5.6.18

Mario Del Monaco. Il tenore che fu Otello per sempre (Enrico Regazzoni


Pesaro 
Il patio di una bella villa un po' arretrata rispetto al mare, un piccolo gruppo di amici, le colline marchigiane che degradano con la consueta dolcezza. L'idillio? Non proprio. Se il padrone di casa risponde al nome di Giancarlo Del Monaco - figlio del grande tenore e sovrintendente all'opera di Bonn - e soprattutto se quei cinque amici sono tutti pezzi grossi del locale Club Mario Del Monaco, bè, allora basta formulare una domandina del tipo: "Ma Del Monaco non era un po' debole negli sfumati?" perché tutto vada in tempesta: colline, animi, vigneti. 
Si scherza, ovviamente, poiché la lirica si nutre anche d'iperboli. E in ogni caso è giusto essere qui, tra i fan della curva sud, a ricordare la voce squillante del nostro dopoguerra, l'eroe, il forzato del timbro e dello smalto: Del Monaco, il tenore potente e prepotente che sfidò il mondo intero col talento. Fra pochi giorni, il 16 di ottobre, saranno giusti dieci anni dalla morte. E in quella circostanza, mi spiega Antonino Giubilaro, presidente del Club, tutto si muoverà in città. Il Comune di Pesaro, che a Mario Del Monaco ha già dedicato una via e un'aula del conservatorio, metterà a disposizione il Teatro Rossini per un concerto di Katia Ricciarelli, sua ultima Desdemona nel 1972. Poi, sulla sua tomba, verrà scoperto il monumento funebre di Arnaldo Pomodoro (in realtà l'autore del monumento fu Giò Pomodoro - n.d.r.). E tutt'intorno ci sarà un mare di folla, mi assicurano: se è vero, com'è vero, che quando nel 1984 la sua salma fu trasportata qui da Treviso, la città intera scese in piazza, per mettersi in corteo fin dal casello autostradale. 

La sua fama è alle stelle
"La sua fama è ancora alle stelle", mi assicura Emma Raggi Valentini, che da quarant'anni insegna canto al conservatorio cittadino e che da ragazza lo ebbe come compagno di studi. "Se lei domanda all' uomo della strada chi siano Raimondi o Corelli, non lo sa. Ma se lei domanda chi è Del Monaco, lo sa. Questo significa che Del Monaco è ormai celebre come Gigli o Caruso". 
"Mio padre è certamente stato il più grande tenore drammatico di questo secolo in un'infinità di opereé", irrompe Giancarlo Del Monaco, gagliardo non meno del papà, esibendo una sfilza di attestati di stima firmati Giordano, Mitropulos... "Negli Stati Uniti il suo mito è immenso, tant'è che per il decennale della morte al Metropolitan ci sarà un concerto dei migliori cantanti del mondo. E in Italia la gente lo ama. Solo che qui da noi alcuni critici specialisti hanno lanciato una campagna contro di lui. Ma sì, lei sa di chi parlo: quei cultori del cosiddetto, lezioso bel canto che oggi hanno il potere e fanno i registi, i maestri di canto, i consiglieri musicali dei teatri. Rodolfo Celletti, per non far nomi". Per bel canto - va da sé - s'intende Rossini, e Mozart, e insomma quel gusto "alleggerito", quella passione per l'ironia e il disincanto che sola sopravvive al nostro tempo. 
Da qui, da quest'inverno che ha un po' surgelato gli eroi verdiani si prova una specie di tenerezza a ripercorrere le tappe della carriera del giovane Mario. Nato a Firenze nel 1915, a tredici anni era iscritto al liceo musicale Rossini, di Pesaro, per studiare violino. Ma già gli esplodeva la voce fra i muri domestici, quella voce che - salvo pochi anni al conservatorio della città - lui avrebbe coltivato da autodidatta, fino a scurirla in toni da baritono. E poi l'esordio, con la Cavalleria, a Cagli, nel 1938. I sette anni di servizio militare, la Butterfly, la Bohème, la Traviata, perfino il Rigoletto, in decine di recite destinate al mistero per assenza di incisioni. Poi il successo degli anni Cinquanta, l'approdo al divismo, gli applausi infiniti riscossi insieme alla Callas, alla Tebaldi, alla Simionato. E i dischi (il primo è del 1947), che faranno di Del Monaco una specie di padre fondatore della Decca (etichetta per cui incise ben 28 opere) e che a tutt'oggi hanno un giro d'affari che sfiora i quattro miliardi l'anno. Ma, soprattutto, l'incontro fatale con Otello. 
Davvero, fatale è dir poco. Poiché quell'incontro segnò l'identità del tenore più di quanto la vista del Partenone abbia segnato l' esistenza di Le Corbusier. Fu a Buenos Aires, al teatro Colon, nel luglio del 1950. Del Monaco aveva accettato di cantare Otello - un'opera prudentemente disertata dai grandi, Gigli e Caruso compresi - perché sapeva che quell'opera poteva essere per lui "un fantastico trampolino di lancio", come confessò nella sua autobiografia (La mia vita, i miei successi, apparsa da Rusconi proprio l' anno della sua morte). Una sfida, tanto per essere in tema con se stesso. Ma anche gli eroi, davanti alle grandi sfide, possono tremare. Alla vigilia della prima, resosi conto che quell' opera è "al limite delle possibilità umane", Del Monaco dà forfait, non ce la fa. Provano a rassicurarlo in due, il maestro Votto e la moglie Rina. E lui guadagna una sorta di apnea, quanto basta per entrare in scena. E' un trionfo. Di più: è quasi una sospensione di consapevolezza, un sogno di totalità, un'apparizione del tenore a se stesso. Da quell'Otello in poi, il cantante prenderà a specchiarsi nel suo mito, a nutrirsi anche d'improntitudine. Sarà Otello comunque, perché Otello è vincente. Sarà Otello per sempre. Quando nel 1975, con I Pagliacci a Vienna, si ritirerà dalla scena, fra le quasi tremila recite sostenute nella sua vita si conteranno ben 427 Otelli. Ma non si potranno contare tutte le altre - che Otello non sono - alle quali Del Monaco avrà iniettato comunque il pathos dell' eroe verdiano. "Certo, un Otello come quello di Del Monaco non c'era mai stato prima, e probabilmente non ci sarà mai più" interviene la signora Raggi Valentini. "E questo, probabilmente, perché si tratta di un'opera che richiede quasi una doppia vocalità, baritonale e tenorile. Ma questo non significa che lui non sia stato un grande in tutte le opere. Semplicemente perché aveva tutto: vocali, recitativo, acuti, la voce importante nel centro... E poi Del Monaco era straordinario in questo, nell'essere allo stesso tempo un grande cantante e un grande attore. Ciò che è davvero raro, perché di solito si è o l'uno o l'altro. Gigli, ad esempio, aveva una gran voce, ma presenza scenica zero". 
"Stia a sentire: mio padre è stato il migliore in Otello, Chénier, Pagliacci, Forza del destino, Fanciulla del West, Cavalleria, Norma, nel tardo Verdi, nel verismo e nel Puccini drammatico", riparte Giancarlo Del Monaco, zittendo la tifoseria del club, che monta a ogni obiezione del cronista. "Il suo Otello resta inarrivabile, e lo sa perfino il mio amico Pavarotti, che sono andato a trovare quando stava montando l'Otello con Solti e mi ha detto: ' Guarda che se fosse vivo tuo padre io quest' opera non la canterei' . Ma è chiaro che ciascuno ha un suo repertorio, e che mio padre non sarebbe stato il più adatto a fare l'Elisir d' amore. Tutta la vita i critici suoi nemici lo hanno accusato di non saper cantare piano. Ma cos'è il cantar piano di un tenore drammatico, di uno che in scena è perennemente sul punto di uccidere o di uccidersi? Certo non è un piano alla Di Stefano: quando Verdi fa cantar piano Otello è come se cercasse di domare un leone. Insisto, è solo una questione di repertorio. E non ha senso che Celletti dica di preferire Lauri Volpi a Del Monaco, perché Lauri Volpi era un'altra cosa, e cioè un tipico tenore di gusto ottocentesco. No, mi creda: Celletti è un nemico storico di mio padre, proprio come Hanslick lo fu di Wagner. Il signor Celletti va in brodo di giuggiole solo per la musica dei castrati, e se gli accenni due note della Cavalleria gli prende un tremito di paura. In altre parole, scarica su mio padre le colpe di un repertorio che non ama. Ma io lo invito, lo sfido - se ha il coraggio - a una discussione seria sulla figura di Del Monaco". ' 

Dopo di me il diluvio
Lessico familiare, un' altra sfida ancora. Di qui non si passa. E a poco serve tentar la scorciatoia, un po' pettegola, del caratteraccio, della presunta antipatia, della captatio malevolentiae che tanto attraevano il divismo del nostro. "Non sono un tenore, ma una cooperativa di tenori", amava dire di sé. Oppure, semplicemente, "dopo di me il diluvio". O, ancora, si definiva "un Michelangelo del canto". E girava con la sua Rolls Royce bianca per le vie di Roma vestito da texano, brandiva il pugno in scena contro i loggionisti avversi, liquidava le critiche all'insegna del narcisismo con una battuta: "Piccole voci, piccoli problemi. Grandi voci, grandi problemi". E poi il mal di dandy, quel suo mostrarsi sempre vestitissimo, l'esibizione del lusso, la villa mausoleo di Lancenigo... 
Tutto bene, comunque? Certo che sì, ribattono i tifosi. Poiché è normale che un vero divo sfoggi la provocazione, che un figlio della guerra ostenti il risultato, mostri la rabbia della sua rimonta. Ed era buono, Del Monaco, ti giurano. Istrione ma buono. Regalava soldi, adottava bambini, era religiosissimo. 
Viva Mario Del Monaco, dunque, dieci anni dopo e sempre. Smagliante e vanitoso, il suo Otello è lontano. E più lontani ancora sono i momenti di gloria, le collere e i delirii senza psicologia. ma quella è in ogni caso una stagione che ha senso solo ricordare intera.

"la Repubblica", 7 ottobre 1992

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