Dall'alto Giuseppe Prezzolini e Indro Montanelli |
Fra le tante storie
singolari di questo fine secolo, bisognerà annoverare anche la
notizia della prossima pubblicazione di un giornale intitolato “La
voce” da parte di Indro Montanelli, estromesso da “Il
giornale nuovo”, da lui stesso fondato nel 1974. Ora si dà il caso
che “La voce” sia anche
il titolo di un famoso settimanale fondato e diretto da Giuseppe
Prezzolini fra il 1908 e il 1913, che fu organo, come si disse,
dell'«idealismo militante», strumento per la creazione di una nuova
classe dirigente, al tempo stesso antisocialista e antigiolittiana.
Il riferimento è senza dubbio intenzionale, si tratterebbe di
stabilire quanto sia fondato.
Un punto di contatto
sicuramente esiste tra Montanelli e Prezzolini: il primo comincia
dove l'altro finisce. È un punto di contatto, e al tempo stesso una
differenza non da poco. Come si sa, il tentativo di Prezzolini, dopo
aver conosciuto le disillusioni del periodo pre-bellico, approdò
dopo la guerra alla proposta di fondare una Società degli Apoti, la
Congregazione di «coloro che non le bevono», di coloro ai quali,
nei tempi di confusione, «non sta. non conviene, non è bello fare
politica... ». Il giovane Piero Gobetti. cui Prezzolini indirizzava
questa proposta, gli contrappose l'intransigentismo morale, che
doveva portarlo ad una contrapposizione netta, inequivocabile,
fermissima al fascismo - fino all'esilio e poi alla morte.
Prezzolini, invece, eretto nel momento della mischia sulla sua
tribuna di marmoreo distacco, doveva scenderne negli anni successivi
fino al filofascismo e di esaltazione incondizionata e apologetica
del mussolinismo (ricordate? «Mussolini è una forza. Si tratta di
constatare anzitutto questo fatto semplice, elementare e
incontestabile. È una forza, indipendentemente dal Partito che esso
capeggia, dalle idee che egli sostiene»: Prezzolini. 1927 ).
Montanelli, invece, nasce
integralmente e persuasamente fascista. Si dirà: siamo nei lontani
anni 30: non si può rimproverare un passato così lontano a un
giovane meno che trentenne. Ma è piuttosto quello che negli anni
successivi segue coerentemente a quella scelta iniziale a qualificare
in senso duraturo, anzi definitivo, la personalità del giornalista.
Anche nell'educazione di Montanelli produce un effetto determinante
una disillusione storica, nel caso suo la disillusione del fascismo.
Questo a me sembra sul piano etico-politico un tratto estremamente
caratterizzante: siamo di fronte a uomini, a intellettuali, in cui la
delusione delle cose del mondo, - che ad una sensibilità laica non
può non apparire tanto dolorosa quanto inevitabile, - viene messa
alla base di un'intera visione della storia e. direi, dell'uomo.
Quando la sconfitta, vera o presunta che sia, viene registrata, la
morale diventa: poiché si è smesso di credere nel meglio, ci si può
accontentare di credere - e di sperare - nel peggio.
Quando Montanelli
ricompare all'attività pubblica negli anni del secondo dopoguerra,
egli non sarà allora, né diventerà mai un antifascista convinto,
per quanto estremamente moderato, anzi decisamente conservatore, ma
solo un fascista deluso. È lui stesso a dircelo con ammirabile
chiarezza in un brano d'impostazione autobiografica che risale al
1953: "Quel che mi mancava era la molla che, a furia di scattare
a vuoto, s'era guastata. Ciò mi aveva dato la convinzione di essere
diventato un antifascista. Ma non era vero. Ero soltanto un fascista
saturo e stanco, i cui entusiasmi non reagivano più ai grossolani
stimoli delle oceaniche adunate e di un patriottismo verboso e di
maniera. Anticipavo di qualche anno quella malinconica cosa che è
l'Italia d'oggigiorno. l'Italia smaliziata e utilitaria degli
italiani che non ci credono più. Fu allora che diventai, ma
cautamente, scanzonato».
Come Prezzolini. anche
Montanelli si iscrive dunque, ad un certo punto della sua vita, ad
una sua personale Società degli Apoti: quella degli «italiani che
non ci credono più». Ma, come Prezzolini. e come sempre capita in
casi come questo, anche Montanelli, dall'alto del suo conseguito
scetticismo, non può fare a meno di servire il potere come e quando
e dove c'è, perché quello che sul piano esistenziale e storico si
presenta come disillusione, sul piano morale e politico si configura
come cinismo, accettazione della legge del più forte, disprezzo
senza limiti del più debole. Così Montanelli entra a far parte a
pieno titolo negli anni 50 e 60 di quel tipo d'intelligenza
nazionale, che si costringe a viva forza a servire il potere - e lo
serve in verità con cocciutaggine e fedeltà senza pari - per
potersi prendere poi la libertà di dirne male e il gusto di provarne
schifo: o. forse meglio, quel tipo d'intelligenza nazionale, che si
prende la libertà di dir male del potere e di provarne schifo per
poterlo poi servire con cocciutaggine e fedeltà senza pari. Non
bisogna dimenticare che, se del quarantennio che ci sta alle spalle è
suggello terribile sul piano storico la catastrofe di Tangentopoli, è
inveci cifra morale caratterizzante e profonda la celebre frase
montanelliana «Mi turo il naso, e invito a votare per la Democrazia
cristiana».
Il prezzolinismo di
Montanelli è perciò autentico, ma come degradato. di specie
inferiore (bisognerebbe richiamare anche l'influenza delle fasi
intermedie, come quella rappresentata da Longanesi). È venuto meno
il sogno, discutibile ma generoso, di creare una nuova classe
dirigente attraverso la predicazione di un nuovo verbo filosofico ed
etico-politico. Resta la componente difensiva, il timor panico del
nuovo che avanza, l'adesione incondizionata alle ragioni della
borghesia più chiusa e retriva, il grido sempre più stanco: «Questa
Italia non ci piace».
È una vera ironia della
sorte che Montanelli sia stato costretto ad abbandonare la trincea
onestamente difesa per tanti anni perché i suoi ultimi padroni erano
talmente impossibili e impresentabili da non poterne sopportare il
comando neanche turandosi il naso con ambedue le mani. Dev'essere un
bel colpo per un «fascista deluso» ma d'intelligenza fina come lui
ritrovarsi con un Berlusconi al posto dell'idolatrato Mussolini degli
anni giovanili. Da qui, probabilmente, il ricorso alla “Voce”,
alla sigla prezzoliniana ripresa di peso: come un ritorno al punto di
partenza, un desiderio, forse, di tornare indietro al momento in cui
tutta questa storia lunga e faticosa è cominciata. Ma Montanelli non
ha fatto i conti abbastanza con il fatto che «La Voce»
prezzoliniana, comunque la si voglia giudicare a posteriori, nasceva
certamente da una grande speranza. Mi sembra troppo pretendere che
essa rinasca dalla disillusione di una disillusione: e la nascita di
una nuova classe dirigente, di cui del resto si vedono per ora pochi
segnali, è cosa troppo seria perché possa tornare a passare di lì,
per gli organi di formazione di una classe intellettuale borghese,
che ha tante colpe nel disastro italiano presente quante ne ha il
ceto politico social-democristiano.
“l'Unità”, 29
gennaio 1994
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