2.2.15

Raccontare la fabbrica. Dal romanzo operaio al romanzo che cosa? (Demetrio Paolin)

Particolare dalla copertina di "Mammut" (Antonio Pennacchi - ed. Mondadori)
“Un culo un pezzo. Un culo un pezzo. Un culo un pezzo” è questo il mantra che Ludovico Massa - il protagonista, mirabilmente interpretato da Volontè, del film La classe operaia va in paradiso di Petri – ripete a se stesso per non sentire la fatica, per continuare a lavorare e produrre sempre di più. Il film rappresenta una delle descrizioni migliore della condizione operaia degli anni ’70. Oggi invece nessun rumore o voce sembra provenire delle fabbriche.
Si pensi a Mirafiori, una superficie di 2milioni di metri quadri, dove corrono 20km di linee ferroviarie interne e 11 km strade sotterranee, e che risulta essere quasi completamente vuota. Siamo di fronte a un fenomeno interessante: da un lato assistiamo alla contrazione della presenza e del peso sociale della fabbrica nella nostra vita economica, dall’altro ecco il ritorno del tema del rapporto tra letteratura e industria. Non è forse un caso, al di là del valore letterario, di cui qui non si ragiona, che negli ultimi anni il Premio Strega abbia visto come vincitori (Acciaio della Avallone e Storia della mia gente di Nesi) e tra i finalisti (Ternitti di Desiati), testi che affrontano il tema del nostro sistema industriale.
Rimane però da fare i conti con l’enorme fabbrica deserta, che via via con il passare degli anni come la Sibilla del Satyricon si è rimpicciolita e ha perduto anche il suo nome come nell’interessante romanzo Mi sento già molto inserito di Mauro Orletti che profeticamente cambia l’acronimo Fiat con il più incisivo S.a.v.i (Società Anonima Veicoli Industriali).
Questo inarrestabile svanire è anche rappresentato dal venire meno dell’operaio. L’io narrante di romanzi come Vogliamo Tutto di Balestrini o La fabbrica dei paraurti di Nelli, un io narrante ipertrofico che racchiude al suo interno tutta la classe operaia, lascia il passo al canto lirico di Tonon che ne Il nemico racconta una sorta di parabola di morte del padre e dell’operaio, ma lo canta anche ancora all’interno di una fabbrica di stampo fordista. Una fabbrica lager che così viene identificata anche da un altro autore del Nordest Massimiliano Santarossa che nel recente Viaggio nella notte, canta la deriva e la morte di un giovane operaio alienato dal lavoro e il diario della sua ultima notte. Proprio il romanzo di Santarossa e la sua equiparazione forzosa tra lager e fabbrica mostra come questo tipo di tematiche possano dare vita a cliché e a luoghi comuni.
E’ necessario quindi richiamare quelli che furono i testi proemiali a questo genere di romanzi. E in questo viene in aiuto la casa editrice Hacca che ripubblica di Ottiero Ottieri Tempi stretti e di Luigi Davì Gymkhana Cross; così come la riproposizione di Mammut di Pennacchi per Mondadori. Mentre la realtà della fabbrica e i suoi meccanismi si modificano tanto da non essere più comprensibili con i vecchi canoni del fordismo, i romanzi usano ancora gli stilemi narrativi che negli anni ’50 Vittorini codificava nei suoi Gettoni. La lettura di Gymkana Cross, il libro forse più noto dello scrittore operaio Luigi Davì, può essere interessante. Gymkana Cross non è un vero e proprio romanzo, ma è un insieme di racconti brevi e nervosi, scritti con una lingua in presa diretta, che ci porta dentro il farsi del nuovo mondo operaio.
Non c’è riflessione, i personaggi sono monodimensionali, sono degli exempla - una sorta di Novellino industriale - dove ciò che conta è mostrare ciò che è. Diverso è il caso di Tempi stretti di Ottieri, intellettuale fine, osservatore disincantato del mondo della fabbrica, che getta un occhio sulla malattia morale e sociale dell’operaio, sul suo progressivo trasmutarsi da persona a cosa: “il movimento del materiale meccanico è più facile, gli autotreni vengono a rilevare i rottami per rifonderli. Anche un uomo rotto si può sostituire con un uomo nuovo, ma non si sa mai dove depositare il rottame”.
Ottieri scrive queste parole del 1957 e sembra presagire perfettamente la situazione attuale della nostra industria, cosa in cui fallisce Santarossa e che in parte riesce nel suo libro a Saverio Fattori. Nel suo romanzo 12.47 strage in fabbrica (Gaffi) l’autore scrive un memoir, nel quale il protagonista espone con lucida freddezza la sua decisione di fare una carneficina in sala mensa della fabbrica. E mentre mostra i piani del suo progetto delirante ci offre però lo spaccato di un’azienda modello, o che pare tale, della Emilia felice, dove sindacalisti, padroni e lavoratori vanno a braccetto. Proprio la separazione forzata da questo paradiso, un rimansionamento da impiegato a operaio, farà scattare la furia omicida, perché metterà in mostra come dietro la linda e pulita lucentezza si nasconda sempre la vecchia dialettica del servo e del padrone, di chi s’arricchisce con il lavoro altrui. Una schiavizzazione del subalterno si ripercuote dalle gerarchie superiori a quelle inferiori, fino a quando qualcuno non decide di interrompere la catena. E fa un massacro.
Sembra che scrivere di industria significhi declinare un passato. Così fa Edoardo Nesi in Storia della mia gente (Bompiani) racconta il cambiamento del tessuto produttivo della sua città (Prato) cercando di fare i conti con i nuovi modelli industriali. Il tono del suo romanzo è, però, “sentimentale” (nulla di negativo in questo aggettivo), concentrato quindi su ciò che si è perduto e non su quello che si sta trasformando.
Una nostalgia che accomuna le pagine dello scrittore toscano a quelle di Mammut di Pennacchi, che racconta la sua vita in fabbrica come operaio. Il suo racconto non aggiunge niente a ciò che già sapevamo o conoscevamo, se non il sorgere di un dubbio ovvero se esista la possibilità, e la necessità anche, di mettere insieme una narrazione che dica la condizione di chi lavora oggi nelle fabbriche?
Forse è necessario tornare alla fabbrica di Mirafiori in Torino completamente deserta e vuota di operai. Guardandola o facendoci il giro intorno pare un’enorme balena spiaggiata alla periferia della città. Un tempo, c’è stato un tempo così, lungo i suoi muri c’erano bar, bancarelle e venditori ambulanti. Camminandoci, sembrano lontani i tempi di romanzi come Memoriale o Donnarumma all’assalto o Vogliamo tutto, diversi sono gli uomini (non esiste niente di simile o paragonabile all’avventura umana e intellettuale di Adriano Olivetti): è possibile che un luogo così scompaia?
Forse il lascito della vecchia letteratura operaia a quella post-operaia, che si è tentato di descrivere, sta nel tentativo di elaborare un lutto enorme che icasticamente Davì descrive così: “Sono un museo di tagli e cicatrici, queste mani oggi. Io sono il custode del museo. Tengo la porta chiusa. Osservo il mio lutto”.


Dal quotidiano “pubblico”, 8 dicembre 2012

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