José e Pilar Donoso |
BUENOS AIRES - Pilar non
ha mai sopportato di essere la figlia di un genio della letteratura.
Suo padre lo sapeva anche prima che lei imparasse a leggere. Lo aveva
visto così chiaramente che scrisse un libro in cui immaginava la
storia di una bambina che trova i diari del padre e scopre di essere
stata adottata. Scopre che suo padre è gay, paranoico e ubriacone.
Scopre che dietro alla foto sorridente della sua famiglia c’è uno
scarabocchio incomprensibile e poi si uccide. Così si scrisse e cosi
fu. Suo padre, Josè Donoso, era stato troppo intelligente anche in
questo.
Pilar ha preso il
sonnifero e se n’è andata, abbracciata alla morte lenta e
silenziosa degli stanchi. «Ha guardato le pastiglie che teneva nella
palma quasi fossero monete barbariche, da pagarsi come pedaggio
attraverso un ultimo, astruso confine» ed è partita, come altrove
disse d’Arturo un altro monumento all’inchiostro su bianco, Elsa
Morante.
Quant’è fonda la
desolazione dei suicidi? Lo sa solo chi ha seguito il consiglio di
Camus e Kurt Cobain, come ha fatto quella ragazza splendida nella
forma e nella sostanza, che dalla vita ha voluto tutto meno che la
letteratura e il suo cognome e che finì per usare il suo nome e la
sua lingua scritta per difendersi da entrambi.
Biglietto per il
silenzio
Spostando lo spesso
velo è il titolo dell’unico libro che scrisse la stessa mano
che ha pagato ieri il suo biglietto per il silenzio. Non è una
velleità letteraria, ma un testo autobiografico basato sui diari del
padre, intitolati Lucertola senza coda e pubblicati quest’anno
in Italia da Cavallo di Ferro. Il libro che Pilar ha scritto perché
«la smettano di farmi domande su di lui», dopo tutto quello che è
stato detto sul controverso autore di una prosa unica, che fu amico
di Gabriel Garcia Marquez e Mario Vargas Llosa. Ma anche dopo che
l’importante quotidiano cileno La Tercera dedicò un
vergognoso speciale a puntate sull’omossessualità di Josè Donoso.
Uno scoop da figli di puttana con un terzo d’anima in sconto
in edicola e il resto già regalato in volantini sgualciti.
Pilar era rimasta sola a
28 anni. Il 7 dicembre del 1996 il Cile perdeva il padre della
cosiddetta corrente del Boom Latinoamericano, uno che aveva
rinunciato alla borghesia per vivere adolescente
con i pescatori del sud e
scrivere un libro sui nobili di Santiago del Cile. Uno che si era
dichiarato esiliato della dittatura di Pinochet, nonostante fosse già
in Spagna da anni, perché aveva voglia di viaggiare, e che aveva
saputo chiudere la condanna al regime militare in una metafora
coerente e bella (Marulanda,la dimora di campagna, Feltrinelli
1985). Pilar, invece, perdeva un padre "frocio", bugiardo a
fin di bene, maledettamente intelligente e bravo a scrivere, ma che
giudicava pessimo come genitore ed egocentrico come uomo. Due mesi
dopo poi, il Cile restava senza una delle cento cittadine qualunque
che muoiono ogni giorno, mentre Pilar perdeva anche la madre e
restava completamente orfana.
Quando glielo chiesero,
disse che non le importò nulla. Era una tipa orgogliosa. Per
scrollarsi di dosso il mantello dei Donoso, si era sposata a 19 anni.
Con ironia, ricordava che la sua fuga da casa era finita a due quarti
di nobilità di distanza: il marito era un cugino, di cognome ancora
una volta Donoso, come un serpente urovoro, che si morde la coda e si
avvelena solo.
Chi siamo se scopriamo da
grandi che i nostri genitori non sono i nostri genitori? Chi siamo se
scopriamo che nostro padre non è nostro padre e che il suo amore per
nostra madre non è uguale all’amore che non fa dormire, ma è
l’amore degli amici? Siamo sempre gli stessi. Perché noi siamo
solo ciò che ricordiamo d’esser stati e ci inventiamo d’essere.
Reiterare la parola
fino al mito
Il sangue di Pilar Donoso
non era lo stesso di Josè Donoso, già che era stata adottata,
eppure, lei ha saputo scrivere un capolavoro della letteratura
cilena, che va in biblioteca subito dopo quelli del padre, secondo
per ordine alfabetico, pari per quel di merito.
Fu un libro che volle
soprattutto far smettere di parlare, ma che con la notizia del
suicidio del suo autore otterrà proprio l’effetto contrario:
reiterare la parola fino all’esasperazione, fino al mito.
D’altronde, il segno mitologico ha marcato la fronte dei Donoso da
tempo. Oltre al manoscritto mai pubblicato in cui Josè Donoso
prevede la tragica sorte della figlia, c’è L’osceno uccello
della notte (Bompiani, ’97), che conquistò il cuore della
critica, poi, il ritratto scritto dalla moglie, con un libro
sull’esperienza di esser teste di ponte di una corrente letteraria
dal punto di vista del salotto familiare.
Addirittura, si dice che
Josè sul letto di morte volle che gli si leggessero poesie, come
ultimo ingrediente segreto di una follia a parole, troppo bella per
non essere raccontata, quanto troppo vera per essere sopportata.
Pilar in spagnolo vuol dire pilastro, ma la colonna che resiste alla
tempesta, magari, cede alla consunzione della goccia.
Correr el tupido velo
(Spostando lo spesso velo) resta la sua unica, tormentata
opera letteraria. Un libro che per le rivelazioni, i giudizi, le
riflessioni non proprio tenere sul grande scrittore cileno e sul
rapporto che la legava a lui ha suscitato aspre polemiche. E
soprattutto le è costato la rottura dei rapporti con la famiglia
Donoso. Incluso quindi il marito, ovvero il cugino, Sebastian, e i
figli che sono rimasti a vivere con lui.
“il manifesto” 24
novembre 2011
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