Ho diffuso nei giorni
scorsi un testo di Eros Barone, che con solide argomentazioni
sottolineava come anche l'Islam abbia alimentato le radici
dell'Europa moderna. L'articolo che segue – da “La lettura” del
“Corriere della sera” - è di Alessandro Zironi, che insegna
Filologia germanica e Letterature nordiche all'Università di Bologna
e che spiega, ragionando di barbarie e opportunamente parlando di
“radici barbariche”, come l'identità d'Europa sia
irrimediabilmente “ibrida”. Sarebbe bene prenderne atto, per
sottolineare il valore permanente dell'ibridazione come continuo
arricchimento dell'identità europea. (S.L.L.)
Tanto si è discusso e si
discute sulle possibili radici cristiane o greco-latine dell'Europa.
A nessuno si è palesato il dubbio che le nostre radici siano invece
barbariche? Questo suggeriva provocatoriamente Jean-Jacques Aillagon
aprendo il catalogo della mostra veneziana Roma e i barbari
(Skira, 2008).
Gli europei sono
ascrivibili d'ufficio al gruppo dei «balbuzienti» (tanto,
significa, in greco, barbaroi) o, ancor peggio, vanno
annoverati tra le fila dei selvaggi e primitivi, come vuole
l'ampliamento semantico del termine? L'accezione negativa della
parola barbaro è quella corrente. Gettiamo un rapido sguardo
al suo uso contemporaneo: si scopre che in un talk-show televisivo si
conducono «interviste barbariche», cioè provocatorie, disinibite,
al di fuori delle regole usuali del giornalismo. Oppure si pensi al
film Le invasioni barbariche (regia di Denys Arcand, 2003), in
cui si rappresenta la fine di un'epoca nei suoi valori portanti,
schiacciati dal caos emotivo ed etico in cui la vita dell'individuo
precipita. Solo qualche giorno fa, il presidente francese François
Hollande denunciava a Timbuctù la «barbarie» perpetrata sui beni
culturali del Mali.
In altra direzione si
muovono invece gli studi storiografici: quelli più avveduti, fra i
quali ricordo i lavori di Walter Pohl, stanno infatti spostando il
baricentro semantico del termine «barbaro» da una connotazione
profondamente e tradizionalmente negativa a un uso più neutrale, ove
con barbarico si intende definire un periodo della storia d'Europa,
quello tardo-antico ed alto medievale. Tempi barbarici
(Carocci, 2012), è il titolo di un recente volume di Stefano
Gasparri e Cristina La Rocca: in esso il confine fra civiltà e
barbarie, fra dominatore e dominato non è poi così netto. Queste
recenti indagini storiche sfumano anche il concetto di assimilazione
con cui un tempo si intendeva l'assorbimento delle masnade barbariche
all'interno della civilitas romana (e bizantina) ereditata e
salvaguardata poi dalla Chiesa.
In definitiva, barbari,
alle soglie dell'età medievale, lo sono un po' tutti, al di là di
denominazioni etniche spesso fasulle alle quali una tradizione
storica di matrice ottocentesca nazionalista ci ha abituati: Goti,
Longobardi, Burgundi, Franchi, Suebi e, ovviamente, non possono
mancare loro, i barbari per antonomasia, i Vandali. Queste genti,
però, si muovono attraverso l'Europa non come corpi etnici
impenetrabili a influenze esterne, ma raccolgono e accolgono
individui e gruppi nei quali di volta in volta si imbattono: Greci,
Romani, Celti, popoli delle steppe, in una parola quel melting pot
che darà poi vita agli europei. In Italia tutti parliamo un po' in
longobardo o in gotico. Molto spesso non lo sappiamo neppure. Chi non
pronuncia, almeno una volta al giorno, la parola schiena,
oppure guancia o, piuttosto, pensa che occorrerebbe arredare
nuovamente la cucina in cui mangiare una zuppa magari
riscaldata nel microonde? Parliamo ostrogoto? Finalmente possiamo
rispondere: «Sì!». Per non dire dei Longobardi e Franchi in cui ci
imbattiamo scorrendo i campanelli di ogni condominio: tutti coloro
che hanno il cognome che termina in -ardi possono intraprendere una
bella ricerca genealogica e sperare di arrivare a Carlo Magno; chi,
invece, all'anagrafe, è registrato come Sighinolfi o Alderissi, può
invece immaginare di essere parente di re Alboino.
Peccato, però, che
l'indagine genealogico-etnica naufragherà, scoprendo ben presto che
la discendenza non sempre può vantare antenati di pura schiatta
romana o barbarica. Valga qualche esempio: a Varsi (Parma), nel 735
vive il soldato e vir honestus Berto (quanto mai longobardo)
il cui figlio prende però il nome latino di Antonino; a Lucca, di
contro, nel 764, un babbo Vincentius,
ha un figlio dall'altisonante nome longobardo Sichipert. Viene da
pensare allora che l'idea di barbaro sia più una costruzione
culturale moderna, anche un po' ammuffita, piuttosto che una realtà
dei fatti. Se, allora, dal barbaro non possiamo più smarcarci
etnicamente e linguisticamente, probabilmente tutta la questione va
addebitata allo stereotipo che si associa alla sua immagine. Come in
tutti i clichés si raccolgono anche qui rifiuti e pulsioni,
inconfessabili adesioni, convinte appartenenze. Già lo storico
romano Tacito, alla fine del I secolo d. C., raffigura le genti che
abitano al di là del Reno come uomini e donne che prediligono il
bosco alla città, la casa isolata all'agglomerato, che vivono casti
sino al matrimonio: un'idea di purezza di costumi a contatto con una
natura primigenia che tanto infatuerà l'immaginario europeo.
L'europeo si innamora
dell'Ultima Thule, dell'Islanda, isola di ghiacci e fuoco in cui
andare ad alimentare il sogno delle origini, ultimo, incontaminato
luogo in cui recuperare ciò che di sano vi era nell'età dei
barbari. È la ricerca dell'estremo, magari da percorrere col
fuoristrada, addentrandosi nei tratturi più interni e accidentati
dell'isola. I sogni di molti viaggiatori alla ricerca della terra dei
vichinghi si appagano anche così, sentendo una giovane donna, ai
piedi della collina sacra di Helgafell — come è capitato al
sottoscritto — vantarsi di discendere da Guðrún Ósvífrsdóttir,
tremenda virago protagonista della Laxdæla Saga, forse vissuta alla
fine del X secolo. Tanta fortuna, anche letteraria, del Nord è
probabilmente legata a questa visione così radicata nel nostro
immaginario di un mondo ancora intatto, arcaico, scevro dalle
corruzioni della società industriale e dunque barbarico perché
ancora puro e incontaminato. Con barbarie, perciò, non si intende
più la distruzione della civiltà, ma piuttosto la volontà di
recuperare il primigenio.
Non siamo molto distanti
dalle speculazioni romantiche, che nelle genti germaniche, celtiche o
slave cercavano di individuare i popoli fondanti del proprio ethnos,
anche se, va detto, il legame terra-ethnos è ben più antico
e si ritrova già in alcuni testi medievali. Molto del recente
folclore a uso turistico (talvolta politico) che si spende nella vana
ricerca delle origini approda al cosiddetto mondo barbarico. In esso
si sfoggiano fittizie ricostruzioni che poco però hanno a che vedere
con quello che gli archeologi medievali pazientemente portano alla
luce.
Un buon viatico in questo
percorso fra gli stereotipi barbarici può essere raccolto anche
nelle evidenti affinità riscontrabili fra molti raduni e fiere in
costume, più o meno casarecci — di cui anche l'Italia si sta
popolando — e la rappresentazione che dei barbari propone una certa
produzione fumettistica, che restituisce graficamente ciò che
l'immaginario collettivo si aspetta da quella terra barbarica: natura
estrema, una mascolinità esibita da uomini virili, spesso villosi e
muscolosi, dei quali si intuiscono i successi sessuali e la
consuetudine alle grandi bevute.
La donna è, di contro,
figura servile, a uso e consumo del maschio, una Barbie impiantata
nel corpo barbarico del medioevo nordico. Se non è accondiscendente
e devota ai suoi doveri muliebri, diviene elemento di disturbo
nell'ordine cosmico, spesso strega, talvolta femme fatale,
comunque da eliminare.
Lo stesso avviene nei
numerosi videoclip di brani musicali connessi al cosiddetto pagan
metal o viking metal, in cui sono proposti i medesimi
ruoli sociali: l'uomo combatte, la donna venera il maschio e
custodisce la comunità. Basti prendere visione di qualche filmato
dei Týr, gruppo di buon successo e capacità musicali, o dei Menhir,
anch'esso di notevole diffusione e discreta bravura. Entrambe le band
mettono in musica testi medievali, in lingua originale: ballate delle
isole Fær Øer i Týr; il Carme di Ildebrando di età carolingia i
Menhir.
Il mondo barbarico si
recupera anche attraverso l'uso della lingua antica, quasi a
suggellare un passato culturale che nulla ha da patire nel confronto
con la tradizione musicale in lingua latina. Infatuazioni della
musica gregoriana e dell'ars antiqua invadono anche gli
arrangiamenti delle compilation metal, ove tutto si mescola e
si confonde. Un'assimilazione senza vincitori né vinti in cui la
differenza è ricchezza. Che, in fondo, questa sia la barbarie
dell'Europa? Sapere di essere uguali, ma allo stesso tempo diversi,
uniti ma pure divisi, fusi ma distinti? Probabilmente l'immagine più
vera della barbaritas è il medaglione d'oro di Teodorico, re
degli Ostrogoti, rinvenuto nei pressi di Senigallia nel 1894. Il re
goto, che parlava greco e latino, sceglie di farsi rappresentare alla
maniera romana con la tradizionale vittoria alata, senza rinunciare
tuttavia al lungo crine e al baffo germanico: non si sa più dove
finisca la romanitas e inizi la barbaritas. Che sia
questa l'icona più efficace per rappresentare la nostra ibrida
«europeità»?
“Corriere della Sera -
La Lettura”, 10 febbraio 2013
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