A diciassette secoli
dall'editto di Costantino (Milano, febbraio 313) la Chiesa nella
tempesta ha il coraggio di guardare in faccia l'imperatore che con
quell'atto diede libertà ai cristiani, ma pose anche le basi delle
tentazioni “temporali” del papato, delle origini fino alle
laceranti divisioni dei giorni nostri. Un'operazione coraggiosa, che
cerca la verità di un personaggio più complesso di quanto non
dicano gli schemi scolastici, e non teme di rileggerne le
trasfigurazioni mitiche e le manipolazioni interessate.
È il senso della
monumentale Enciclopedia costantiniana della Treccani che sarà
tra breve in libreria e vedrà una solenne presentazione ecumenica il
21 marzo all'Ambrosiana di Milano. Voluta dal cardinale Angelo Scola
e portata a termine da 53 autori coordinati dalla Scuola di scienze
religiose di Bologna, l'enciclopedia fa il punto sugli ultimi anni di
studi e mostra, dice il curatore Alberto Melloni, «un uomo
intelligente e crudele, che con gli anni diventa sempre più
monoteista e cristiano; uno che dà alla Chiesa più libertà e alla
fine mette mano al portafoglio restituendo e detassando i beni
confiscati».
Figura inquietante e
bifronte, l'uomo che nel 331 fa di Costantinopoli la nuova capitale
della romanità, si mostra giusto verso ebrei e cristiani, ma
orrendamente crudele verso figli e parenti stretti, e la statua in
piazza della Vetra a Milano, copia fedele di un marmo antico,
conferma l'immagine di un dominatore imponente, magnetico e carico di
astuzia barbarica (era un balcanico), ma anche impregnato di
romanità. In quel carisma, che si ripete nei busti sparsi nelle
terre dell'impero, è già leggibile la trasfigurazione che ne
faranno i pagani e i cristiani.
Egli è prima di tutto
estetica, cerimoniale. Il bianco-panna del Papa e la porpora dei
cardinali in conclave nascono da colori imperiali, imitano dunque la
potenza terrena di Costantino. Quando l'algido Putin sulla porta del
Cremlino si fa fotografare in posizione devota davanti al capo della
chiesa moscovita, ricalca di proposito la postura di lui nelle icone.
E persino il turco Erdogan, quando consegna al patriarca di
Istanbul-Costantinopoli l'atto di restituzione dei luoghi di culto
ortodosso, reinterpreta la politica del pacificatore religioso erga
omnes che i sultani ereditarono dalla città di Costantino.
L'enciclopedia penetra il
mito, a partire dalla battaglia di Ponte Milvio - in hoc signo
vinces - dove probabilmente a trionfare non fu la Croce ma
un'analoga insegna legionaria; rilegge l'antico falso della
“donazione” dei territori imperiali alla Chiesa; evidenzia come
forzata persino la lettura del clamoroso evento del 313. Ormai lo si
sa: l'editto non fu tale, ma semplice lettera agli amministratori
dell'impero; non fu di Milano, perché l'epistola fu vergata a
Nicomedia, l'attuale città serba di Nis; e non fu nemmeno di
Costantino, perché a emanarlo fu il suo omologo d'Oriente,
l'imperatore Licinio.
Cosa sono allora le
solenni parole di libertà riprodotte sulla prima delle cinque porte
di bronzo del duomo di Milano? In quella città i due cesari
effettivamente si vedono in febbraio, e lì Costantino, da poco
padrone dell'Occidente, ordina a Licinio (che undici anni dopo
avrebbe tolto di mezzo per diventare cesare di un impero riunificato)
di diffondere la libertà di culto in generale, e non solo ai
cristiani, anche nelle provincie orientali. La decisione viene
ufficializzata a giugno, e solo per i territori dell'Est. L'Ovest non
ne ha bisogno, perché la libertà di culto è già stata adottata; e
non da Costantino, ma dal predecessore Galerio.
Don Federico Gallo,
studioso dell'Ambrosiana, si attiene ai fatti. «Costantino fa
costruire basiliche a Roma, a Gerusalemme e Betlemme. Convoca un
concilio, quello di Nicea che condanna Ario come eretico, e persino
lo presiede. Rende festiva la domenica, svolta decisamente epocale, e
dà spazio ai cristiani. Ma attenzione: non fa lui stesso il devoto.
Il suo primo interesse è la pax deorum, e cioè che le
diverse fedi dell'impero coabitino sotto lo stesso pantheon».
Assiste alla condanna di Ario, ma si fa battezzare in punto di morte
da un vescovo ariano.
Resta imperatore prima di
tutto, anche se dai cristiani riceve il titolo di epìscopos,
e non somiglia affatto a Teodosio, che nel 380 renderà il
cristianesimo religione obbligatoria di Stato, portando a termine la
metamorfosi dei cristiani da perseguitati a persecutori. Nel suo
epistolario con sant'Ambrogio per esempio, dopo aver protestato per
alcune sinagoghe bruciate dai cristiani, Teodosio finirà per farsi
convincere dal vescovo di Milano della giustezza sacrosanta di
quell'infamia. Mai l'uomo di Ponte Milvio avrebbe ceduto su questo
punto.
È peraltro Costantino a
gettare le basi di quell'inciucio fra politica e religione che
spingerà la Chiesa a influire sul potere civile e persino a chiedere
e ottenere esenzioni fiscali sulle sue proprietà (Imu). Ed è da
Costantino che la Chiesa vive il rischio di «derive cesaropapiste e
antisemite», come spiega l'esperto di ebraismo monsignor
Piefrancesco Fumagalli. «L'imperatore che ci perseguitava con la
spada oggi ci accarezza il ventre», ammoniva già nel quarto secolo
Ilario di Poitiers. Da lì vennero il gran rifiuto degli anacoreti,
la protesta ereticale, la rivolta di Dolcino, l'anatema
dell'Alighieri, la protesta di Melantone, lo scisma luterano.
In Oriente è diverso.
L'impero dura un millennio in più, riluce di ori e mosaici da
Ravenna alla Persia, affascina con le sue liturgie i principi pagani
della Russia e l'Islam delle origini. Fu scoprendo la lupa scolpita,
spiega Andrea Piras nell'enciclopedia, che i khan dell'Asia centrale
scoprirono affinità totemiche con Roma. Paradossalmente, la
tolleranza costantiniana sopravvisse meglio a Istanbul che a Madrid:
mentre Isabella la Cattolica espelleva gli Ebrei, il sultano li
accoglieva e si dichiarava primo imperatore di “Rum”, la
romanità. Le cancellerie di Costantino e del sultano, ricorda Anna
Calia nell'Enciclopedia, erano entrambe «poliglotte e
multiconfessionali». E non esiste città, ricorda la bizantinista
Silvia Ronchey, dove una religione perdente «abbia conservato più
luoghi di culto della Costantinopoli ottomana».
Ma come a Roma, anche nel
mondo ortodosso il 313 è pretesto di una rilettura interessata.
Costantino diventa il sigillo della symphonia, la simbiosi
invincibile di stato e fede che secondo Josip Brodskij sta alla base
dell'assolutismo zarista e bolscevico. E oggi, per i Greci, celebrare
il 313 significa invocare la riconquista della Polis per mano di un
nuovo Costantino. È cantando il suo nome che i Greci esuli dalla
Turchia, sgozzano ancora un toro e ballano avvinghiati a icone,
seguendo un ritmo arcaico come la tammurriata. «Per noi serbi –
dice il liutista Sasha Karlic – Costantino risveglia anche
musicalmente l'archetipo balcanico del guerriero di luce contro le
tenebre».
Metamorfico e
inafferrabile, ritrovi il suo fantasma dappertutto: nelle fondamenta
bancarie di Milano, tra le pietre del Foro dove inizia la via Emilia,
affrescato in una chiesa di Montreal assieme a Mussolini, riletto da
un post comunista come Putin, mitizzato in senso fascista dal polacco
Pilsudski o dal greco Metaxas. Lo riscopri nei canti che la Sardegna
dedica a un santo col suo nome, nelle celebrazioni cattoliche di
Aquileia, o in quelle ortodosse di questi giorni in Serbia, dove
l'imperatore torna tra i vivi come simbolo di quell'identità
perfetta di popolo, religione e Stato che tanti disastri ha inflitto
ai Balcani.
“la Repubblica”, 25
febbraio 2013
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