11.9.13

Andreotti. Il giudizio della Storia (di Ferdinando Imposimato)

Sul “Ponte”, la prestigiosa rivista fiorentina fondata da Piero Calamandrei, nel numero di luglio è apparso un commento dell’ex giudice Ferdinando Imposimato che ricorda Giulio Andreotti. Imposimato si ferma in particolare sulla vicenda del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro, di cui è profondo conoscitore. Posto qui un ampio stralcio dell’articolo, che mi pare netto nei giudizi e molto ben documentato. (S.L.L.) 
Giulio Andreotti non fu un grande statista, come sostengono molti suoi ex vassalli e cortigiani, e purtroppo anche uomini delle istituzioni, come sembra di capire dalla sibillina locuzione del presidente Giorgio Napolitano, che porta al divo Giulio «il saluto della Repubblica». Ma io credo che il primo diritto degli italiani sia quello di conoscere la verità, anche oltre le sentenze assolutorie e gli ipocriti incensamenti ufficiali.
Giulio Andreotti, il primo responsabile del disastro dei conti pubblici che stiamo pagando amaramente, era legato al maresciallo fascista Rodolfo Graziani, che abbracciò e salutò pubblicamente, e fu amico ed estimatore del mafioso Michele Sindona, mandante dell'assassinio di Giorgio Ambrosoli, ed ebbe l'ardire di commentare il barbaro omicidio con un cinico «se l'è cercata».
Già questo basterebbe a descrivere la statura morale e politica del personaggio. Ma c'è di più: fu - come a suo tempo fu testimoniato dalla segretaria di Gelli, Nara Lazzerini - seguace e sodale del "venerabile" aretino, di cui raccolse le indicazioni nella nomina di importanti vertici dello Stato e dei servizi segreti. Non ebbe remore a incontrare Sindona mentre era latitante, anzi lo definì «salvatore della lira», mentre costui frodava milioni di risparmiatori facendo fallire quelle sue banche attraverso le quali riciclava il danaro sporco di origine mafiosa. Ebbe intensi rapporti con esponenti di Cosa Nostra, frequentando per anni mafiosi siciliani del calibro di Stefano Bontade, capo della cupola, come fu testimoniato da Leonardo Messina, Gaspare Mutolo, Francesco Marino Mannoia e Tommaso Buscetta. Buscetta lo accusò addirittura di essere stato il mandante dell'omicidio del giornalista Mino Pecorelli, delitto da cui però venne assolto in Cassazione, dopo una condanna a 23 anni in appello a Perugia e un'assoluzione in primo grado.
Egli seppe, in una riunione con Stefano Bontade a Catania, nella primavera-estate 1979, del progetto dello stesso Bontade di uccidere Piersanti Mattarella, presidente della Regione siciliana, che voleva moralizzare la vita politica siciliana, e non informò il collega di partito, suo avversario politico, del pericolo imminente, lasciandolo nel mirino della mafia, che poi lo uccise. Ricevette, nel suo studio romano, il capomafia Tano Badalamenti, che poi sarebbe stato accusato e condannato come mandante dell'omicidio di Peppino Impastato.
Questi episodi dovrebbero bastare a giustificare il giudizio dato da un lucido Aldo Moro: «un regista freddo, impenetrabile, senza dubbi, senza palpiti, senza mai un momento di pietà umana [...] indifferente, livido, assente, chiuso nel suo cupo sogno di gloria». Scrisse Moro: «Lei durerà un po' più, un po' meno, ma passerà senza lasciare traccia» (Memoriale di Aldo Moro, trovato in via Montenevoso).
Andreotti fu anche l'uomo delle trame occulte, della doppia impossibile fedeltà alla Costituzione repubblicana e alla loggia di Licio Gelli. Fu l'uomo della copertura delle trame nere, come ammise il capitano Antonio Labruna, e di un'organizzazione illegittima, Gladio, usata nella strategia della tensione per fini politici interni. Il capitano Antonio Labruna del Sid si attivò, secondo il racconto di Stefano Delle Chiaie alla Commissione antiterrorismo, perché il neofascista uccidesse Mariano Rumor - che, quale futuro presidente del Consiglio, stava tentando di portare i socialisti al governo - e aprisse il varco alla guida del governo a Giulio Andreotti, «l'unico che poteva salvare la patria», come disse Delle Chiaie in una dichiarazione che poi sparì dagli atti della Camera.
Ma Giulio Andreotti è stato anche una concausa dell'uccisione di Aldo Moro. Quale presidente del Consiglio istituì, il 16 marzo 1978, assieme a Francesco Cossiga, per la gestione del sequestro Moro, un «comitato di crisi» composto da uomini della P2, ostili a Moro e al «compromesso storico». Il comitato agi per interferire nelle decisioni della magistratura, impedendo l'esecuzione di ordini di cattura e di perquisizione, escludendo dalle indagini la Procura della Repubblica e l'Ufficio istruzione di Roma, tenuto all'oscuro di importanti notizie acquisite nel corso dei 55 giorni, tra cui la scoperta della prigione di Aldo Moro.
Del comitato di crisi - istituito illegittimamente - facevano parte Federico Umberto D'Amato (tessera P2 n. 554), capo dell'Ufficio affari riservati del Viminale; il generale Giuseppe Santovito (tessera P2 n. 1630), capo del Sismi, vertice di Gladio controllato da Andreotti e da Cossiga; il generale Giulio Grassini (tessera P2 n. 1620), capo del Sisde; il generale Raffaele Giudice (tessera P2 n. 535), comandante della Guardia di Finanza; il prefetto Walter Pelosi (tessera P2 n. 754), capo del Cesis; Giovanni Torrisi (tessera P2 n. 631), capo di Stato maggiore della Marina militare; Franco Ferracuti (tessera P2 n. 2137), agente della Cia; Pietro Musumeci (tessera P2 n. 487), vicecapo del Sismi - tutti affiliati, e dico tutti, alla Loggia di Licio Gelli. La scelta di questi personaggi, coinvolti in trame parallele contro la democrazia, venne decisa da Andreotti di concerto con Cossiga.
Grazie alle informative dei vertici militari di Gladio, che avevano individuato la prigione di Moro, in via Montalcini n. 8, interno 1, fin dalla terza decade di marzo 1978, Andreotti e Cossiga sarebbero stati informati dell'ubicazione della prigione e tenuti costantemente al corrente degli sviluppi della prigionia da uomini guidati dal generale Gianadelio Maletti, che da Forte Braschi impartiva ordini per il controllo, la videoripresa e la registrazione. Alla morte di Moro, Andreotti diede un contributo attivo, oltre che omissivo, avallando la vergognosa e macabra messinscena del Lago della Duchessa, attuata la mattina del 18 aprile 1978.
D'accordo con Cossiga, consentì la diffusione del falso comunicato n. 7 delle BR, redatto materialmente da un mafioso della Magliana legato ai servizi segreti. Andreotti sostenne, contro la verità, che quel comunicato era vero e autentico e proveniva dalle Brigate Rosse, mentre esso era stato redatto per ordine di Cossiga e con l'assenso dello stesso Andreotti, ed ebbe lo scopo principale di spingere le BR a uccidere Moro.
La "scoperta" del covo di via Gradoli, già noto ai servizi da prima del sequestro Moro, venne usata contro il presidente della Dc per creare un'operazione di facciata contro le BR, allo scopo di dissuadere il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, pronto coi suoi Gis venuti a Roma da Milano, dalla decisione di liberare Moro, ridotto in condizioni umilianti e degradanti a causa della lunga prigionia. Ma l'operazione Lago della Duchessa non fermò il coraggioso generale dell'Arma e gli uomini della Polizia di Stato, guidati da Emilio Santillo, i Nocs, che avevano deciso di intervenire l'8 maggio 1978. Il commissario Pasquale Schiavone, all'epoca responsabile dei Nocs, partecipò, con Santillo, Dalla Chiesa e il capo gabinetto del ministro, Arnaldo Squillante, a una riunione al ministero della Marina, qualche giorno dopo l'operazione Lago della Duchessa, per mettere a punto un piano di intervento armato per la liberazione di Moro.
Tre "gladiatori" - un ex bersagliere, un carabiniere e un ufficiale dell'esercito - hanno raccontato che era stato programmato, per l'8 maggio 1978, un intervento armato in via Montalcini, da eseguire da parte di uomini dell'Arma e della Polizia per liberare Moro, e che da tempo tenevano sotto osservazione la prigione di Moro. L'operazione prevedeva l'irruzione di un commando di otto persone appartenenti ai Gis dei Carabinieri, sotto la guida di Carlo Alberto Dalla Chiesa, e di altrettanti uomini della Polizia di Stato, appartenenti ai Nocs, ma fu annullata il 7 maggio 1978 per ordine del ministro Cossiga, con l'avallo di Andreotti, stando alla testimonianza di Oscar Puddu, un ufficiale che faceva parte di Gladio.
L'appartamento in cui era ristretto Aldo Moro era tenuto sotto controllo con sofisticate apparecchiature di microtelecamere, intercettazione e registrazione dei colloqui che avvenivano nella prigione, come testimoniato da due militari che speravano di salvare Aldo Moro, dai servizi segreti italiani, inglesi e tedeschi, che si erano installati nella casa sovrastante la prigione all'interno 3. A informare costantemente Cossiga e Andreotti era un fedele collaboratore di Cossiga, il sottosegretario Nicola Lettieri, nome in codice «l'Aquila», vicecapo del comitato di crisi, che trasmetteva agli uomini di Gladio a Forte Braschi «gli ordini dei due esponenti del governo».
(…)
Il ruolo di Cossiga e Andreotti nella vicenda Moro è stato confermato da Steve Pieczenik, del dipartimento di Stato Usa, venuto a Roma subito dopo il sequestro Moro. Pieczenik disse al giornalista francese Emmanuel Amara: «Cossiga era un uomo che aveva capito molto bene quali fossero i giochi. Io non avevo rapporti con Andreotti, ma immagino che Cossiga lo tenesse informato. La decisione di fare uccidere Moro non è stata una decisione presa alla leggera, abbiamo avuto molte discussioni anche perché io non amo sacrificare le vite umane. Ma Cossiga ha saputo reggere questa strategia e assieme abbiamo preso una decisione estremamente diffìcile, diffìcile soprattutto per lui. Ma la decisione finale è stata di Cossiga e, presumo, di Andreotti».
Se tutto questo è vero, ed è difficile sostenere che non lo sia alla luce delle molte testimonianze, ogni commento sulla statura morale e politica di Andreotti è veramente superfluo. Non c'è bisogno di aspettare il giudizio della storia, come si pensa in alto loco.

“Il Ponte”, Anno LXIX n.7, luglio 2013

1 commento:

Anonimo ha detto...

E poi ci sono piscine comunali a rito scozzese..come spiegato in più articoli su il mensile La Strada del 09-10-2007 e su La Stampa di Cuneo del 13-11-2007. A Silvio Pellico altro massone di tutt'altre vedute a vedere i nuovi massoni gli verrebbe il vomito!
Morando

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