L'immagine di Dario I trionfante nel rilevo rupestre di Bisutun |
Il Gran Re si sentì
gelare. Dopo tre anni lontano da casa, dacché era partito alla
conquista del millenario Egitto, dovette pensare di essere di nuovo
finito dentro un brutto sogno, come quella notte in cui gli era parso
che un messaggero gli riferisse di suo fratello Smerdi assiso sul
trono regale, con la testa che toccava il cielo. E ora ecco: davanti
a suoi occhi un araldo venuto dalla capitale proclamava all'esercito
che il sovrano dei Persiani non era più lui, Cambise II figlio di
Ciro, che sul trono adesso sedeva Smerdi, a sua volta figlio di Ciro,
e che a questo soltanto bisognava obbedire.
Non che i colpi di Stato
fossero infrequenti, all'epoca, e nemmeno i colpi bassi fra parenti,
come aveva dimostrato il loro padre comune quando marciò contro il
proprio nonno materno Astiage, Gran Re dei Medi, e unificò i due
regni fondando l'impero persiano. Il problema era un altro: era che
Smerdi, secondo quanto risultava a Cambise, a quel tempo doveva
essere morto e sepolto. Lui stesso ne aveva ordinata l'uccisione al
suo uomo più fidato, Pressaspe, dopo quel sogno preoccupante. E
dunque che cosa voleva quel messaggero, da dove spuntava, chi l'aveva
mandato? A meno che Pressaspe...
Questa storia
granguignolesca e un po' bislacca di doppi e tripli giochi, di
congiure e controcongiure, e di congiura nella congiura, è stata
tramandata nei dettagli da Erodoto, e per brevi accenni da diverse
fonti greche, ma ci è nota anche attraverso un documento persiano
decifrato nell'Ottocento, l'iscrizione di Bisutun. Fatta incidere dal
Gran Re Dario, successore di Cambise, nella roccia dei monti Zagros,
sulla via carovaniera che collegava Babilonia a Ectabatana,
l'epigrafe riporta in prima persona il racconto del nuovo sovrano che
celebra le proprie imprese: un testo che, essendo stato redatto pochi
anni dopo i fatti, deve considerai più attendibile di quello di
Erodoto. A meno che...
Un giallo di 2500
anni fa
Tra le due versioni, in
molte parti coincidenti, bisogna sapersi districare. Bisogna
confrontare, estendere il campo visuale, ricostruire i retroscena
sottotaciuti, non lasciar passare i punti oscuri, non risparmiarsi
nella ricerca del cui prodest, se vogliamo capirci di più in
questo giallo di 2500 anni fa che si può ripercorrere come una
cronaca d'oggi.
Quando ascoltò le parole
dell'araldo mandato dal fratello che credeva ucciso, Cambise (in
antico persiano Kambujiya, «nobile signore») mandò a chiamare il
suo braccio destro: «Così hai eseguito il compito che t'affidai?».
«O Signore, io stesso ho sepolto Smerdi con le mie mani. Se i morti
resuscitano, aspettati pure che ti si ribelli anche il medo Astiage»,
si difese quello. E a proprio discarico portò la testimonianza dell'
araldo, che ammise di non avere ricevuto gli ordini direttamente da
Smerdi, ma da colui che Cambise aveva lasciato come amministratore
della reggia: ossia il leader della potente casta sacerdotale dei
Magi, depositari del nuovo verbo zoroastriano. A poco a poco, nella
mente sconvolta di Cambise la verità cominciava a farsi strada.
Fin qui il racconto di
Erodoto, che indulge non poco all'aneddotica risolvendo i fatti nella
contrapposizione delle personalità. La realtà dovette essere un po'
più complicata: a partire dal dissidio tra i due figli di Ciro II,
che prese le mosse probabilmente dai problemi di successione aperti
dall'improvvisa morte del padre, nel 530 a.C., e si alimentò nello
scontro interno dell'aristocrazia persiana in merito alle onerose
campagne militari. Cambise si era messo in testa di completare
l'opera del grande genitore, vincitore dei Medi, dei Lidi e dei
Babilonesi, e aveva osato l'inosabile: annettersi il paese dei
faraoni. Era partito nel 525, dopo essersi assicurato il sostegno
logistico di Arabi e Fenici, e con un vero e proprio Blitzkrieg
aveva espugnato Menfi e deposto Psammetico III. Ma i guai dovevano
ancora venire.
Despota vanesio e
brutale
In Egitto il Gran Re si
diede a ogni sorta di eccessi, umiliando il sovrano sconfitto,
massacrando giovani inermi, profanando tombe e oltraggiando cadaveri,
irridendo la religione e i costumi locali. Erodoto costruisce
l'immagine di un despota vanesio, impulsivo e brutale (fra le sue
vittime anche la sorella-moglie Meroe, uccisa in un accesso d'ira),
in opposizione a quella idealizzata di Ciro il Grande, secondo la
tradizionale catena che dalla hybris, il comportamento che
viola la giusta misura, inevitabilmente conduce all'ate,
l'accecamento che è anche, nel contempo, la rovina di chi ne è
colpito: e pone così i presupposti di quella coazione a ripetere che
rappresenta la peculiare maledizione della dinastia achemenide, e che
segnerà la parabola di Serse, figlio dì Darlo, nella versione
eschilea dei Persiani (che è però antecedente).
Sia attendibile o meno
questo ritratto di maniera - e pare proprio che il povero Cambise sia
stato vittima di una colossale campagna denigratoria postuma -, resta
il fatto che dopo i successi iniziali il Gran Re si trovò alle prese
con una serie di difficoltà impreviste: fallita sul nascere la
spedizione contro Cartagine, sepolta da una tempesta di sabbia
l'armata in marcia verso il tempio di Amon, nell'oasi di Siwa,
decimato l'esercito che lui stesso guidava attraverso il deserto alla
conquista dell'Etiopia, con i soldati ridotti alla disperazione dalla
fame e costretti a mangiarsi l'un l'altro. In patria serpeggiava il
malcontento. Ed è in questa situazione che si colloca il colpo di
mano di Smerdi (in persiano Bardiya), chiunque egli fosse. Erodoto ci
dice che si chiamava Smerdi anche lui ed era il fratello del mago
ammistratore del palazzo reale, dal quale era stato scelto per via
della sua rassomiglianza con il mprincipe ucciso, la cui fine era
rimasta segreta. L'iscrizione di Bisutun precisa il suo vero nome,
Gaumata. In ogni caso l'interregno di un personaggio che si faceva
chiamare Bardiya è storicamente certo, confermato da alcune coeve
tavolette cuneiformi babilonesi datate, appunto, secondo il presunto
fratello di Cambise.
Raggiunto in Siria, già
sulla via del ritorno, dalle notizie che venivano dalla capitale
Pasargan (Erodoto parla invece di Susa), il Gran Re si accingeva a
rientrare di gran carriera quando un banale incidente, o forse un
complotto ordito nella sua cerchia, lo tolse di mezzo. Era il 522,
aveva regnato sette anni e cinque mesi. Nei sette mesi successivi,
Smerdi-Gaumata governò senza problemi l'immenso impero persiano,
accattivandosi il favore dei sudditi con una serie di provvedimenti
popolari come resezione triennale dalle tasse e dal servizio
militare. Finché, nell'ottavo mese, la verità venne a galla.
Il fine giustifica
i mezzi
Sette fra i più eminenti
aristocratici persiani si accordarono allora per rovesciare il falso
Smerdi. Sui loro nomi le fonti concordano: oltre a Otane, colui che
aveva smascherato l'inganno, c'erano Intafrene, Gobria, Megabizo,
Telarne, Aspatine (al posto di questo, l'iscrizione di Bisutun
riporta Ardomanes); ultimo Dario (Darayawus; «colui che
confida nel dio») figlio di Istaspe, appartenente a un ramo cadetto
degli achemenidi. E fu proprio Dario a stringere i tempi, nel timore
che uno di loro finisse col tradire: «O agiamo oggi stesso, o
sappiate che nessuno mi preverrà nel farsi mio accusatore, ma sarò
io stesso a denunciare la faccenda al Mago». I congiurati
penetrarono senza difficoltà, dato il loro rango, nel palazzo reale,
uccisero i due fratelli e la giornata si concluse con un bagno di
sangue, con la gente che dava la caccia a tutti i magi sorpresi per
le strade con un impeto nazionalistico che Erodoto spiega con le
origini mede degli impostori.
Restava da scegliere il
nuovo sovrano, dal momento che Cambise non aveva lasciato eredi. I
sette decisero di affidarsi alla sorte: il trono sarebbe toccato a
chi, fra loro, fosse in sella al cavallo che all'alba dell'indomani
avrebbe nitrito per primo. Ebbe la meglio il figlio di Istaspe, con
la complicità truffaldina dello scudiere Ebare che passò la mano
sui genitali di una cavalla in calore e al momento opportuno la
accostò alle narici del destriero di Dario. Il fine giustifica i
mezzi, e il fine era il dominio sul più grande e potente impero mai
apparso nella storia.
Appena insediato, il Gran
Re dovette affrontare le ribellioni delle popolazioni periferiche che
approfittavano dell'instabilità politica centrale. Falsi discendenti
spuntavano un po' ovunque, accampando diritti al trono per sé e
rivendicando l'indipendenza per i loro popoli. Dario ci mise qualche
anno a risolvere la grana, prima di lanciarsi in una politica di
conquiste che si sarebbe arrestata soltanto nel 490, alle porte di
Atene, con la disfatta di Maratona. Intanto si occupava di
riorganizzare l'impero, trasferiva la capitale a Susa e fondava
Persepoli, sposava la figlia di Ciro (e sorella-vedova di Cambise)
Atossa, aderiva a una forma «demagizzata» della religione di Ahura
Mazda, proclamata da Zoroastro.
La storia riscritta
Fine degli intrighi,
dunque, e tutto chiaro? Forse no. Mettendo a confronto le
testimonianze antiche con i risultati delle ricerche storiche e
archeologiche successive, e riflettendo sulle contraddizioni e le
inverosimiglianze di tutta la vicenda, si è fatto strada negli
studiosi un sospetto che via via è diventato (quasi) una certezza.
Facciamoci caso. Chi
aveva interesse a ridimensionare il movimento dei Magi, interpreti di
una versione «pura» del mazdeismo, con ambizioni di riforma
religiosa e sociale e pericolose tendenze all'ingerenza negli affari
dello Stato? E chi aveva tutto da guadagnare dall'eliminazione dei
discendenti legittimi di Achemene, che precludevano ogni speranza a
chi venisse da un ramo collaterale? Dario, sempre Dario: abile
nell'inserirsi negli eventi, e nel piegarli a proprio vantaggio.
E l'ultimo colpo di
scena: il falso Smerdi non sarebbe in realtà falso, ma sarebbe
l'autentico fratello di Cambise che a un certo punto si ribellò
appoggiandosi al magismo. Approfittando della situazione Dario, il
vero usurpatore, avrebbe ottenuto due risultati in un colpo solo. E
intorno al 519, ormai saldo al potere, avrebbe riscritto a modo suo
la storia, sulla collina di Bisutun, accanto al bassorilevo che lo
rappresenta nell'atto di schiacciare la testa all'agonizzante
Bardiya-Gaumata: «Mentre Cambise era in Egitto lo Stato divenne
eretico, la falsità era in tutto il paese [...]. Non c'era nessuno
così ardito da resistere a Gaumata, finché venni io [...]. La
corona che era uscita dalla nostre stirpe io la recuperai [...]. Io
proibii i riti che Gaumata aveva introdotto, io ristabilii nello
Stato i sacri canti...».
“La Stampa”, 24
settembre 2006
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