Al Museo
Archeologico di Napoli la grandiosa collezione dei dipinti sepolti
dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C.
Museo Archeologico di Napoli - Amore e Psiche |
Grande impressione
suscitò il diffondersi, alla metà del Settecento, della notizia dei
primi occasionali ritrovamenti delle città sepolte dall’eruzione
del Vesuvio del 79 d.C. Gli scavi presto si intensificarono, e le
città della piana partenopea divennero la meta più ambita del grand
tour, esperienza di formazione considerata indispensabile dagli
artisti e letterati che accorrevano in Italia da tutta Europa. Quando
nel 1780, sei anni prima di Goethe, il giovane Canova visitò Pompei
ed Ercolano, la casa dei Vettii, degli Amorini e la villa dei Misteri
erano già state ritrovate, e si potevano ammirare nei siti
originali. Molti altri dipinti, ritagliati senza tanti riguardi dalle
pareti interamente decorate e incorniciati, erano entrati a far parte
della quadreria regale borbonica, costituendo il primo nucleo della
ricchissima raccolta del Museo Archeologico di Napoli.
La riapertura, dopo un
decennio di chiusura, delle quaranta sale della collezione di pittura
pompeiana, completamente ristrutturate, e la mostra dei dipinti
restaurati e riportati alla freschezza che avevano quando furono
riportati alla luce, offre l’occasione di rivivere le emozioni dei
viaggiatori che a partire dal Settecento vennero a Napoli, alla
ricerca delle sorgenti mediterranee della cultura europea.
Nel museo borbonico
privato di Portici, Canova ebbe la rara opportunità di vedere anche
la collezione Farnese, la più grande raccolta di sculture
dell’antichità, che dal prossimo settembre sarà anch’essa, dopo
un lungo intervallo, nuovamente esposta al Museo Archeologico di
Napoli. Ma della scultura classica fin dal Cinquecento si sapeva
abbastanza: la vera rivelazione fu la pittura. Il giovane scultore fu
grandemente colpito dalla bellezza di quegli affreschi dai colori
intatti, di grande espressività, profondità e luminosità, che
rivelavano un volto tutto nuovo del mondo antico, molto lontano
dall’ideale mascolino di "nobile semplicità e quieta
grandezza" teorizzato dal neoclassicismo del Winckelmann. Una
visione sublimata e ormai stereotipata dell’arte greco-romana, che
risultava completamente smentita dalla fantasiosa grazia, dalla
sensuale morbidezza e dal movimento delle immagini femminili
ricorrenti con grande frequenza negli affreschi pompeiani. Nelle
lussuose dimore di vacanza campane l’aristocrazia romana, lontana
dai severi obblighi ufficiali della vita politica e militare della
capitale, si lasciava andare alla propria sete di modi di vita più
raffinati, che nella Campania felix, la terra feconda che si
affaccia sul golfo della sirena Partenope, culla di arte, filosofia e
cultura greca, erano di casa da secoli. Mai come in questo caso
suonano vere le parole di Orazio: «La Grecia conquistata conquistò
il rozzo vincitore».
Ricollocate nel
suggestivo contesto di camere e triclini ricostruito per l’occasione,
possiamo finalmente vedere nuovamente le scene di amori e di
metamorfosi che sedussero i viaggiatori settecenteschi. Ecco gli
amori di Piramo e Tisbe, di Nettuno ed Anfitrite, di Zeus ed Io
trasformata in giovenca; ecco Polifemo, il feroce gigante monocolo,
innamorato di Galatea, il forzuto Eracle intenerito per Onfale,
Perseo che libera Andromeda dal mostro, e Narciso che volta le spalle
ad Eco specchiandosi nella fonte; ecco il pius Aeneas, il progenitore
di Roma devoto agli dei, che tiene tra le braccia Didone. E poi,
amorini cacciatori, giocatrici di astragali e ninfe danzanti col
corpo di botticelliana grazia appena velato, che Canova negli anni
seguenti ricreò a memoria - il regale divieto ai visitatori di
trarne schizzi era assoluto - «per solo studio e diletto», in
monocromi e in tempere dai colori vivacissimi.
Nel fondo rosso delle
pareti, colore dominante divenuto l’emblema della sontuosa pittura
pompeiana, l’artista vide lo stupefacente ciclo pittorico della
villa dei Misteri, con l’itinerario iniziatico della giovane sposa
che scopre l’immagine maschile, il fallo dionisiaco sul vaglio di
vimini, velato da un drappo color del vino. Non gli sfuggirono
certamente le scene che in altre dimore rappresentavano momenti della
favola di Amore e Psiche. La perturbante favola della fanciulla
salvata da Amore, oscurata dalla cultura patriarcale e razionale del
logos, circolava silenziosamente nel Mediterraneo trasportata
dalle immagini della pittura, un secolo prima di essere tradotta in
latino, da un’originale greco perduto, dall’africano Apuleio.
Giunto a Pompei, lo
scultore poco più che ventenne incontrò non la Gradiva, la
misteriosa giovane donna romana col capo velato che oltre un secolo
dopo avrebbe attraversato con passo leggero la träumerei di
Jensen, ma Psiche, la fanciulla nuda di sconvolgente bellezza vissuta
in un tempo lontano, in un paese lontano di cui non si ricordava più
il nome. Se ne innamorò, traendo da quell’incontro lo spunto per i
suoi due capolavori più celebri.
Quotidiano “Terra” 12
maggio 2009
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