Una delle mie nonne
faceva un “riso alla finanziera”, in sostanza un riso bollito (da
lei non usavano i risotti, che al nonno ricordavano i pastoni per gli
animali da cortile) con le rigaglie e i bargigli del gallo preparati
in una particolare salsa. Appresi da grande che si tratta di una pietanza piemontese, utilizzata come secondo piatto, un tempo molto in
voga in Piemonte e che in essa agli ingredienti offerti (suo
malgrado) dal pollame si alleavano le animelle bovine. L'assaggiai
una volta, in un celebre ristorante, quello stesso in cui raccontano
che la preparavano a Cavour, con i funghi, ed era buonissima; ma
anche quella di mia nonna, sebbene assai diversa e molto più
poverella, mi ha lasciato un ricordo gradevole.
La tradizione vuole che
il piatto, nato alcuni secoli prima ad opera un un leggendario Mastro
Martino, cuoco, si sia affermato nei primi dell'Ottocento per
accontentare le esigenze degli uomini d'affari che avevano fretta e
volevano consumare un pasto rapido ma gustoso. Il nome verrebbe dalla
giacchetta che a quel tempo portavano nobili, dignitari e uomini
d'affari, chiamata appunto finanziera. A
più d'uno la spiegazione non pare convincente giacché gli
ingredienti fanno pensare a un piatto povero, di recupero. A me
sembra più plausibile un'ipotesi che ho trovato nelle Misticanze
di Gian Luigi Beccaria (Garzanti
2009): che la finanziera fosse una sorta di tributo che i
contadini che andavano in città a vendere il loro pollame pagavano
in natura ai finanzieri. Ad essi regalavano fegato, cuore,
ventriglio, granelli, creste, bargigli, gli ingredienti del piatto.
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