23.6.18

Arte e vita. Cesare Garboli, il critico che seguì il suo talento (Alberto Asor Rosa)


Ho trovato, tra i ritagli, questo necrologio di Cesare Garboli - molto acuto. Alle opere che Alberto Asor Rosa opportunamente cita mi piace aggiungere il suo Molière, una magnifica traduzione di 5 commedie del drammaturgo francese con annessi saggi di lettura. Notevoli, in particolare quelli sul Tartufo, che nella lettura del critico diventa l'uomo politico nella sua fraudolenta vocazione di guaritore, e sul Malato immaginario, l'uomo nevrotico che del potere diventa complice. (S.L.L.)

Quando l' ho conosciuto, Cesare Garboli era Cesarino. Uno della cerchia giovanile di Sapegno; ma non uno qualunque: il più brillante e promettente. Pochi rammentano, credo, che lo scritto d'esordio di Garboli è un ponderoso e dottissimo intervento su Struttura e poesia nella critica dantesca contemporanea (“Società”, 1952), in cui discuteva con precoce autorevolezza le posizioni crociane sulla Commedia alla luce degli orientamenti storicistico-gramsciani allora in auge. Più sapegniano di così. E infatti Sapegno molto lo amava e, caso rarissimo, fece di tutto per tenerselo accanto.
Qui cade la prima, forse la più decisiva, delle scelte garboliane. A Cesare non gli andava, non gli andava proprio di fare il professore universitario. Anzi, non gli andava proprio di fare «il critico»: uno della corporazione, vincolato da regole e statuti precisi. Prigioniero di un amore furioso per la letteratura, soprattutto quella vivente (anche se non dimentico di quella antica), oppure ammalato di quel morbo irrimediabile, che consiste nel mettere al centro di ogni cosa la pratica del testo letterario e della poesia (nemmeno lui, scommetto, seppe mai bene se fu l'uno o fu l'altro), preferì andarsene libero, o il più possibile, libero, sulle strade della lettura e della conoscenza.
Tutti penseranno a questo punto al suo lunghissimo rapporto con “Paragone”, scuola di metodo e di gusto, e con Roberto Longhi e Anna Banti. Giustissimo. Io non ometterei di ricordare, in una fase precedente, che s' interpone fra gli anni universitari e la prima maturità, quello con Niccolò Gallo, più anziano di noi di diversi anni, critico finissimo, che riuscì a combinare la sua naturale sapienza di lettore con impegni apparentemente modesti, come le rassegne annuali della narrativa italiana, apparse a lungo su “Società” e lette e discusse fra noi con avidità.
Veniamo al dunque. Cesare Garboli non ha mai scritto quel che si dice «un libro». Ha scritto saggi, articoli, recensioni, ritratti, prefazioni (genere nel quale, come dirò, eccelse). Di tanto in tanto, abbastanza avaramente, li ha raccolti in volumi. I tre secondo me più importanti sono significativi fin dai titoli: La stanza separata (1969), Scritti servili (1989) e il recentissimo Pianura proibita (2002). Aguzza e penetrante come il suo profilo, la sua penna, quando è nel pieno dell'estro, entra nella realtà viva dei testi e la scava come pochi altri hanno saputo fare nei cinquant'anni che ci stanno alle spalle.
Garboli non è un lettore «analitico»: non scompone il testo in frammenti, non offre un'imponente documentazione citazionistica per arrivare alla sua verità. È un lettore fortemente «sintetico», che alla verità, alla sua verità ci arriva per forza di argomentazione. Un problema sta al centro della critica garboliana: il rapporto fra letteratura e vita. Una volta scoppiò una rispettosa ma di fatto furibonda polemica fra lui e Franco Fortini, che lo accusava, a proposito della pubblicazione da lui curata dell'inedito Journal di Matilde, figlia di Alessandro Manzoni, morta giovanissima di tisi, di aver letto una «tranche de vie», come un «romanzo». Aveva ragione Garboli a protestare. Ma nella sua protesta troviamo, a guardar bene, una chiave rivelatrice, che porta lontano nell'osservazione del suo metodo e dei suoi interessi più profondi. Garboli scrive che la realtà del mondo sensibile e la realtà dell'arte «non si trovano mai disunite: i loro sguardi non si staccano mai, sono sempre incantati, appiccicati l'uno all'altro da una fascinazione reciproca che non ha mai fine» (Pianura proibita, pag. 184). Ecco, io penso che Garboli sia stato lungo tutto il corso della sua vita «fascinato» da questa linea di giunzione fra la letteratura e la vita, che non si risolve mai nel predominio dell'una sull'altra ma se mai continua a rimandarsi l'una con l'altra, suscitando echi infiniti. Questo spiega, mi sembra, perché la forma tipica del saggio garboliano sia il ritratto, e, ancor più, quella forma precipua del ritratto, che è la prefazione; e perché in lui agisca spesso potentemente, accanto alle suggestioni critiche indotte dal testo, la conoscenza diretta dell'autore Longhi, Penna, Delfini, Soldati, La Capria; e, fra le donne, i ritratti bellissimi (che meriterebbero un discorso a parte), di Banti, Ginzburg, Morante. Le due conoscenze, invece di restare separate, si fondono.
La «servilità» garboliana è questo mettersi al servizio della conoscenza di un testo visto da tutte e due le parti, non da una sola. Certe volte questo narcisistico impulso a smontare la macchina del testo, pur di arrivare a una verità collocata al di là, in un altrove difficilmente localizzabile (non più letteratura, ma neanche vita, forse destino), arrivava fino al punto di fargli mettere in discussione il canone stesso imposto dall'Autore, anche dal MegaAutore. È il caso dell'edizione nei Meridiani delle Poesie e prose scelte di Giovanni Pascoli, segmentate e ricomposte secondo partizioni e un disegno, che non sono più quelli del poeta, ma quelli dell'interprete. Si leggono egualmente con gusto grandissimo, a patto di non cercarci la storia della poesia e dell'identità pascoliana ma quella di ciò che Garboli pensa della poesia e dell'identità pascoliana.
Negli ultimi anni Cesare Garboli era tormentato da una sua personale ricerca d'identità. Ho riletto con commozione lo scritto Pianura proibita, che dà il titolo alla raccolta omonima e la chiude. Scritto e letto in pubblico alla fine del 2001, può forse considerarsi, ahimè, il suo testamento. Garboli vi ragiona, anche tornando esplicitamente alle scelte dei suoi anni giovanili, della propria difficoltà a riconoscersi in un ruolo. Non critico; e non scrittore. E non scrittore, perché, pur dotato di una fervidissima immaginazione, non pensò mai, non fu mai spinto a farne il trampolino per un lavoro creativo fatto di parole (verso il quale anzi provò sempre «un oscuro sentimento di repulsione»). Il suo destino, dice, ebbe una svolta quando gli capitò di metter le mani sui fondi archivistici dimenticati di uno scrittore chiamato Antonio Delfini. La sua immaginazione cominciò allora a lavorare furiosamente al compito di «dare compimento a un destino rimasto incompiuto». La stessa cosa gli capitò con Matilde Manzoni. E, più o meno, con Giovanni Pascoli. Creazione dalla creazione: potrebbe esser questa la formula per imprigionare l'irrequieto e inclassificabile scrittore, arrivato alla fine a riconoscersi nell' altro da sé più di quanto non avesse mai voluto ammettere prima. La quiete dopo l'inquietudine? Forse, le ultime parole di Pianura proibita, rilette oggi, mandano questo suono: «Gli arabi chiamano pianura proibita quei territori dove lo stile pianeggiante della semplicità nasce dopo un lungo sforzo, e testimonia di laboriose e difficili prove. Non mi dispiacerebbe finire i miei giorni camminando da solo per una di quelle pianure ignote, dove passano poche anime vive».

“la Repubblica”, 13 aprile 2004

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