Andrea Zanzotto |
La poesia di Zanzotto
emana una forza di fascinazione che provoca in chi legge il senso
dell’enigma. Spessori stratificati, sovrapposizione dei
significati, iper-glossismi producono un effetto di intensificazione,
di accelerazione; si avverte una sorta di eccesso, vitale e radicale.
Viene da pensare agli ultimi canti del Paradiso che
raggiungono il mistero e precipitano nell’angoscia del limite
varcato. Ma là dove Dante definisce la poesia «latte delle Muse»,
sostanza nutritiva e continua, di una continuità essenziale,
Zanzotto invece, procede per rotture, per interruzioni – rotture
sintattiche, insistenza sulle parole vuote (congiunzioni, particelle
prive di valore semantico).
Mentre in generale la
poesia è fondata, come in Petrarca (per Zanzotto Petrarca è la
poesia), sulle parole piene, soprattutto sul nome, e si sviluppa come
emanazione del nome, come riflessione a partire dal nome, in Zanzotto
invece le parole vuote hanno una forza quasi ossessiva e la poesia
nasce appunto, a partire da questa incongruenza. Il poeta rompe «la
dolcezza e l’armonia del linguaggio»,ma è appunto così che la
poesia avviene; e dà l’impressione sorprendente di giungere alla
sua essenza, «fino all’osso».
Rispetto a questa
esperienza, molte altre sembrano fermarsi nei sobborghi, in una sorta
di quartiere residenziale. In Zanzotto, accanto alle poesie, si
leggono testi sui generis, «tentativi di esperienze poetiche,
o poetiche-lampo». L’autore pensa come dall’esterno, da
entomologo e cerca di afferrare i costumi di una specie strana, la
poesia al lavoro, popolo di api indaffarate, misteriose. Poeta è
allora colui che fa «tentativi», mosso da una pulsione che viene da
lontano: dall’infans, dal bambino che non parla, che inizia
a vagire.
La poesia nasce e si
situa dunque, nei paraggi del vagito. Definizione irresistibile
questa: vagito, aspirazione o pulsione poetica, appartengono al
«piacere del principio», che precede di poco il «principio di
piacere» freudiano. Si giunge per questa via, alla definizione di
una cesura nel cuore dell’esperienza poetica. Sensazione di una
mancanza, di un vuoto che soltanto «le poetiche lampo» sono in
grado di afferrare e di esprimere. La micropoetica assomiglia a una
sorta di asse sul vuoto, un salto verso l’impensabile verità del
testo poetico, in forma di corto circuito. E il testo sotto gli
occhi, è forse soltanto la traccia di un evento centrale ormai
scomparso.
Zanzotto ricorre a due
ulteriori metafore, «il miniorgasmo» nascosto all’interno della
poesia e – ironico e derisorio – «lo starnuto», gesto
automatico e necessario ma che trattiene in se qualcosa di infantile,
di maldestro, di «maleducato». Nel gesto poetico occorre dunque
riconoscere quella goffaggine infantile che si esprime con
l’interruzione. L’interruzione in effetti, non è provocazione
contro «il latte delle Muse» ma, al contrario, strumento col quale
Andrea Zanzotto si avvicina ancora di più, alla sorgente stessa del
poetare.
“il manifesto” 9
ottobre 2011
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