Così Franco Fortini se
n'è andato. Era, la sua, una dipartita ormai annunciata da molti
mesi. Però ci colpisce a fondo, dolorosamente, come se fosse
inaspettata. Quando l'ho visto l'ultima volta, prima dell'estate,
nella sua mitica casa di via Legnano a Milano, arrancava
trascinandosi dietro gli strumenti della propria sopravvivenza, ma lo
spirito era del tutto vigile, pungente e sereno come sempre, e
proteso al futuro. Difficile immaginare un Franco Fortini acquietato
nel riposo eterno: infatti, il pensiero che subito vive in noi di lui
dopo la sua scomparsa, riguarda il suo rovello intellettuale
incessante, il suo perpetuo, vitalissimo, interrogarsi.
Facile dire oggi che
Fortini può essere considerato la coscienza critica della cultura di
sinistra in Italia nei cinquant'anni che ci separano dal 1945.
Facile, e sommario. In attesa di più ponderate riflessioni, che
Franco merita, io ora mi sentirei di dire questo.
Franco era soprattutto un
poeta - un poeta che però nell'impegno intellettuale, saggistico e
teorico, esprimeva il naturale prolungamento del suo culto della
parola. Io una volta, in un mio saggio, gli rimproverai di credere
troppo nella capacità profetica e anticipatrice della poesia, e
troppo poco nel linguaggio spoglio ed essenziale, o nel silenzio
stesso, della lotta di classe. Nello specifico delle sue posizioni
teoriche io avevo forse ragione. Ma lui aveva più ragione di me
nell'oppormi che la resistenza sulla parola, il rifiuto di farsi
«occupare» dalla lingua del capitale e dei suoi accoliti, lo
scherzare per verba onde far perdere le proprie tracce oppure
avvelenare i pozzi (per riprendere le parole di un suo saggio
stupendo, Astuti come colombe), erano altrettante forme di una
dialettica in atto, ritrarsi dalla quale poteva voler dire farsi
conquistare da quel «totus politicus sum», nel quale è naufragata
buona parte della cultura di sinistra di stampo estremistico (per non
parlare, ovviamente, di quella moderata e riformistica, che il
problema neanche se l'è posto).
Tuttavia, nulla di più
lontano di Franco dal «sublime della parola». Il coté
marxista di Fortini era altrettanto rigoroso e coerente di quello
letterario: ed egli sapeva, e diceva, che solo passando attraverso la
porta stretta della «critica dell'economia politica», una posizione
intellettuale avrebbe potuto collocarsi giustamente nella fase
suprema dello sviluppo capitalistico. Era stato lukacsiano, più che
adorniano o benjaminiano, ermetico-surrealista e brechtiano più che
avanguardistico e majakovskyano. Il sogno di una classicità
ricorrente dentro la corrosione linguistica provocata dall'ondata dei
media lo aveva più che sedotto: fra i suoi grandi amori lirici
andrebbero collocati autori difficilmente classificabili come
rivoluzionari, quali Tasso e Gongora.
Ma un altro aspetto di
Fortini va rammentato, anche solo in prima approssimazione. Di una
coerenza anti-opportunista da far invidia a un monaco del V secolo,
egli non aveva tuttavia nessun misticismo del ruolo intellettuale. Ci
ha insegnato al contrario che un paziente lavoro artigianale è
meglio di qualsiasi mediocre genialità e che nel lavoro di
divulgazione e nella didassi più modesta c'è una nobiltà che i
grandi Sofi non riescono neanche a pensare.
Io gli sono grato di
avermi insegnato, anche all'interno di un rapporto conflittuale, a
pensare il rapporto tra cultura e prassi, tra politica e pensiero (e,
se si vuole, tra politica e poesia), in una maniera diversa da come
io pensavo. Più in generale, penso che egli vada salutato come un
Maestro. Bisogna che nulla di ciò che ci ha lasciato vada perduto.
“il manifesto”, 29
novembre 1994
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