4.2.15

La poetica di Andrea Zanzotto (Jacqueline Risset)

Andrea Zanzotto
La poesia di Zanzotto emana una forza di fascinazione che provoca in chi legge il senso dell’enigma. Spessori stratificati, sovrapposizione dei significati, iper-glossismi producono un effetto di intensificazione, di accelerazione; si avverte una sorta di eccesso, vitale e radicale. Viene da pensare agli ultimi canti del Paradiso che raggiungono il mistero e precipitano nell’angoscia del limite varcato. Ma là dove Dante definisce la poesia «latte delle Muse», sostanza nutritiva e continua, di una continuità essenziale, Zanzotto invece, procede per rotture, per interruzioni – rotture sintattiche, insistenza sulle parole vuote (congiunzioni, particelle prive di valore semantico).
Mentre in generale la poesia è fondata, come in Petrarca (per Zanzotto Petrarca è la poesia), sulle parole piene, soprattutto sul nome, e si sviluppa come emanazione del nome, come riflessione a partire dal nome, in Zanzotto invece le parole vuote hanno una forza quasi ossessiva e la poesia nasce appunto, a partire da questa incongruenza. Il poeta rompe «la dolcezza e l’armonia del linguaggio»,ma è appunto così che la poesia avviene; e dà l’impressione sorprendente di giungere alla sua essenza, «fino all’osso».
Rispetto a questa esperienza, molte altre sembrano fermarsi nei sobborghi, in una sorta di quartiere residenziale. In Zanzotto, accanto alle poesie, si leggono testi sui generis, «tentativi di esperienze poetiche, o poetiche-lampo». L’autore pensa come dall’esterno, da entomologo e cerca di afferrare i costumi di una specie strana, la poesia al lavoro, popolo di api indaffarate, misteriose. Poeta è allora colui che fa «tentativi», mosso da una pulsione che viene da lontano: dall’infans, dal bambino che non parla, che inizia a vagire.
La poesia nasce e si situa dunque, nei paraggi del vagito. Definizione irresistibile questa: vagito, aspirazione o pulsione poetica, appartengono al «piacere del principio», che precede di poco il «principio di piacere» freudiano. Si giunge per questa via, alla definizione di una cesura nel cuore dell’esperienza poetica. Sensazione di una mancanza, di un vuoto che soltanto «le poetiche lampo» sono in grado di afferrare e di esprimere. La micropoetica assomiglia a una sorta di asse sul vuoto, un salto verso l’impensabile verità del testo poetico, in forma di corto circuito. E il testo sotto gli occhi, è forse soltanto la traccia di un evento centrale ormai scomparso.
Zanzotto ricorre a due ulteriori metafore, «il miniorgasmo» nascosto all’interno della poesia e – ironico e derisorio – «lo starnuto», gesto automatico e necessario ma che trattiene in se qualcosa di infantile, di maldestro, di «maleducato». Nel gesto poetico occorre dunque riconoscere quella goffaggine infantile che si esprime con l’interruzione. L’interruzione in effetti, non è provocazione contro «il latte delle Muse» ma, al contrario, strumento col quale Andrea Zanzotto si avvicina ancora di più, alla sorgente stessa del poetare.


“il manifesto” 9 ottobre 2011

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