«I Romani sono stati i
primi globalizzatori», osservava non molto tempo fa Pierre Legendre.
A loro, dunque, il regno, la potenza e la gloria, come si rallegrava
Plinio il Vecchio, naturalista di lingua latina nato nel 23 dopo
Cristo, con l’entusiasmo di un Jacques Attali in toga e sandali:
«Chi non crede, in effetti, che, unendo il mondo, la grandezza
dell’Impero romano abbia fatto progredire la civiltà, grazie agli
scambi commerciali e alla diffusione di una pace felice, e che tutti
i prodotti, anche quelli che prima erano sconosciuti, non abbiano
visto il loro uso generalizzarsi?». È il XVI libro della Storia
naturale, dedicato alla vigna, al vino e alla vinificazione, che
Plinio apre così, su un panorama di una prima mondializzazione
felice.
Il commercio del vino era
una pratica molto antica nel Mediterraneo. Dopo la fine della
Repubblica e l’inizio dell’Impero, l’Italia ne esportava tanto
quanto ne importava. Molto presto, mercanti e agronomi presero
l’abitudine di classificare i vini distinguendone l’origine. Alla
fine del II secolo avanti Cristo, si conveniva sul fatto che la
qualità di un vino dipendeva più dal terroir (territorio) e
dal paese d’origine (patria) di produzione che dal modo di
prepararlo – essendo quest’ultimo importante soprattutto
nell’elaborazione di innumerevoli vini corretti, profumati e
aromatizzati per ritoccare una coltura pigra e una vinificazione
difettosa. Plinio evoca i grandi vini italiani, gallici e spagnoli,
poi i vini greci, asiatici ed egiziani, la cui consumazione era un
segno distintivo a Roma. Non erano ancora stati inventati i crus
bourgeois (prestigiosi vini della zona bordolese del Médoc,
ndt), ma si apprezzavano già i vini d’oltremare. Il naturalista si
rammarica di questa tendenza. A proposito del vino, egli prende in
considerazione i mali della moda e la minaccia che l’estensione del
commercio fa pesare sull’arte degli uomini, soprattutto su un’arte
così delicata come quella di fare il vino.
«Un tempo, essendo gli
imperi e gli uomini d’ingegno confinati del tutto nei propri
territori, a causa della mancanza di occasioni si era costretti a
coltivare le facoltà dell’animo (…). L’estensione del mondo e
l’ampiezza delle ricchezze furono causa di decadimento per le
generazioni successive». In materia di viticoltura, Plinio deplora
le conseguenze pratiche di questo cambiamento di costumi: «La nostra
epoca ha mostrato solo pochi esempi di perfetti vignaioli».
Per comprendere la
posizione del vino nell’economia globalizzata, risulta sempre
inquietante ricordarsi di ciò che osservava il naturalista romano al
momento di una prima unificazione del mondo attorno al Mediterraneo.
Ed è stupefacente trovare in lui il testimone antico di una
«battaglia del vino» che è nostra oggi più che mai: vini naturali
contro vini truccati, vini di territorio contro vini di vitigno, vini
artigianali contro vini commerciali, vini di qui contro vini di
altrove.
Non si beveva soltanto
vino all’epoca romana. Ma si capiva già che non era una bevanda
come le altre; si sapeva che esistevano dei vini più gradevoli di
altri e che «due vini provenienti dalla stessa cuvée»
potevano essere differenti, «a causa del recipiente o di qualche
circostanza fortuita»; ci si stupiva dell’importanza del terroir;
si distinguevano i vini del Piceno, di Tivoli, della Sabina, di
Aminea, Sorrento, Falerno; si bevevano anche birra e idromele, ma si
riconosceva al vino privilegio e mistero.
Nato dalla convergenza di
un vitigno (o di un assemblaggio) particolare, di un territorio dato,
dell’arte di un vignaiolo e delle condizioni climatiche
dell’annata, un vino è sempre il fiore e il frutto di un
equilibrio unico e non riproducibile. Gli antichi se ne stupivano, la
società industriale ci perde la testa. Per le multinazionali
dell’agroalimentare che amano imporre una bevanda universale sul
mercato, un alcol di cereali – whisky, vodka o gin – sarebbe più
adatto: nessun obbligo geografico di produzione, nessun problema di
approvvigionamento di materia prima, nessuna angoscia meteorologica,
nessuna difficoltà di adeguamento dell’offerta alla domanda. È
probabile che George Orwell ne abbia tenuto conto facendo del «gin
della vittoria» l’unica bevanda alcolica disponibile nell’universo
totalitario del suo romanzo 1984. Un liquore acido e
trasparente ma consolatore che Winston Smith beve alla fine del
libro, dopo aver accettato il potere del Grande fratello.
Il vino ha
l’inconveniente di porre un problema territoriale. La tenuta
Romanée-Conti è di 1,8 ettari e produce seimila bottiglie all’anno.
Per un gruppo mondiale che questo gioiello del vino di Borgogna
farebbe sognare, una tale restrizione della produzione è
particolarmente vincolante. Piuttosto che di un appezzamento cinto da
mura – fosse anche il più prestigioso del mondo –, ci si
concentrerà dunque sull’acquisto di un marchio. Per esempio, nella
regione della Champagne, dove nessuno si interroga sull’esplosione
nella quantità dei prestigiosi Krug o Dom Pérignon dopo il loro
acquisto da parte di Louis Vuitton-Moët Hennessy (LVMH),
incontestabile leader mondiale del lusso. Educatamente, la stampa
specializzata parla di «approvvigionamenti d’eccezione». Un
marchio ha del resto il vantaggio di servire nel mondo intero.
Vedrete Chandon e i suoi effervescenti prodotti in Argentina,
California, Brasile, Australia, ma anche in India e Cina. In
Champagne, si producono trecentocinquanta milioni di bottiglie
all’anno. La domanda della nuova classe media mondiale in «bolle»
è dieci volte superiore. Ciò che il territorio non può dare, lo dà
il marchio approvvigionando il mercato di sparkling wines (spumanti).
Siamo onesti: questi Chandon tecnologici, di laboratorio, sono
perfettamente bevibili, addirittura piuttosto buoni. Certo non vi si
trova traccia di ciò che Francis Ponge chiamava il «segreto del
vino». Ma come sarebbe possibile su così grande scala? Il segreto
del vino ha in sé qualcosa di fragile e di mutevole che non si
accorda con la globalizzazione degli scambi. Affinché il vino sia
meno fragile, vogliono che sia ben «protetto» dai solfiti, come
reclamano i critici Bettane & Desseauve, questi Stanlio e Olio
del discorso enologico dominante; affinché sia meno mutevole, i
laboratoristi pazzi della viticoltura industriale dispongono di tutta
una gamma di prodotti cosmetici.
Nel suo film documentario
Mondovino, presentato al Festival di Cannes nel 2004, il
regista americano Jonathan Nossiter ha mostrato che il vino era
diventato un prodotto come un altro nella società della concorrenza
totale. La tecnoscienza economica globalizzata ha esteso il suo
dominio su tutti i vigneti del mondo per mezzo dei marchi. Nelle
cantine piastrellate del Médoc, di Mendoza (Argentina) e della Nappa
Valley (California, Stati uniti), si inseminano i mosti, si corregge
l’acidità dei succhi, si colora o si decolora, si elaborano e si
filtrano i vini prima di commercializzarli in bottiglie bordolesi con
un’etichetta internazionale. Allo stesso tempo, vi è qualcosa di
irriducibile nella logica del territorio. Il cineasta lo ricorda
filmando dei vignaioli ribelli nei Pirenei, in Sicilia e in
Argentina. Delizioso paradosso della globalizzazione: è in Brasile,
Cile, Uruguay, Grecia, Georgia, Serbia, Giappone e Cina che un domani
appariranno altri artigiani renitenti agli ordini dell’agroindustria.
Perché il movimento dei vini naturali, che acquista ogni anno nuovi
domini, diventa anch’esso globale e mondiale. Come all’epoca di
Plinio il Vecchio, una ruvida battaglia oppone quelli che considerano
il vino come un prodotto agricolo e quelli che lo vedono come un
prodotto commerciale. Niente è cambiato, se non in termini di scala,
con l’apparizione dell’industria, lo sviluppo del marketing,
l’apertura infinita dei mercati.
Esistono certo dei Dottor
Stranamore del capitalismo totale che sognano un vino unico, così
come vorrebbero un’acqua unica, demineralizzata per cancellare ogni
traccia della sua origine, poi rimineralizzata e venduta nei cinque
continenti. «Ciò che vogliono, è cancellare la memoria del gusto»,
ci ha confidato una volta Marcel Lapierre, apripista improvvisato di
una guerriglia gioiosa condotta contro i vini tristi nel Beaujolais.
Il loro potere nel mondo ci inquieta, la loro volontà di potenza ci
allarma, i loro obiettivi ci terrorizzano. Allo stesso tempo,
detestiamo questi esseri senza patria né memoria capaci di far
dimenticare ciò che osservava Plinio il Vecchio: «Ognuno tiene al
suo vino e, ovunque si vada, è sempre la stessa storia».
“Le Monde diplomatique
– il manifesto” - Ottobre 2013
Nessun commento:
Posta un commento