Dall’eretico Volponi al
cruento Arpino.
Fin dall’inizio degli
anni ‘60 i nuovi soggetti del lavoro irrompono nel panorama
culturale. E lo rinnovano.
Torino, anni 60 del Novecento, Operaio con bandiera |
Nel marzo del ’62,
nell’anno che conclude il cosiddetto boom economico, un singolare
dirigente industriale, Paolo Volponi, responsabile delle relazioni
esterne della Olivetti a Ivrea, pubblica da Garzanti il romanzo
Memoriale che in tutto contraddice il clima di apparente
concordia e di pax sociale del trascorso decennio, quello
della ricostruzione del paese e, appunto, del successivo miracolo
economico.
Scritto in prima persona,
è il resoconto autobiografico di un contadino del Canavese, ex
prigioniero in Germania, che lascia la campagna ed entra in fabbrica.
L’azienda non è certo la Fiat di Valletta, coi reparti-confino e i
ritmi di un fordismo esasperato; al contrario, si tratta di un luogo
relativamente umanizzato dal fatto che vi permangono, ad ogni
livello, spazi di autonomia per il singolo individuo e servizi che
oggi diremmo di un welfare eccellente, nonché uno spirito di
cooperazione, tra dirigenti e maestranze, dove ancora è percettibile
un’antica memoria artigianale. Tuttavia il protagonista tarda ad
integrarsi, anzi inizia un percorso di progressiva estraneazione
(allora si diceva senz’altro «alienazione») che alla fine assume
i tratti di una mite follia. Egli, suggerisce Volponi, è come
l’arcaico pharmakòs, il capro espiatorio, vale a dire un
corpo-psiche in cui deflagrano le contraddizioni della fabbrica
neocapitalista, un universo che riassorbe ogni impulso vitale, ogni
libertà esistenziale, traducendoli in principio di prestazione.
A pochi chilometri da
Ivrea, nella Torino della Fiat di Vittorio Valletta, dunque la zona
infera o l’antipode della fabbrica «kennedyana» di Adriano
Olivetti, ha appena ambientato il romanzo Una nuvola d’ira
(Mondadori) uno scrittore in tutto diverso da Volponi, quel
Giovanni Arpino nella cui poetica rientra l’attenzione alle parti
taciute dell’esistere e alle opacità di individui deprivati tanto
di destino personale quanto di parola pubblica: la sua è una storia
di operai politicizzati, di comunisti tanto consapevoli della propria
educazione politica e alterità etica da sfidare la morale borghese e
arrischiare un temerario ménage à trois: anche in questo
caso, l’esito della vicenda corrisponde a una deflagrazione, dove
bruciano sia le antiche sicurezze ideologiche e identitarie sia,
soprattutto, l’inconscio bovarismo di chi, asservito alla fabbrica,
subisce la fascinazione di un diverso stile di vita (borghese, da
società «affluente») e degli oggetti di consumo che ha prodotto in
prima persona.
Al di là dello specifico
valore artistico, entrambi i romanzi testimoniano che è in atto un
passaggio di fase: c’è una leva di operai (per lo più inurbati ed
emigrati dal sud) che non è assimilabile alle vecchie maestranze
stanziali, gli operai specializzati e usciti dal fascismo e dalla
guerra, forgiati dai partiti della sinistra storica nel decennio
della ricostruzione, forti di una specifica cultura politica e
sindacale, pertanto già sottoposti a schedatura e spesso a
licenziamento, ovvero a più ambigue dinamiche di emarginazione. I
partiti della sinistra storica e la stessa Cgil stentano a cogliere
il senso e la portata di una mutazione che è storico-sociale ma
anche antropologica: se ne accorge un gruppo di ricercatori, filosofi
e analisti che fa capo ai «Quaderni Rossi» di Raniero Panzieri, il
quale, entro la fabbrica, invita a interrogare il nuovo universo
delle macchine e, fuori della fabbrica, a cogliere con l’«inchiesta
operaia» fisionomia e bisogni di chi ancora non si chiama (ma di
fatto lo è) operaio-massa: uno straordinario caso, anzi un classico
della filosofia politica, Operai e capitale (Einaudi) di Mario
Tronti, uscirà soltanto quattro anni dopo, anche memore dei fatti di
Piazza Statuto (luglio ’62), la rivolta di giovanissimi che aveva
rivelato sia un disagio profondo all’interno della classe operaia
sia la cecità dei vertici di Pci-Psi-Cgil: ricorrendo al consueto
esorcisma, costoro (e in un primo momento lo stesso Panzieri,
purtroppo) avevano parlato infatti di teppisti infiltrati, di agenti
provocatori e, nella sostanza, di una jacquerie retrograda.
Pari ad un sismografo, la
più recente letteratura funge da battistrada o se non altro da
indicatore di una realtà praticamente inesplorata. L’industria
culturale, per l’occasione, inventa l’etichetta di «letteratura
industriale», così imprevista da intrigare Italo Calvino, sulla
plancia di Einaudi, e un antico compagno di strada quale Elio
Vittorini, che prodiga la sua attenzione sulla rivista “Menabò”:
ad esempio nel ’59 è uscito da Bompiani Donnarumma all’assalto
di Ottiero Ottieni, altro intellettuale impiegato da Olivetti, diario
di un addetto alla selezione del personale in uno stabilimento del
Sud; nel ’65, invece, uscirà da Einaudi A proposito di una
macchina, libro sottovalutato e rimosso di Giovanni Pirelli,
transfuga e figlio orgogliosamente degenere di una grande dinastia
industriale.
Le ragioni del ritardo
complessivo della sinistra e più in generale della cultura italiana
si riassumono nel fatto che meno di dieci anni prima il Pci aveva
puntato su Metello di Vasco Pratolini come esempio di realismo
socialista e coscienza progressiva della classe operaia: eppure
qualcuno aveva fatto notare a Mario Alicata e Carlo Salinari (longa
manus e sovrani sulla linea culturale del partito) che il
protagonista del romanzo, un’opera davvero modesta, era un operaio
per finta o in costume, trattandosi di un muratore toscano attivo
nelle lotte di cinquant’anni prima. Cioè all’epoca in cui, prima
che operai in senso proprio, esistevano semplicemente lavoratori e
subalterni del mondo rurale-artigianale o quando, in altri termini,
la letteratura corrente di essi si occupava da fuori e dall’alto,
pagando pesanti pedaggi all’ideologia populista: tale è peraltro
la tesi di un libro pionieristico, che rimane importante, come
Scrittori e popolo di Alberto Asor Rosa, edito da Samonà e
Savelli di lì a poco, nel ’65.
Tratti di esotica
estraneità o di paternalistica condiscendenza segnano la letteratura
secolare, non solo le opere del vecchio socialismo umanitario (i
romanzi di Paolo Valera e di Giovanni Cena) ma anche quelle che si
collocano tra il fascismo e il dopoguerra, in una affollatissima
sequenza: fra gli altri vi compaiono Corrado Alvaro, Ignazio Silone,
Carlo Bernari, lo stesso Pratolini, non esclusi i neorealisti in
senso stretto come Francesco Jovine. Perciò, quando Nanni
Balestrini, nel 1971, pubblica da Feltrinelli Vogliamo tutto
sembra sia passato un secolo. Inizia così: «Nel Sud era già dieci,
quindici anni che era cominciato. L’intervento Cassa, le nuove
industrie, la campagna che deve essere industrializzata. E nei comizi
che si sentivano allora si diceva che per il progresso nel
mezzogiorno bisognava lavorare. Per una nuova dignità umana
bisognava produrre. Che ci voleva un nuovo sud, lo sviluppo, pane per
tutti, lavoro per tutti eccetera. Lo diceva la Dc, lo diceva il Pci,
lo dicevano tutti. Che poi quello è stato invece il via
dell’emigrazione, il segnale che tutti dovevano partire su per le
fabbriche del nord. Perché nel nord Italia e nell’Europa le
fabbriche erano pronte adesso per ricevere tutta quella massa di
gente. Gli servivano tutti adesso per le catene di montaggio alla
Fiat e alla Volkswagen». Questa è una voce che si origina non più
da fuori o dall’altro ma, alla lettera, da dentro e da sotto. Non
ha cadenze dialettali, il suo italiano non sembra avere una sintassi
ma è limpido per il semplice fatto che suona elementare, basico. Non
esprime una ideologia e tanto meno una interpretazione del mondo, ma
restituisce i dati di una diretta osservazione del presente, il
vissuto di una appartenenza primaria (il luogo di origine, la
fabbrica) e pertanto di un senso comune. Intanto l’operaio di
Balestrini ha una voce, la sua voce: il fatto che parli rasoterra e
che sia letterariamente inespressivo (cioè deprivato di uno stile,
di una forma individualmente marcata) significa soltanto che l’autore
ha scelto di dissimularsi, di negare se medesimo in quanto autore,
per garantire a quella voce verosimiglianza e fedeltà. Di qui
l’andatura a strappi, da collage o da magnetofono lasciato aperto.
E’ il grado zero della scrittura che equivale alla nuda condizione
dell’operaiomassa, non più l’ex artigiano o contadino ma il
bracciante inurbato cui si chiede di essere appendice di una
macchina, da cui si esige l’attenzione esclusiva ad un gesto da
ripetere all’infinito. Infine gli si impone di trasformarsi in una
inerte variabile del processo produttivo monitorato col cronometro
alla mano, insomma di essere una merce viva e, come urlano i suoi
compagni alla Renault di Billancourt, corvéable à merci,
gestibile a comando. Ovvio che la sua è una voce grezza,
prepolitica, rauca per un bisogno che non ha accesso alla dinamica di
desideri che non siano altrettanto immediati. Ma è anche ovvio,
d’altra parte, che la voce dell’operaio di Balestrini è la voce
di un coro: senza il ciclo tumultuoso del ’68-’69, senza il
cortocircuito di operai e studenti (fabbrica e scuola) che segna il
grande autunno italiano, quella voce non avrebbe un senso né si
sarebbe mai prodotta.
A quarant’anni di
distanza, la sua sgradevole raucedine, la sua medesima invadenza,
tornano di stretta attualità nella voce di ex operai oggi messi al
margine della produzione, di espulsi dal modello Toyota all’italiana,
di milioni di precari cui ogni giorno si recita la paternale della
competitività e della flessibilità. Costoro sono acculturati,
scrivono al computer, ma noi sappiamo che la loro voce, ancora una
volta, viene da dentro e da sotto, dal dolore di una sofferenza muta.
C’è, quanto a ciò, una vera attenzione di ritorno e una
letteratura che si è fatta imponente, sia di reportage (basti
pensare a Le risorse umane di Angelo Ferracuti, Feltrinelli
2009, a Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al
mese…di Aldo Nove, Einaudi 2006, o a Quando torni. Una vita
operaia di Alberto Papuzzi, Donzelli 2007) sia di ricerca
inventiva, come nel limpido romanzo di Luca Rastello Piove
all’insù (Bollati Boringhieri 2006).
Per estremo paradosso, o
forse per quella che il filosofo chiamava l’astuzia della storia,
gli operai, alla fine del ciclo, sono tornati ad essere lavoratori
tout court, lavoratori potenziali e senza più possibili
aggettivi. Cioè un insieme di subalterni che il Pensiero unico
vorrebbe in eterno disponibili al mercato e alle logiche della
compatibilità produttiva, lo stesso meccanismo per cui l’industria
intera, non solo i suoi addetti, è stata via via fagocitata dalla
finanza. Del resto chi aveva esordito con Memoriale, Paolo
Volponi, avrebbe concluso la propria parabola con Le mosche del
capitale (Einaudi 1989), che è uno dei più grandi romanzi del
dopoguerra ma è anche il romanzo di una sconfitta. Quello
straordinario scrittore e uomo di industria avrebbe amaramente
confessato all’amico Francesco Leonetti, poco prima di morire (in
Il leone e la volpe. Dialogo dell’inverno 1994, Einaudi
1995): «L’industria italiana negli anni Ottanta ha vinto la
battaglia sindacale, ma intanto ha perso quella industriale. […]
L’industria esiste, vive, ci sono molte industrie, nell’industria
c’è tanto di umano, per esempio tutti quelli che ci lavorano, e
tutti quelli intorno, che vivono insieme a quelli che ci lavorano e
che sono condizionati dalla presenza dell’industria, del suo
lavoro, del suo prodotto e poi dei suoi guasti, dei suoi
inquinamenti, del suo potere, del suo disordine urbanistico, della
sua aggressione nei confronti del territorio, delle città, della
società».
Autunno caldo – Il
potere doveva essere operaio - supplemento
al quotidiano “il manifesto”, novembre 2009
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