Particolare dalla copertina di "Mammut" (Antonio Pennacchi - ed. Mondadori) |
“Un culo un pezzo. Un
culo un pezzo. Un culo un pezzo” è questo il mantra che Ludovico
Massa - il protagonista, mirabilmente interpretato da Volontè, del
film La classe operaia va in paradiso di Petri – ripete a se
stesso per non sentire la fatica, per continuare a lavorare e
produrre sempre di più. Il film rappresenta una delle descrizioni
migliore della condizione operaia degli anni ’70. Oggi invece
nessun rumore o voce sembra provenire delle fabbriche.
Si pensi a Mirafiori, una
superficie di 2milioni di metri quadri, dove corrono 20km di linee
ferroviarie interne e 11 km strade sotterranee, e che risulta essere
quasi completamente vuota. Siamo di fronte a un fenomeno
interessante: da un lato assistiamo alla contrazione della presenza e
del peso sociale della fabbrica nella nostra vita economica,
dall’altro ecco il ritorno del tema del rapporto tra letteratura e
industria. Non è forse un caso, al di là del valore letterario, di
cui qui non si ragiona, che negli ultimi anni il Premio Strega abbia
visto come vincitori (Acciaio della Avallone e Storia della
mia gente di Nesi) e tra i finalisti (Ternitti di
Desiati), testi che affrontano il tema del nostro sistema
industriale.
Rimane però da fare i
conti con l’enorme fabbrica deserta, che via via con il passare
degli anni come la Sibilla del Satyricon si è rimpicciolita e
ha perduto anche il suo nome come nell’interessante romanzo Mi
sento già molto inserito di Mauro Orletti che profeticamente
cambia l’acronimo Fiat con il più incisivo S.a.v.i (Società
Anonima Veicoli Industriali).
Questo inarrestabile
svanire è anche rappresentato dal venire meno dell’operaio. L’io
narrante di romanzi come Vogliamo Tutto di Balestrini o La
fabbrica dei paraurti di Nelli, un io narrante ipertrofico che
racchiude al suo interno tutta la classe operaia, lascia il passo al
canto lirico di Tonon che ne Il nemico racconta una sorta di
parabola di morte del padre e dell’operaio, ma lo canta anche
ancora all’interno di una fabbrica di stampo fordista. Una fabbrica
lager che così viene identificata anche da un altro autore del
Nordest Massimiliano Santarossa che nel recente Viaggio nella
notte, canta la deriva e la morte di un giovane operaio alienato
dal lavoro e il diario della sua ultima notte. Proprio il romanzo di
Santarossa e la sua equiparazione forzosa tra lager e fabbrica mostra
come questo tipo di tematiche possano dare vita a cliché e a luoghi
comuni.
E’ necessario quindi
richiamare quelli che furono i testi proemiali a questo genere di
romanzi. E in questo viene in aiuto la casa editrice Hacca che
ripubblica di Ottiero Ottieri Tempi stretti e di Luigi Davì
Gymkhana Cross; così come la riproposizione di Mammut di
Pennacchi per Mondadori. Mentre la realtà della fabbrica e i suoi
meccanismi si modificano tanto da non essere più comprensibili con i
vecchi canoni del fordismo, i romanzi usano ancora gli stilemi
narrativi che negli anni ’50 Vittorini codificava nei suoi Gettoni.
La lettura di Gymkana Cross, il libro forse più noto dello
scrittore operaio Luigi Davì, può essere interessante. Gymkana
Cross non è un vero e proprio romanzo, ma è un insieme di
racconti brevi e nervosi, scritti con una lingua in presa diretta,
che ci porta dentro il farsi del nuovo mondo operaio.
Non c’è riflessione, i
personaggi sono monodimensionali, sono degli exempla - una
sorta di Novellino industriale - dove ciò che conta è
mostrare ciò che è. Diverso è il caso di Tempi stretti di
Ottieri, intellettuale fine, osservatore disincantato del mondo della
fabbrica, che getta un occhio sulla malattia morale e sociale
dell’operaio, sul suo progressivo trasmutarsi da persona a cosa:
“il movimento del materiale meccanico è più facile, gli autotreni
vengono a rilevare i rottami per rifonderli. Anche un uomo rotto si
può sostituire con un uomo nuovo, ma non si sa mai dove depositare
il rottame”.
Ottieri scrive queste
parole del 1957 e sembra presagire perfettamente la situazione
attuale della nostra industria, cosa in cui fallisce Santarossa e che
in parte riesce nel suo libro a Saverio Fattori. Nel suo romanzo
12.47 strage in fabbrica (Gaffi) l’autore scrive un memoir,
nel quale il protagonista espone con lucida freddezza la sua
decisione di fare una carneficina in sala mensa della fabbrica. E
mentre mostra i piani del suo progetto delirante ci offre però lo
spaccato di un’azienda modello, o che pare tale, della Emilia
felice, dove sindacalisti, padroni e lavoratori vanno a braccetto.
Proprio la separazione forzata da questo paradiso, un rimansionamento
da impiegato a operaio, farà scattare la furia omicida, perché
metterà in mostra come dietro la linda e pulita lucentezza si
nasconda sempre la vecchia dialettica del servo e del padrone, di chi
s’arricchisce con il lavoro altrui. Una schiavizzazione del
subalterno si ripercuote dalle gerarchie superiori a quelle
inferiori, fino a quando qualcuno non decide di interrompere la
catena. E fa un massacro.
Sembra che scrivere di
industria significhi declinare un passato. Così fa Edoardo Nesi in
Storia della mia gente (Bompiani) racconta il cambiamento del
tessuto produttivo della sua città (Prato) cercando di fare i conti
con i nuovi modelli industriali. Il tono del suo romanzo è, però,
“sentimentale” (nulla di negativo in questo aggettivo),
concentrato quindi su ciò che si è perduto e non su quello che si
sta trasformando.
Una nostalgia che
accomuna le pagine dello scrittore toscano a quelle di Mammut
di Pennacchi, che racconta la sua vita in fabbrica come operaio. Il
suo racconto non aggiunge niente a ciò che già sapevamo o
conoscevamo, se non il sorgere di un dubbio ovvero se esista la
possibilità, e la necessità anche, di mettere insieme una
narrazione che dica la condizione di chi lavora oggi nelle fabbriche?
Forse è necessario
tornare alla fabbrica di Mirafiori in Torino completamente deserta e
vuota di operai. Guardandola o facendoci il giro intorno pare
un’enorme balena spiaggiata alla periferia della città. Un tempo,
c’è stato un tempo così, lungo i suoi muri c’erano bar,
bancarelle e venditori ambulanti. Camminandoci, sembrano lontani i
tempi di romanzi come Memoriale o Donnarumma all’assalto
o Vogliamo tutto, diversi sono gli uomini (non esiste niente
di simile o paragonabile all’avventura umana e intellettuale di
Adriano Olivetti): è possibile che un luogo così scompaia?
Forse il lascito della
vecchia letteratura operaia a quella post-operaia, che si è tentato
di descrivere, sta nel tentativo di elaborare un lutto enorme che
icasticamente Davì descrive così: “Sono un museo di tagli e
cicatrici, queste mani oggi. Io sono il custode del museo. Tengo la
porta chiusa. Osservo il mio lutto”.
Dal quotidiano “pubblico”, 8 dicembre 2012
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