essere sociale, non cessano tuttavia di operare negli
individui e nei gruppi. Da qui la rivendicazione, nei saggi
pubblicati sui “Quaderni piacentini”, del “materialismo
volgare” contro un “materialismo storico” ridotto a idealistica
filosofia della storia, ad una sorta di provvidenzialismo ottimistico
o di progressismo generico, che di fatto obliava come l’oggetto
originario della teoria marxiana fosse, nel quadro di una critica
ateistica della mistificante dialettica hegeliana, il rapporto
pratico degli uomini con la realtà naturale.
Marx invero non aveva
dato pieno sviluppo a questo aspetto della ricerca, al confronto con
temi quali il corpo, la finitezza, la morte, elementi oggettivi
quanto i stessi rapporti di produzione nel definire i limiti di
azione dei soggetti umani. Timpanaro aveva bisogno di attingere ad
altre fonti. Per questa via s’incontrò con il pensiero
materialistico antico e moderno: Democrito, Lucrezio, D’Holbach,
Engels, Lenin e, sopra tutti, Leopardi. L’incontro fu tra i più
fecondi.
Dopo un saggio sulla
filologia leopardiana e la cura degli scritti filologici del poeta di
Recanati egli propose in diversi densi saggi una ricostruzione
organica del pensiero leopardiano, sfuggendo innanzitutto alle false
antinomie che contrapponevano estimatori e detrattori, alle
fuorvianti teoriche del limite e del nonostante.
Da Tommaseo a Croce si
era svalutata la filosofia “dolorosa, ma vera” di Leopardi,
riducendola a prodotto accessorio della deformità e della malattia,
a frutto indigesto di una “vita strozzata”. Alcuni tra i pochi
estimatori del pensiero del “maledetto gobbo” (cito tra tanti
Salvatorelli) avevano al contrario sostenuto che esso si era
affermato nonostante la malattia. Perfino Cesare Luporini, che per
primo aveva intrapreso una rivalutazione del pensiero leopardiano,
una sua rilettura in chiave marxista, aveva trovato un limite di
fondo nell’isolamento del Leopardi, a cui attribuiva la mancata
conoscenza ed utilizzazione della “dialettica”. Timpanaro
evidenziò per primo il nesso inscindibile tra filosofia e malattia
usata come “potente strumento gnoseologico” e denunciò come
fuorvianti le pretese salvifiche di una “dialettica” capace di
eliminare le contraddizioni esistenziali solo al livello del
linguaggio e non della realtà.
Leopardi aveva semmai un
altro torto: quello di aver messo in secondo piano le cause storiche
e sociali dell’infelicità umana, che pure non ignorava, in favore
delle radici materiali e naturali. Da questo punto di vista la sua
filosofia poteva trovare una feconda integrazione con quella del
pensatore di Treviri. Una più profonda consapevolezza materialistica
delle basi naturali della condizione sociale non poteva che dare
forza alla lotta per la liberazione dallo sfruttamento e dalla
alienazione capitalistica. Era per questo che, con un qualche vezzo
autoironico, Timpanaro si definiva “marxista-leopardista” e che
in tre saggi degli anni Settanta pubblicati dapprima su Belfagor e
poi in volume col titolo Moderati ed antileopardiani nella
sinistra italiana, coglieva le sintonie tra la strategia del
“compromesso storico” e la diffusa antipatia degli intellettuali
del PCI contro “un’intellettuale sradicato dal processo storico”.
Il rigore di quel
pamphlet lo rese allora ancora più antipatico e produsse un
ulteriore isolamento, confermato dal quasi totale silenzio che oggi
sembra accompagnare la sua scomparsa. Conveniamo con lui e con il suo
Leopardi sul fatto che nulla è immortale, neanche le grandi opere
del pensiero, e che, sul piano meramente edonistico-individuale, la
morte è un non-male, un oggetto di timore infondato. Ma la morte di
quanti consideriamo compagni e maestri, considerata al livello dei
rapporti affettivi tra le persone, per la lacerazione dell’“amante
compagnia” che essa produce, contribuisce ad aggravare la nostra
infelicità naturale e politica.
“micropolis”,
supplemento umbro de “il manifesto”, novembre 2000
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