4.2.15

Anni Sessanta e oltre. Operai e letteratura (Massimo Raffaeli)

Dall’eretico Volponi al cruento Arpino.
Fin dall’inizio degli anni ‘60 i nuovi soggetti del lavoro irrompono nel panorama culturale. E lo rinnovano.
Torino, anni 60 del Novecento, Operaio con bandiera

Nel marzo del ’62, nell’anno che conclude il cosiddetto boom economico, un singolare dirigente industriale, Paolo Volponi, responsabile delle relazioni esterne della Olivetti a Ivrea, pubblica da Garzanti il romanzo Memoriale che in tutto contraddice il clima di apparente concordia e di pax sociale del trascorso decennio, quello della ricostruzione del paese e, appunto, del successivo miracolo economico.
Scritto in prima persona, è il resoconto autobiografico di un contadino del Canavese, ex prigioniero in Germania, che lascia la campagna ed entra in fabbrica. L’azienda non è certo la Fiat di Valletta, coi reparti-confino e i ritmi di un fordismo esasperato; al contrario, si tratta di un luogo relativamente umanizzato dal fatto che vi permangono, ad ogni livello, spazi di autonomia per il singolo individuo e servizi che oggi diremmo di un welfare eccellente, nonché uno spirito di cooperazione, tra dirigenti e maestranze, dove ancora è percettibile un’antica memoria artigianale. Tuttavia il protagonista tarda ad integrarsi, anzi inizia un percorso di progressiva estraneazione (allora si diceva senz’altro «alienazione») che alla fine assume i tratti di una mite follia. Egli, suggerisce Volponi, è come l’arcaico pharmakòs, il capro espiatorio, vale a dire un corpo-psiche in cui deflagrano le contraddizioni della fabbrica neocapitalista, un universo che riassorbe ogni impulso vitale, ogni libertà esistenziale, traducendoli in principio di prestazione.
A pochi chilometri da Ivrea, nella Torino della Fiat di Vittorio Valletta, dunque la zona infera o l’antipode della fabbrica «kennedyana» di Adriano Olivetti, ha appena ambientato il romanzo Una nuvola d’ira (Mondadori) uno scrittore in tutto diverso da Volponi, quel Giovanni Arpino nella cui poetica rientra l’attenzione alle parti taciute dell’esistere e alle opacità di individui deprivati tanto di destino personale quanto di parola pubblica: la sua è una storia di operai politicizzati, di comunisti tanto consapevoli della propria educazione politica e alterità etica da sfidare la morale borghese e arrischiare un temerario ménage à trois: anche in questo caso, l’esito della vicenda corrisponde a una deflagrazione, dove bruciano sia le antiche sicurezze ideologiche e identitarie sia, soprattutto, l’inconscio bovarismo di chi, asservito alla fabbrica, subisce la fascinazione di un diverso stile di vita (borghese, da società «affluente») e degli oggetti di consumo che ha prodotto in prima persona.
Al di là dello specifico valore artistico, entrambi i romanzi testimoniano che è in atto un passaggio di fase: c’è una leva di operai (per lo più inurbati ed emigrati dal sud) che non è assimilabile alle vecchie maestranze stanziali, gli operai specializzati e usciti dal fascismo e dalla guerra, forgiati dai partiti della sinistra storica nel decennio della ricostruzione, forti di una specifica cultura politica e sindacale, pertanto già sottoposti a schedatura e spesso a licenziamento, ovvero a più ambigue dinamiche di emarginazione. I partiti della sinistra storica e la stessa Cgil stentano a cogliere il senso e la portata di una mutazione che è storico-sociale ma anche antropologica: se ne accorge un gruppo di ricercatori, filosofi e analisti che fa capo ai «Quaderni Rossi» di Raniero Panzieri, il quale, entro la fabbrica, invita a interrogare il nuovo universo delle macchine e, fuori della fabbrica, a cogliere con l’«inchiesta operaia» fisionomia e bisogni di chi ancora non si chiama (ma di fatto lo è) operaio-massa: uno straordinario caso, anzi un classico della filosofia politica, Operai e capitale (Einaudi) di Mario Tronti, uscirà soltanto quattro anni dopo, anche memore dei fatti di Piazza Statuto (luglio ’62), la rivolta di giovanissimi che aveva rivelato sia un disagio profondo all’interno della classe operaia sia la cecità dei vertici di Pci-Psi-Cgil: ricorrendo al consueto esorcisma, costoro (e in un primo momento lo stesso Panzieri, purtroppo) avevano parlato infatti di teppisti infiltrati, di agenti provocatori e, nella sostanza, di una jacquerie retrograda.
Pari ad un sismografo, la più recente letteratura funge da battistrada o se non altro da indicatore di una realtà praticamente inesplorata. L’industria culturale, per l’occasione, inventa l’etichetta di «letteratura industriale», così imprevista da intrigare Italo Calvino, sulla plancia di Einaudi, e un antico compagno di strada quale Elio Vittorini, che prodiga la sua attenzione sulla rivista “Menabò”: ad esempio nel ’59 è uscito da Bompiani Donnarumma all’assalto di Ottiero Ottieni, altro intellettuale impiegato da Olivetti, diario di un addetto alla selezione del personale in uno stabilimento del Sud; nel ’65, invece, uscirà da Einaudi A proposito di una macchina, libro sottovalutato e rimosso di Giovanni Pirelli, transfuga e figlio orgogliosamente degenere di una grande dinastia industriale.
Le ragioni del ritardo complessivo della sinistra e più in generale della cultura italiana si riassumono nel fatto che meno di dieci anni prima il Pci aveva puntato su Metello di Vasco Pratolini come esempio di realismo socialista e coscienza progressiva della classe operaia: eppure qualcuno aveva fatto notare a Mario Alicata e Carlo Salinari (longa manus e sovrani sulla linea culturale del partito) che il protagonista del romanzo, un’opera davvero modesta, era un operaio per finta o in costume, trattandosi di un muratore toscano attivo nelle lotte di cinquant’anni prima. Cioè all’epoca in cui, prima che operai in senso proprio, esistevano semplicemente lavoratori e subalterni del mondo rurale-artigianale o quando, in altri termini, la letteratura corrente di essi si occupava da fuori e dall’alto, pagando pesanti pedaggi all’ideologia populista: tale è peraltro la tesi di un libro pionieristico, che rimane importante, come Scrittori e popolo di Alberto Asor Rosa, edito da Samonà e Savelli di lì a poco, nel ’65.
Tratti di esotica estraneità o di paternalistica condiscendenza segnano la letteratura secolare, non solo le opere del vecchio socialismo umanitario (i romanzi di Paolo Valera e di Giovanni Cena) ma anche quelle che si collocano tra il fascismo e il dopoguerra, in una affollatissima sequenza: fra gli altri vi compaiono Corrado Alvaro, Ignazio Silone, Carlo Bernari, lo stesso Pratolini, non esclusi i neorealisti in senso stretto come Francesco Jovine. Perciò, quando Nanni Balestrini, nel 1971, pubblica da Feltrinelli Vogliamo tutto sembra sia passato un secolo. Inizia così: «Nel Sud era già dieci, quindici anni che era cominciato. L’intervento Cassa, le nuove industrie, la campagna che deve essere industrializzata. E nei comizi che si sentivano allora si diceva che per il progresso nel mezzogiorno bisognava lavorare. Per una nuova dignità umana bisognava produrre. Che ci voleva un nuovo sud, lo sviluppo, pane per tutti, lavoro per tutti eccetera. Lo diceva la Dc, lo diceva il Pci, lo dicevano tutti. Che poi quello è stato invece il via dell’emigrazione, il segnale che tutti dovevano partire su per le fabbriche del nord. Perché nel nord Italia e nell’Europa le fabbriche erano pronte adesso per ricevere tutta quella massa di gente. Gli servivano tutti adesso per le catene di montaggio alla Fiat e alla Volkswagen». Questa è una voce che si origina non più da fuori o dall’altro ma, alla lettera, da dentro e da sotto. Non ha cadenze dialettali, il suo italiano non sembra avere una sintassi ma è limpido per il semplice fatto che suona elementare, basico. Non esprime una ideologia e tanto meno una interpretazione del mondo, ma restituisce i dati di una diretta osservazione del presente, il vissuto di una appartenenza primaria (il luogo di origine, la fabbrica) e pertanto di un senso comune. Intanto l’operaio di Balestrini ha una voce, la sua voce: il fatto che parli rasoterra e che sia letterariamente inespressivo (cioè deprivato di uno stile, di una forma individualmente marcata) significa soltanto che l’autore ha scelto di dissimularsi, di negare se medesimo in quanto autore, per garantire a quella voce verosimiglianza e fedeltà. Di qui l’andatura a strappi, da collage o da magnetofono lasciato aperto. E’ il grado zero della scrittura che equivale alla nuda condizione dell’operaiomassa, non più l’ex artigiano o contadino ma il bracciante inurbato cui si chiede di essere appendice di una macchina, da cui si esige l’attenzione esclusiva ad un gesto da ripetere all’infinito. Infine gli si impone di trasformarsi in una inerte variabile del processo produttivo monitorato col cronometro alla mano, insomma di essere una merce viva e, come urlano i suoi compagni alla Renault di Billancourt, corvéable à merci, gestibile a comando. Ovvio che la sua è una voce grezza, prepolitica, rauca per un bisogno che non ha accesso alla dinamica di desideri che non siano altrettanto immediati. Ma è anche ovvio, d’altra parte, che la voce dell’operaio di Balestrini è la voce di un coro: senza il ciclo tumultuoso del ’68-’69, senza il cortocircuito di operai e studenti (fabbrica e scuola) che segna il grande autunno italiano, quella voce non avrebbe un senso né si sarebbe mai prodotta.
A quarant’anni di distanza, la sua sgradevole raucedine, la sua medesima invadenza, tornano di stretta attualità nella voce di ex operai oggi messi al margine della produzione, di espulsi dal modello Toyota all’italiana, di milioni di precari cui ogni giorno si recita la paternale della competitività e della flessibilità. Costoro sono acculturati, scrivono al computer, ma noi sappiamo che la loro voce, ancora una volta, viene da dentro e da sotto, dal dolore di una sofferenza muta. C’è, quanto a ciò, una vera attenzione di ritorno e una letteratura che si è fatta imponente, sia di reportage (basti pensare a Le risorse umane di Angelo Ferracuti, Feltrinelli 2009, a Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese…di Aldo Nove, Einaudi 2006, o a Quando torni. Una vita operaia di Alberto Papuzzi, Donzelli 2007) sia di ricerca inventiva, come nel limpido romanzo di Luca Rastello Piove all’insù (Bollati Boringhieri 2006).
Per estremo paradosso, o forse per quella che il filosofo chiamava l’astuzia della storia, gli operai, alla fine del ciclo, sono tornati ad essere lavoratori tout court, lavoratori potenziali e senza più possibili aggettivi. Cioè un insieme di subalterni che il Pensiero unico vorrebbe in eterno disponibili al mercato e alle logiche della compatibilità produttiva, lo stesso meccanismo per cui l’industria intera, non solo i suoi addetti, è stata via via fagocitata dalla finanza. Del resto chi aveva esordito con Memoriale, Paolo Volponi, avrebbe concluso la propria parabola con Le mosche del capitale (Einaudi 1989), che è uno dei più grandi romanzi del dopoguerra ma è anche il romanzo di una sconfitta. Quello straordinario scrittore e uomo di industria avrebbe amaramente confessato all’amico Francesco Leonetti, poco prima di morire (in Il leone e la volpe. Dialogo dell’inverno 1994, Einaudi 1995): «L’industria italiana negli anni Ottanta ha vinto la battaglia sindacale, ma intanto ha perso quella industriale. […] L’industria esiste, vive, ci sono molte industrie, nell’industria c’è tanto di umano, per esempio tutti quelli che ci lavorano, e tutti quelli intorno, che vivono insieme a quelli che ci lavorano e che sono condizionati dalla presenza dell’industria, del suo lavoro, del suo prodotto e poi dei suoi guasti, dei suoi inquinamenti, del suo potere, del suo disordine urbanistico, della sua aggressione nei confronti del territorio, delle città, della società».

Autunno caldo – Il potere doveva essere operaio - supplemento al quotidiano “il manifesto”, novembre 2009

Nessun commento:

statistiche