Nel numero 25 del marzo
1970 i “Quaderni di Rassegna sindacale”, periodico della Cgil,
pubblicarono una antologia di brani narrativi e teatrali di autori
italiani e stranieri sul tema dello sciopero. La scelta dei testi fu
curata Bianca Saletti, mentre Alberto Asor Rosa, all'epoca militante
del Psiup oltre che docente universitario, curò l'interessante
introduzione che è qui postata. (S.L.L.)
Diciamo subito quello che
non ci si può aspettare da un’antologia della letteratura mondiale
sul tema dello sciopero: non ci si può aspettare che ne emerga un
quadro organico, coerente e storicamente fedele delle lotte dei
lavoratori dalla metà del secolo scorso fino ad oggi. E questo non
solo per la difficoltà oggettiva di legare insieme secondo una
qualunque linea scrittori di nazionalità diversissima, che
affrontano situazioni molto differenziate fra loro e spesso non sono
neanche coevi agli eventi narrati, sì che in una sola opera
s’intrecciano su di una serie di piani storicamente sfalsati i
problemi generati da un determinato contenuto con quelli propri di un
determinato punto di vista. (E’ appena il caso di ricordare che
alcuni anni or sono, nella valutazione critica di un famoso sciopero
della narrativa italiana, quello dei muratori del Metello di
Pratolini, sono confluite e si sono scontrate sia le opinioni di
coloro i quali ritenevano la ricostruzione di quell’episodio
storicamente inattendibile ma artisticamente valida, sia le opinioni
di coloro i quali, disinteressandosi della maggiore o minore validità
storica del racconto, lo ritenevano però una pratica manifestazione
di un moderatismo politico di sinistra quanto mai attuale).
Difficoltà di questo genere senza dubbio esistono, ma sono comuni a
qualunque iniziativa antologica, e se qualcosa mettono in dubbio è
caso mai la legittimità di promuovere qualsivoglia tipo di
antologia. Nel caso nostro il problema è più di fondo, e riguarda
la natura stessa del mezzo attraverso cui, nel campo da noi
prescelto, lo sciopero viene descritto e comunicato. Questo mezzo è
la letteratura, e la letteratura ha, com’è noto, sue proprie leggi
alle quali spesso la cosiddetta «fedeltà verso il reale» deve
inchinarsi. Questa posizione, che ha una sua validità generale,
trova in questi testi una conferma tanto più clamorosa quanto più
il tema in essi affrontato sembrerebbe richiedere un umile
atteggiamento documentario, una volontà di testimonianza
semplicemente rispettosa dell’accaduto. Qui si vede bene come il
materiale dell’inchiesta, della cronaca e della relazione storica
sia per lo scrittore il pretesto per mettere in atto la costruzione
complessa della sua fantasia, in cui problematica estetica, punto di
vista di classe, ideologia e posizione politica s’intrecciano
profondamente fino a dar luogo, anche intorno al problema dello
sciopero, ad una proposta umana, che vuole 'andare ben al di là
della difesa e dell’esaltazione delle lotte dei lavoratori. Anzi,
nella misura in cui lo sciopero rappresenta sempre un fatto
traumatico di grande rilievo, esso si colloca nell’opera di questi
scrittori con un valore particolare di sollecitazione emotiva e
ideale, come un momento di singolare accentuazione delle forze umane,
da esaltare, riscattare e promuovere: ma restando appunto un elemento
simbolico fortemente significativo all’interno della propria
visione di letterati, d’intellettuali, di uomini di cultura.
Poiché, dunque, non è possibile né utile leggere questa antologia
come una raccolta di documenti storici sullo sciopero, noi proponiamo
di leggerla come una raccolta di documenti che esprimono il punto di
vista sullo sciopero di una serie di gruppi intellettuali
storicamente determinati, i quali, per essersi serviti del linguaggio
letterario, spesso cifrato, ma in compenso totale, immediato, hanno
portato alla luce con cristallina chiarezza il sostrato profondo
della coscienza della classe dominante con tutte le sue interne
contraddizioni, nelle varie fasi in cui esse si sono manifestate
durante l’arco di tempo coperto dai brani qui prescelti. In questa
chiave una lettura di questa antologia può anche essere stimolante,
anche perché non sarebbe difficile fare di ognuno degli scrittori
qui rappresentati il capofila d’un gruppo che ha poi i suoi
addentellati, al di là delle specializzazioni intellettuali, in
campo sociale, ideologico e direttamente politico. Il modo di
rappresentare (cioè d’intendere, — cioè, in ultima analisi, di
volere o di rifiutare) lo sciopero è la cartina di tornasole
dell’intellettuale borghese messo di fronte all’insorgenza
massiccia della classe, se non avversa, certo diversa da lui che la
vede e la descrive. L’attendibilità di questa descrizione è quasi
sempre dubbia. Mentre ha un senso preciso, e quindi storico,
l’atteggiamento che guida questa descrizione, il proporsi,
attraverso di essa, la diffusione di un messaggio ideale rivolto agli
uomini, — a tutti gli uomini.
Fra gli scrittori qui
rappresentati ce ne sono di moderati e di progressisti, di
democratici e di comunisti. Ce ne sono, anche, di francamente
reazionari. E ciò non può stupirci, anzi suona conferma a quanto
abbiamo scritto finora. Bacchelli, ad esempio, è fra questi.
Prendete una folla di braccianti in lotta: descrivetene la miseria e
la sofferenza con accenti toccanti; dimostrate che persino l’autorità
(il prete, il commissario di polizia, se non proprio il padrone dei
fondi) rimane in qualche modo presa da quello spettacolo di
giustificata ribellione; condite la scena con tutti i particolari
dell’ignoranza, della superstizione, con tutte le manifestazioni
della storica incapacità di autoguidarsi, che quei derelitti
mostrano; inserite tutto questo in un vasto affresco storico, in cui
il protagonista principale è un fiume, che con le sue piene
colleriche e ricorrenti sembra suggerire l’idea che uomo e fiume,
genere umano e natura abbiano in fondo lo stesso destino fatale e
irrimediabile; date alla storia delle masse il compito di colorire
sullo sfondo la storia ben altrimenti fondamentale delle famiglie e
degli individui; ed avrete infine che anche uno sciopero, anche una
lotta di massa, anche quando vengono rappresentati con scrupolo, e
verisimiglianza, e apparente rispetto della verità, possono esser
fatti passare per dei piccoli segmenti di vita nel grande flusso
della storia, dentro il quale tutto si unifica, si pareggia, si
pacifica. In altri l’atteggiamento reazionario è più camuffato,
ma altrettanto profondo, e forse più ambiguo: sono quelli i quali,
pur schierandosi toto corde dalla parte degli scioperanti,
insinuano sottilmente il dubbio che il frutto della lotta non valga
mai le pene e il dolore che valsero il combatterla. In casi come
questi è facile passare dalle caute perplessità iniziali alla
recriminazione contro gli scioperanti più accaniti fino alla livida
accusa contro i marxisti fomentatori professionali del disordine. Lo
sciopero diventa in questa visione il momento culminante di una
rivolta, che non è senza giustificazioni, ma si mette nel torto per
aver dovuto necessariamente infrangere tutte le leggi umane e divine.
Da questa parte sta senza equivoci il gallese Llewelleyn; e ci sta
anche, sebbene ancora coperto del suo americano radicalismo, lo
Steinbeck, che non sa fondare la sua simpatia verso gli scioperanti
su di una ragionata, sicura adesione politica e morale. (Non si
dimentichi che nell’edizione originale il titolo del suo romanzo La
battaglia, del
1936, era In dubious battle). Altri, infine,
vedono lo sciopero sotto forma di prolungamento di un’esperienza di
vita volutamente intensa ed esasperata: pochi, credo, vorranno
dubitare che l’attenzione dedicata da un Andrè Malraux alle lotte
dei lavoratori di Canton (I conquistatori) abbia altra origine
che un estetico amore per la forza e la violenza, le cui conclusioni
sono del tutto indipendenti dalle ragioni autenticamente operaie
della lotta di classe.
Più interessanti sono
però per noi, ovviamente, quegli scrittori i quali partecipano da
cima a fondo (o almeno così sembrerebbe) alle lotte dei lavoratori e
ne condividono, almeno, lo spirito informatore e le richieste
materiali. Anche qui, evidentemente, classificazioni troppo nette
sono impossibili, a causa dell’estrema varietà dei punti di vista
rappresentati: dal socialistico «culto dei sentimenti» gorkijano,
alla schietta sensibilità proletaria di un O’ Casey, al marxismo
di un Brecht, all’umanitarismo melodrammatico di un Pratolini.
Questa tipologia, del resto, non offre difficoltà per nessuno: il
lettore di queste pagine potrà ricostruirsela senza dubbio anche da
solo. Ci sembra più utile da parte nostra segnalare invece quelli
che appaiono i tratti comuni, gli elementi ricorrenti nella varietà
del quadro. Isolando, al di sotto magari dei caratteri ideologici più
appariscenti, la sostanza del discorso letterario sullo sciopero, ne
viene fuori un’immagine abbastanza omogenea di tale problema: quasi
che gli scrittori avessero ancorato il loro atteggiamento verso la
classe operaia al rispetto di talune categorie intellettuali in gran
parte statiche e rigide. S’intende che la rappresentazione di uno
sciopero non può essere letterariamente disgiunta da una certa
visione della classe operaia o dei lavoratori che sono protagonisti
di quello sciopero: tale la considerazione con cui lo scrittore
guarda alla classe operaia, tale il modo con cui verrà tagliato,
seguito, apprezzato, criticato lo sciopero, che essa, così formata,
si rivelerà in grado di eseguire. Guardando ai brani che abbiamo qui
raccolto, vediamo che essi nella grande maggioranza, da Hauptmann a
Odets (per quelli successivi sarà necessario un discorso
parzialmente diverso), esprimono due modi distinti di affrontare la
rappresentazione della classe operaia: da una parte, infatti,
troviamo quelli per i quali gli operai si presentano sotto forma
essenzialmente di «poveri», come i miserabili e gli affamati di una
spietata società pre-keynesiana, come il prodotto della ricerca
senza scrupoli e senza posa del profitto capitalistico, che non di
rado sconfina nella speculazione, nella violenza, nella fisica
sopraffazione; dall’altra, troviamo quelli per i quali gli operai
si presentano sotto forma essenzialmente di «umiliati e offesi »,
come la parte migliore e più fresca dell’umanità, che il genio
malefico del capitale e della dittatura borghese conculca ed opprime,
senza riuscire a soffocarne peraltro la genuina aspirazione di
giustizia. Senza voler stabilire nette suddivisioni, dal momento che
le due specie oltre tutto s’incrociano spesso nello stesso
scrittore, pensiamo che tra i primi vadano collocate personalità
come Hauptmann, Zola, Mann, Tokunaga, Seghers, Steinbeck; tra i
secondi, Gorki, Martin du Gard, O' Casey, Pratolini. Lo sciopero è
per gli affamati l’esplosione di una intollerabile condizione di
vita, il momento in cui il livello dell’esistenza è giunto cosi in
basso che la lotta appare come l’ultima disperata risorsa per
strapparsi ad una sorte peggiore della morte: la dimensione storica
entro la quale si colloca questa porzione della scelta, al di là dei
confini puramente cronologici, è ancora quella del plusvalore
assoluto, che esprime violenza e richiede in risposta violenza. Per
questo, nel gruppo di autori citati, lo sciopero coincide così
frequentemente con il tentativo di soppressione violenta dei padroni
e dei loro servi, con lo scontro armato, persino con manifestazioni
di vera e propria bestialità da parte dei lavoratori esasperati
(Zola), dietro le quali s’intravvedono ancora lontani bagliori di
luddismo (Hauptmann). Per gli «umiliati e offesi» lo sciopero è
invece un salto di qualità della coscienza, il momento in cui la
conquista di uno strumento efficace di lotta segna il passaggio dei
lavoratori alla «politica», e quindi all’innalzamento e alla
salvazione (sia pure soltanto morale, per ora): e questo non solo
quando, come nel caso di Gorki e di Martin du Gard, esso è collegato
a grandi questioni politiche come la lotta per i diritti politici
nella Russia zarista o la battaglia internazionalistica contro la
guerra nella Francia del 14, ma anche quando, come nel caso di
Pratolini, lo sciopero sindacale accompagna e favorisce la
maturazione umana e sentimentale del protagonista Metello, o, come
nel caso di O’ Casey, il giovane Ayamonn fonda sulla lolla
salariale la sua profonda esigenza di un destino umano migliore (di
lui morto dirà la sua innamorata: « Forse egli vedeva lo scellino
nella forma di un mondo nuovo... »). Poveri e miserabili, umiliati
ed offesi, hanno però questo di comune, che in ogni caso essi sono i
rappresentanti di una classe vista come subalterna, con sentimenti
che vanno da un sospetto di raccapriccio in Zola a una convinta
solidarietà in Gorki o in Pratolini, ma che sempre lasciano
sospettare un distacco, e quindi un’incapacità di penetrare nel
profondo della cosa. Conseguenza di questo atteggiamento è che
dietro questa classe operaia non c'è mai la fabbrica, la
dimensione produttiva, dentro la quale la classe cresce in quanto
classe ed assume la sua fisionomia autonoma ed opera la sua
maturazione alla lotta: c’è, nel migliore dei casi, lo squarcio di
colore di qualche scena m miniera o sulle impalcature di un cantiere
edilizio (anche la classe operaia ha le sue appendici più
pittoresche e quindi più ghiottamente adocchiate dai letterali).
Poiché manca la fabbrica, cioè il punto di origine e di definizione
della classe in quanto classe, cosa diventa lo sciopero? Diventa la
vita stessa della classe operaia, — l'unica vita possibile,
del resto, per una classe che viene dall’ignoto ed esprime
soprattutto la propria sconfinata miseria ( sia essa materiale o
spirituale). Attraverso lo squarcio aperto violentemente nel tessuto
sociale borghese, si mostra di cosa essa sia capace, quale forza
oscura essa celi. Ma appunto perché in questa lotta non c’è un
prima, non potrà esserci un poi: brilla per un istante di luce
eroica la ribellione, ma un rapido tramonto tinge presto di sanguigno
la rivolta degli schiavi. Sarà un caso, ma possibile che di ventidue
opere stimate degne di entrare in questa raccolta almeno una
quindicina raccontino la storia di scioperi falliti, ed altre, che
narrano la storia di scioperi riusciti, come La madre di Gorki
o il Metello, si concludano egualmente con la prigione o la
morte, che si abbattono sui personaggi, quasi a risarcire
sacrificalmente il felice andamento di quelle imprese? Non è un
caso, ma la necessità dell’intellettuale scrittore di
rappresentare a se stesso lo sciopero sotto forma di moderna epopea,
perché la vita squallida e miserevole di questa classe destituita di
ogni qualità assuma ai suoi occhi un interesse profondo anche se
transitorio. Potremmo concludere che, letteralmente parlando, lo
sciopero è l'unico modo d’essere degli operai capace di
presentarsi con caratteri estetici definiti, cioè rappresentabili.
Fuori di esso la classe operaia non ha per così dire autonoma
fisionomia: o ripiomba nel vuoto da cui era uscita per l’incantesimo
estetico, oppure si frammentizza in una miriade d’individui dai
caratteri etici, erotici, spirituali, del tutto analoghi a quelli di
una piccola borghesia affamata e stracciona.
Questo tipo di analisi
trova corrispondenze anche sul piano dei riferimenti storici. Abbiamo
infatti parlato finora di scrittori e di opere che vanno grosso modo
dall’800 alla seconda guerra mondiale. Dentro questo lungo lasso di
tempo, gli atteggiamenti di classe dominanti, che gli scrittori
sembrano aver individuato, sono tre. C'è innanzi tutto una fase
delle origini, dove il movimento operaio si presenta con forti tratti
proletari, con una prima selvaggia coscienza di sé, che pero assai
faticosamente si sbozzola nella pratica dalle tentazioni anarchiche e
luddistiche: anche dal punto di vista della composizione di classe,
emergono le categorie più vicine per così dire alla comune origine
contadina della classe, tessitori (Hauptmann), minatori (Zola),
braccianti (Bacchelli), muratori (Pratolini). C’è poi una fase
intermedia, che chiamerei «internazionalista», caratterizzata da
una forte accentuazione dei motivi propagandistici, politici,
ideologici, durante la quale è persino indifferente sapere se gli
scioperanti sono metalmeccanici o edili, perché più importante è
lo scopo comune per cui lottano ( Gorki, Martin du Gard; ma anche H.
Mann, in cui facilmente si scopre che il motivo concreto, salariale
dello sciopero interessa lo scrittore assai meno dell’ampio scopo
umanitario, per il quale il protagonista, un intellettuale, si
batte). C’è poi una terza fase, all’incirca tra il 1919 e il
1940, che vede la classe operaia schiacciata fra le disastrose
conseguenze della prima guerra mondiale, il drammatico sconvolgimento
della crisi economica e l’incipiente affermarsi del fascismo e del
nazismo (numerosi altri autori, come D.H. Lawrence, Cronin, Carlo
Bernari, ecc., affrontavano anch’essi questa tematica). In tutti e
tre questi momenti, e sia pure per motivazioni storicamente diverse,
la classe operaia mette in luce la sua parte più debole, la sua
elementare necessità di difesa, il suo primitivo bisogno di
sopravvivenza. Da qui, dunque, la radice storica della tematica dei «
poveri », degli « umiliati e offesi », che però in tanto è
storica in quanto gli scrittori soltanto questi motivi hanno voluto
(o saputo) individuare ed evidenziare.
Che la classe operaia
debba essere una classe sconfitta, per poter diventare una categoria
poetica, lo dimostrano anche gli autori dell’ultima fase, quella
successiva alla seconda guerra mondiale: si tratta degli italiani
Ottieri, Italo Calvino (I giovani del Po), Valerio Bertini (Il
bardotto), che fermano la loro attenzione sul dramma della
«ricostruzione», caratterizzata dai ridimensionamenti aziendali e
produttivi, che buttano sul lastrico migliaia di operai, mentre le
speranze della Resistenza muoiono sullo sfondo; oppure degli
statunitensi Swados e Selby, che collocano la descrizione delle lotte
operaie in una cornice di storie umane amarissime e disperate, che
fanno intuire una condizione di generale avvilimento e frustrazione.
Tuttavia, qualche elemento di novità è possibile ravvisare in
questi ultimi scrittori. Il più importante fra essi è la comparsa
in scena del grande complesso produttivo, la fabbrica moderna, e il
tentativo sia pure embrionale di vedere la classe agire all’interno
delle condizioni lavorative nelle quali essa si genera. Riportare la
classe nel suo ambiente di lavoro significa cambiare l’ottica
stessa della rappresentazione dello sciopero: non più come mera
esplosione di forza rivolta prevalentemente verso l’esterno, bensì
come esperienza di accrescimento e di conoscenza, che in un certo
senso si giustifica soprattutto perché tende a modificare al suo
interno la classe stessa. Residui letterari fastidiosissimi si
accumulano beninteso anche in questa direzione: basti pensare alla
pronunciata tendenza di uno scrittore peraltro onesto come Ottieri a
vedere lo sciopero sotto l’angolo visuale del caso umano, del caso
di coscienza individuale, che prolunga e vanifica l’esperienza
collettiva della lotta in una sorta di rinnovata «educazione dei
sentimenti» gorkijana. Qualche baleno aspro di una ormai matura
autonomia di classe è dato però coglierlo, qua e là, forse
raccolto inconsapevolmente, forse contraddetto dalla più generale
dimensione ideologica del racconto, nelle opere di questi scrittori:
ed è in Swados la terribile risata degli operai alla linea di fronte
alle disavventure del loro caporeparto; è in Davi l’improvviso,
choccante isolamento del capofficina, che vede per la prima volta
crollare la sua autorità, mentre gli operai, rinchiudendosi a
riccio, riescono a far confluire in un’unica massa di resistenza i
motivi personali della loro animosità verso la fabbrica, verso il
padrone e magari verso la vita; è in Selby l’accesso rabbioso di
violenza degli operai picchettanti la fabbrica contro camionisti
crumiri e polizia, in cui si scarica non soltanto la tensione nervosa
accumulata in mesi di sciopero ma anche la confusa volontà
d’individuare, al di là dei consigli d’amministrazione lontani e
sfuggenti, un preciso nemico da colpire e da distruggere. In
scrittori come questi il discorso ideologico generale tende senza
dubbio a vanificarsi, manca la complessa inquadratura, che sosteneva
la posizione di personalità come Gorki e come Martin du Gard nel
loro rapporto con la classe. Non diremo però che l’assenza di
questi elementi ci dispiaccia molto. Non abbiamo infatti la
convinzione che attraverso questi squarci di subitanea intuizione,
che non a caso abbiamo definito baleni, sia destinata a ricostruirsi
un’organica visione letteraria, a cui affidare il compito di
rappresentare le lotte degli operai finalmente in una situazione di
capitalismo maturo. Si tratta invece, come abbiamo detto,
d’illuminazioni sparse, dovute probabilmente alla presenza di un
clima sociale nuovo e ad un più accentuato scrupolo di onestà
documentaria. Gli strumenti letterari in definitiva non mutano (si
pensi a un Davi, con il suo gusto per un’azione melodrammatica e
mossa), oppure, quando mutano, mutano per ragioni che non hanno
niente a che fare con la scelta dello sciopero come argomento della
rappresentazione (Selby, Volponi). Con queste avvertenze presentiamo
l’ultimo gruppo di brani, senza dunque minimamente pretendere che
essi nel loro insieme esprimano una tendenza letteraria nuova, solo
per il fatto che rappresentano con maggiore aderenza e verità
scioperi dell’età a noi contemporanea.
Dal quadro finora
tracciato restano fuori i tre scrittori, ai quali dobbiamo le pagine
più belle presenti in questa antologia (dalla quale Alan Sillitoe,
Sabato sera, domenica mattina, manca soltanto perché il libro
non descrive un vero e proprio sciopero). Sono Ehrenburg, Dos Passos,
Brecht. Noi li sentiamo diversi dagli altri non tanto perché ci
forniscano materiali molto originali intorno all’argomento e alla
tipologia dello sciopero, quanto perché il taglio del loro discorso
non è riassumibile in nessuno degli schemi finora descritti. Per
l’Ehrenburg avanguardista del primo dopoguerra lo sciopero è la
semplice occasione per mettere in piedi un apologo al vetriolo sulla
forza irresistibile del denaro, il quale, nella sua forma
privilegiata e suprema di «dollaro», esprime al massimo grado il
nuovo comandamento biblico del sistema capitalistico: «Date a Dio
quel che è di Dio e al padrone quel che è del padrone». Dos Passos
aderisce intimamente, prima degli sproloqui umanitari di un Caldwell,
di uno Steinbeck, di un Odets, di un Howard Fast (Sciopero a
Clarkton), alla sostanza proletaria della civiltà americana e,
pur senza scansare del tutto i pericoli di una retorica foriera di
simpatie reazionarie, riesce a creare la piccola epica dell’operaio
ignorante e sventurato, sulle cui spalle si regge il grande sistema
del capitale. Brecht anche in Santa Giovanna dei Macelli
rivela in che cosa egli è vicino e in che cosa diametralmente
opposto agli altri scrittori suoi compagni di strada. E’ vicino ad
essi (e forse non poteva essere diversamente) nella individuazione
delle situazioni e dei rapporti fondamentali di forza: anche i suoi
operai sono proletari schiacciati dal peso del dominio capitalistico,
colti nella situazione produttiva in un certo senso meno determinante
(le fabbriche di carne in scatola di Chicago), quando per giunta sono
già fuori delle loro aziende, buttati per le stradead aumentare la
schiera dei miserabili e degli affamati, in un momento di crisi dello
sviluppo provocato dalle mire di un capitalismo avventuristico e
speculatore e destinati quindi inevitabilmente alla sconfitta. Ma
profondamente diverso ed anzi opposto egli è nel suo sforzo di
ricostruzione delle leggi di comportamento della classe operaia,
nella precisa indicazione dell’organizzazione come unico strumento
possibile non solo di difesa ma anche d’attacco, nel senso
primitivo se si vuole, ma efficacissimo, di netta impronta
proletaria, del distacco incolmabile tra la classe operaia e gli
altri ceti, ivi compresi gli intellettuali: mossi dalle smanie
dell’elevazione morale e del messaggio umano. Come talvolta accade
alle personalità veramente geniali, Brecht svolge di conseguenza un
discorso che, pur partendo da materiali sorpassati, riesce ad esser
valido soprattutto per il futuro e a scoprire in quali direzioni si
sarebbe mossa la realtà nei decenni successivi. Lo sciopero per lui
ha già infatti una doppia faccia, che sarebbe diventata evidente
soprattutto ai nostri giorni: da una parte è violenza sociale contro
la parte avversa, sconvolgimento dell’intero assetto voluto e
tenuto in piedi dal capitalismo; ma dall’altra è insegnamento,
esperienza, accrescimento organizzativo, perfetto uso marxista della
sconfitta come della vittoria per rendere le armi di classe sempre
più poderose e invincibili. O, come dice molto meglio Brecht con
parole dal sapore attualissimo: «Questo è il consiglio: combattete.
/ Questa battaglia sarà perduta / e forse anche la prossima
battaglia / sarà perduta. Ma voi imparerete a combattere / e
sperimenterete / che si riesce soltanto / con la violenza, e se /
siete voi stessi ad agire».
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