Ho rinvenuto la riflessione che segue, di Franco Fortini, proprio mentre tra me e me piangevo le sorti della nostra letteratura e della nostra lingua. Mi è sembrato venire a proposito. (S.L.L.)
In un congresso palermitano, uno
scrittore sovietico, sollecitato a dire la sua sui movimenti
pacifisti, ha dichiarato che le forze armate del suo paese non
difendono soltanto il suolo della patria e le sue istituzioni ma
anche la sua letteratura. Ecco una verità che dimentichiamo
volentieri, nella illusione che Dante o Leopardi si difendano da
soli. L'italiano è assalito dal di dentro, nei nessi sintattici,
nell'ordine della frase, nel sistema dei valori stilistici. Scrivere
in una lingua che ha i segni della morte in volto non è divertente
anche se è un buon esercizio di stile. Vent'anni fa avevo pensato
seriamente ad emigrare e a scrivere in francese o in inglese. Ma
sarebbe stato comunque un pessimo francese, un pessimo inglese.
Meglio sia un pessimo italiano, infeltrito, inamidato. Meglio aver
veduto, anzi vissuto come una malattia, che cosa è stato fatto (che
cosa abbiamo fatto) delle campagne, delle città e di noi.
da Vecchio e nuovo (gennaio '82) in Insistenze, Garzanti, 1985
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