«E un greve torpore le
pervade le membra: / di corteccia sottile si cinge il suo morbido
seno: / si risolvono in foglie i suoi capelli, e in rami le sue
braccia: / e il suo piede, che era tanto veloce, si ferma in inerti
radici»: così Edoardo Sanguineti traduceva e tradiva, come usava
dire, l’ovidiana metamorfosi di Dafne nel suo ultimo, postremo
libro di poesia, Varie ed eventuali. Versi amati,
nell’originale latino e nell’italiano del «tradimento», da
Fausto Curi che di Sanguineti è stato studioso di lunghissima
fedeltà.
A Curi si deve ora un
denso libro di critica letteraria, Il corpo di Dafne. Variazioni e
metamorfosi del soggetto nella poesia moderna (Mimesis), che
porta in esergo quei versi nel latino primigenio. Il libro muove da
una proposito ambizioso quanto suggestivo: analizzare le mutazioni
delle forme poetiche nella modernità occidentale a partire dalle
mutazioni del soggetto. In primo luogo, dunque, studia il fondarsi e
il mutare del soggetto nel testo. Soggetto come entità, corpo
sostanziale e sfuggente. Ingannevole, pronto al mascheramento,
all’abbandono di una forma in vantaggio di un’altra, sorprendente
e non conosciuta. Per realizzare il proprio intento, il libro di Curi
prima s’interroga sull’esistenza del soggetto, poi percorre la
letteratura in senso diacronico, anzi traccia preliminarmente una
Preistoria sul soggetto nella poesia greca e latina, per
procedere infine a incursioni puntuali in autori e testi dell’ampia
civiltà critica che gli appartiene: Baudelaire, Lautréamont,
Mallarmé, Rimbaud, Pascoli, Nietzsche, Freud, Marinetti, Pascoli,
Tzara, Breton, Eliot, Pound, Benn, Montale, Sanguineti e gli altri
Novissimi.
Chi ha familiarità con
il metodo e i temi d’indagine di Curi, ha la certezza e il piacere
di ritrovare, nel Corpo di Dafne, l’incedere della sua
riflessione intellettuale, i punti di riferimento suoi e del
Novecento più inquieto e innovativo. I capisaldi della modernità,
per dirla in una formula. Quelli che Curi ha interrogato con maggior
dedizione e tenacia in oltre cinquant’anni di lavoro critico, dalla
lucidità d’approccio di Ordine e disordine (1965), alla
solidità e alla ricchezza di implicazioni di Struttura del
risveglio. Sade, Sanguineti, la modernità letteraria (1991),
fino alle numerose sfaccettature del mito, al rapporto tra La
scrittura e la morte di dio (1996), alla dialettica tra Canone
e anticanone (1997), agli studi di estetica e di poetica degli
anni più recenti.
Ciò che è nuovo – e
come tale contribuisce a fondare l’importanza del Corpo di Dafne
– è il presupposto teorico, l’angolo di visuale che inquadra
(e verifica) la relazione tra soggetto e forme poetiche. Ed è una
novità che ci tocca da vicino, che riapre problematicamente il
Novecento (quel secolo troppo lungo, interminabile, agli occhi di
Sanguineti) con le avvisaglie ottocentesche che l’hanno preceduto,
i ritardi, e le sue focali scoperte, prima fra tutte la psicoanalisi
che sul soggetto e sulle sue componenti ha avuto e ha tuttora molto
da dire.
Nella riflessione teorica
che funge da premessa, Preludio, Curi riconosce l’assunto di
Benveniste – «è nel linguaggio e mediante il linguaggio che
l’uomo si costituisce come soggetto» –, cioè riconosce il
fondamento linguistico come unico valido e accettabile fondamento del
soggetto, e tuttavia non manca di chiedersi se sia sempre l’Ego a
dire «Ego», o se non possa «accadere che l’Es, che non ha
facoltà di parola, riesca a costringere l’Io a parlare per suo
conto». Questo è, a ben guardare, ciò che più attrae l’attenzione
di Curi, insieme al rapporto – intanto lacaniano – tra inconscio
e linguaggio, e ai segni preponderanti dell’Es, al fatto che
«l’uomo è vissuto dall’Es», per stare a una formula di
Groddeck.
Su questo si accampa –
ed è incontenibile tentazione d’analisi – il rapporto tra
l’autore di un testo e chi in quel testo dice «io», e le sue
varie e conseguenti maschere, volontarie o meno che siano. La prima
sezione del volume, la Preistoria, discute e mette in luce –
via Curtius, Snell, Vernant, Veyne, Canfora, Gentili, Foucault,
Traina – l’espressione del soggetto nella poesia classica, ovvero
la differenza tra alcune manifestazioni pur forti della soggettività
nella poesia antica e l’affioramento dell’energia psichica nella
soggettività moderna, assai distante nei modi e nei nuclei
d’individualità. L’Interludio non è tanto una sezione di
raccordo e introduzione al corpo maggiore del volume dedicato alla
Storia, quanto piuttosto una breve ricognizione sui segni
d’insorgenza della modernità. Intanto il «male» che ha
consentito alla letteratura «straordinarie possibilità conoscitive»
sì da coincidere spesso col nuovo e da configurarsi «come
profondità e eccezionalità della vita psichica e sociale, come
verità eccedente, abnorme, scandalosa». E poi il «brutto»: la
dissacrazione del corpo femminile, il rovesciamento di un modello
estetico millenario, l’uso del corpo nudo – si pensi a Pubertà
di Munch – per svelare una condizione di apprensione e di disagio,
o l’esibizione dell’osceno – le pose deturpanti e quasi
scorticate, le «invereconde e grossolane nudità di Schiele» –,
vale a dire di ciò che la borghesia vorrebbe occultato e che invece
diventa, suo malgrado, «lo scandaloso incanto del visibile».
Se i capitoli sul
Montaggio e sulla Funzione della critica, oggi sono il
perno ideologico del libro, il suo centro militante con l’appello a
una critica «soggettiva e di parte» che scenda benjaminianamente
armata nella «battaglia letteraria», la sezione storica è ciò che
rende non eludibile, urgente quell’appello. È d’esempio la
capacità di sorvegliare severamente la propria adesione all’oggetto
di studio – ché di autentico affetto a volte si dovrà parlare –
e insieme è dichiarazione estetica, e politica, la schiettezza
lampante dell’insistenza su alcuni nuclei di ricerca. L’indagine
sul soggetto significa, per Curi, studio della parola inconscia e
insieme meditazione su quello «strumento potente» che è la parola,
teste Freud. Les Fleurs du mal sono «l’estrema
manifestazione di un soggetto poetico preso profondamente di sé ma
tutt’altro che indifferente al mondo, incantato e atterrito dalla
propria vita psichica»; in Rimbaud «l’Io è in grado di provocare
l’insorgenza dell’“altro” e di ‘coltivarlo’, cioè di
svilupparlo»; Pascoli, che da Curi ha ricevuto pagine sensualissime,
traveste doppiamente, «poeticamente e senza residui la propria
tormentosa vita psichica». Il soggetto dionisiaco di Nietzsche è
«una compresenza di impulsi»; Marinetti sostituisce il soggetto con
la materia; e se col montaggio Ejzenštein aveva rotto «l’unità
della forma» Breton rompe «l’unità del senso». In modi diversi
i Novissimi riducono l’io: Giuliani «metrica adiuvante»,
Sanguineti e Balestrini con parole d’altri: l’uno montando vita
psichica e «museo linguistico», l’altro con illimitato e
ri-significante azzeramento; Pagliarani facendo convivere diegesi e
mimesi; Porta con una coinvolgente «espansione dell’Es».
L’intento ermeneutico
non è disgiunto, in Curi, da quello didattico. Un libro come il
Corpo di Dafne può dare senso nuovo e spessore al rapporto –
ancora possibile – tra maestro e scolari (come Curi con affetto
chiama gli allievi). È un libro pieno di Cose, questo suo ultimo,
materialista nell’attenzione alla fisicità (sensualità, anche)
del testo, e alle sue ossessioni. Mentre guarda alle metamorfosi del
soggetto è ricco di altre notizie, generoso di citazioni che non
cessano di essere illuminanti, di suggerimenti critici altri,
manifesti e indiretti.
“alias talpa – il
manifesto”, 12 febbraio 2012
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