Giordano Bruno |
Romano Canosa è figura
significativa della storia italiana del Novecento.
Abruzzese, entrò in
magistratura nel 1961, a 26 anni. Fu uno dei cosiddetti “pretori
d'assalto”, quel gruppo di giovani magistrati che già negli anni
Sessanta cominciavano a pretendere una corrispondenza tra le leggi e
la loro applicazione da una parte e i principi costituzionali
dall'altra, portando più di una volta nei banche degli accusati
rappresentanti di poteri forti, economico, burocratico e persino
politico. Fu a lungo magistrato del lavoro e si deve a lui la
sentenza sul reintegro dei trentamila licenziati dell'Alfa Romeo. Fu
tra i fondatori e dirigenti di Magistratura Democratica, ma si
allontanò dalla corrente per quelle che gli sembravano gravi
incoerenze. Fu infine collaboratore assiduo del quotidiano comunista
“il manifesto”.
Parallela all'attività del magistrato
civicamente impegnato fu quella di studioso. Prima storico del
diritto e della giustizia (autore di una storia della magistratura in
età repubblicana e della prima organica storia dell'Inquisizione
cattolica in Italia) poi ampliò il campo degli interessi fino a
diventare storico tout court. Scrisse tra l'altro una biografia del
“fascistissimo” Farinacci. Morì nel 2010.
L'articolo che qui riprendo senza note
riguarda il “processo scientifico”, in particolare i processi di
condanna da parte dell'Inquisizione di Giordano Bruno, Galileo
Galilei, Tommaso Campanella. Lo pubblico in occasione
dell'anniversario dell'assassinio sul rogo di Giordano Bruno,
ricordando oltre alla sua grande figura, anche quella degli altri due
martiri della ragione. (S.L.L.)
Galileo Galilei |
Il processo politico
costituisce una specie del genere «processo penale». E innegabile
che i criteri per determinare quale comportamento umano costituisca
«delitto», e quale no, sono sempre fìssati dal potere politico.
Altrettanto innegabile è che questo potere si ispira all'obiettivo
primario della sua conservazione, quando decide quali comportamenti
debbano essere «puniti».
In questo senso non è
azzardato definire ogni delitto in ultima analisi come un «delitto
politico». Ma - normalmente - la espressione delitto politico
viene utilizzata in maniera più ristretta: designa infatti un
settore più limitato di condotte criminali e cioè quelle che ledono
«direttamente» il sistema politico esistente (nei suoi schemi di
conservazione-riproduzione, nei suoi individui rappresentativi, nella
sua base di classe ecc.), mentre delitti «comuni» sono considerati
quelli che questo sistema ledono soltanto «indirettamente» (in
quanto violano le regole che il sistema, che pure le ha poste, e ne
impone il rispetto, non considera di rilievo primario per la sua
sopravvivenza).
Il processo politico
regola la punizione dei comportamenti del primo tipo; il processo
«comune» quella dei secondi. Va subito notato che i comportamenti
che possono mettere a repentaglio eli interessi di fondo di un
sistema politico non sono quasi mai determinabili a priori. Un
sistema di potere a base religiosa può, ad esempio, ritenersi
minacciato nei suoi interessi vitali quando le credenze sulle quali
si basa sono messe in discussione.
La affermazione e
diffusione di principi teorici diversi da quelli dominanti in materia
cosmologica o cosmogenica (più importanti, per le grandi religioni
istituzionali, di quelli etici) diventano allora delitto politico. E
il processo eventualmente utilizzato dagli apparati di dominio per
risolvere la contraddizione diventa un processo politico a pieno
titolo.
Il Seicento è l'epoca
classica del «processo politico-scientifico». Questo processo,
caratterizzato all'inizio dalla presenza di elementi ulteriori
rispetto alle opinioni scientifiche degli imputati, raggiunge lo
stato di processo scientifico «puro» con Galileo.
Il primo grande processo
di questo tipo è quello contro Giordano Bruno. Il Bruno, condannato
dalla Inquisizione per una serie di comportamenti ritenuti non
ortodossi (negare la transustanziazione, mettere in dubbio la
verginità di Maria, aver soggiornato in paesi eretici, avere scritto
contro il Papa, sostenere l'esistenza di mondi innumerevoli e eterni,
sostenere la metempsicosi, ritenere la magia buona e lecita,
identificare lo Spirito Santo con l'anima del mondo, affermare che
Mosè ebbe a simulare i suoi miracoli e a inventare la legge,
affermare che la Scrittura è un sogno, sostenere che persino i
demoni alla fine si salveranno, credere nella esistenza dei
preadamiti, ecc.) venne, dopo sette anni ininterrotti di
carcerazione, dichiarato “eretico impenitente pertinace e ostinato”
e consegnato al governatore di Roma (8 febbraio 1600). Una settimana
dopo fu bruciato in Campo di Fiori.
Ritorneremo alla fine sul
suo comportamento processuale. Abbiamo elencato sommariamente le
imputazioni per le quali Bruno venne inquisito e condannato. Se
alcune di esse attengono a questioni puramente religiose e altre a
comportamenti materiali (una delle imputazioni originarie, risalente
al periodo veneziano, era che egli era caduto spesso nel «peccato
della carne») ne esiste un nucleo residuo innegabilmente costituito
da teorie scientifico-filosofiche. Le dottrine dell'universo infinito
e eterno, della magia naturale, del moto della terra ecc., anche se
formulate con toni «fantastici» e assai poco «quantitativi»,
esprimono una visione «naturale» del mondo incompatibile con la
religione cattolica, quale era allora formulata.
Tommaso Campanella |
Un altro processo nel
quale imputazioni «scientifiche» e filosofiche compaiono accanto a
imputazioni religiose o, addirittura, puramente politiche è quello
che coinvolse Tommaso Campanella. Non è qui il caso di soffermarsi
sulla vita del monaco calabrese e sulle sue traversie. Ci limiteremo
soltanto alla indicazione delle accuse rivoltegli. Gli si imputava,
tra l'altro, di sostenere che non c'è Dio, ma soltanto la natura che
noi chiamiamo Dio, che tutti i sacramenti della Chiesa sono diritti
dei principi o esigenze degli Stati e che non c'è altro, che i
sacramenti non sono stati istituiti da Dio, ma dalle opinioni degli
uomini, che il sacramento della Eucaristia è una bagatella e non il
corpo ed il sangue di Cristo, che non esistono Demoni e neppure
l'inferno e il paradiso, che la vergine Maria non era vergine, che
l'atto venereo è lecito, che l'eclissi alla morte del Cristo non era
stata miracolosa e universale, ma naturale e particolare, che
l'autorità del Papa era usurpata e tirannica: di avere lo stesso
Campanella, con altri coimputati, tentato una rivoluzione nelle
province della Calabria e del regno di Napoli, di avere inviato una
ambasceria ai turchi che aveva loro promesso aiuto in questa impresa,
ecc.; di avere credutoche l'anima razionale è mortale ecc..
Anche sul comportamento
processuale di Campanella ritorneremo alla fine.
Un processo
«scientifico» puro viene celebrato invece contro Galileo. Nel
1616 Galileo, che si trova a Roma, viene convocato dal cardinale
Bellarmino e invitato a non esprimersi troppo apertamente a favore
del sistema copernicano.
Il contenuto del
«colloquio» è così descritto dallo stesso Bellarmino in una
dichiarazione rilasciata a Galileo il 26 maggio dello stesso anno:
«Noi Roberto Cardinale Bellarmino, havendo inteso che il Signor
Galileo Galilei sia calunniato o imputato di bavere abiurato in mano
nostra, et anco di essere stato per ciò penitenziato di penitenzie
salutari; et essendo ricercati della verità, diciamo che il suddetto
Signor Galileo non ha abiurato in mano nostra, né di altri qua in
Roma, né meno in altro luogo che noi sappiamo, alcuna sua opinione o
dottrina, né manco ha ricevuto penitenze salutari né d'altra sorte,
ma solo gli è stata denuntiata la dichiarazione fatta da N.ro Sig.re
et pubblicata dalla Sacra Congregatione dell'Indice, nella quale si
contiene che la dottrina attribuita al Copernico, che la terra si
muova intorno al sole et che il sole stia al centro del mondo senza
muoversi da oriente ad occidente, sia contraria alle Sacre Scritture
et però non si possa né difendere né tenere. Et in fede di ciò
habbiamo scrina e sottoscritta la presente di nostra propria mano
questo di 26 di maggio 1616».
Sembrava che tutto fosse
finito e invece era solo l'inizio. Nel 1633, dopo che erano passati
molti anni, con la pubblicazione da parte di Galileo dei Dialoghi
sopra i due massimi sistemi del mondo, il tolemaico e il
copernicano, il caso venne riaperto. L'elemento utilizzato dagli
inquisitori per riavviare l'inchiesta fu un verbale del colloquio del
1616 tra Galileo e Bellarmino, tratto dagli archivi, nel quale si
affermava che a Galileo era stata fatta una ingiunzione ufficiale e
che egli si era impegnato a non trattare, insegnare o difendere in
nessun modo la dottrina copernicana. Il verbale era in contrasto con
la lettera del Bellarmino che prevedeva soltanto, come si è visto,
il divieto di seguire o difendere le dottrine copernicane e non anche
quello di utilizzarle «ex suppositione», vale a dire come ipotesi.
Il Bellarmino era nel
frattempo morto e era quindi impossibile accertare quale era stato
esattamente l'«invito» da lui trasmesso a Galileo. Il 16 giugno
1633 la congregazione del Sant'Ufficio decise che Galileo fosse
interrogato «super intentione, etiam comminata ei tortura». Qualora
avesse insistito nelle sue idee, previa abiura «de vehementi» in
piena congregazione, avrebbe dovuto essere condannato al carcere a
arbitrio della Sacra Congregazione. Gli avrebbe dovuto essere anche
ingiunto di non occuparsi più né con scritti, né con parole della
mobilità della terra e della stabilità del sole, sotto pena di
essere dichiarato «relapsus».
Il 21 successivo egli fu
di nuovo interrogato nell'aula delle Congregazioni del Sant'Ufficio.
Rispose all'inizio di non aver cosa alcuna da dire, aggiunse poi:
«Già da molto tempo cioè avanti la determinazione della Sacra
Congregazione dell'Indice e prima che mi fusse fatto quel precetto,
io stavo indifferente et havevo le due opinioni cioè di Tolomeo e di
Copernico per disputabili perché o l'una o l'altra poteva essere
vera in natura, ma dopo la determinatione sopraddetta, assicurato
dalla prudenza de Superiori, cessò in me ogni ambiguità e tenni, sì
come tengo ancora, per verissima et indubitata l'opinione di Tolomeo
cioè la stabilità della Terra e la mobilità del sole».
Interrogato sul contenuto
dei Dialoghi rispose: «Circa l'havere scritto il Dialogo già
pubblicato non mi son mosso perché io tenga vera l'opinione
copernicana, ma solamente stimando di fare benefitio commune ho
esplicato le raggioni naturali ed astronomiche che per l'una e per
l'altra parte si possono produrre, ingegnandomi di far manifesto,
come né queste, né quelle, né per questa opinione, né per quella
riavessero forza di concludere demostrativamente, e che perciò per
procedere con sicurezza si dovesse ricorrere alla determinatione di
più sublimi dottrine, sì come in molti luoghi di esso Dialogo
manifestamente si vede. Concludo dunque dentro di me medesimo né
tenere, né havere mai tenuto dopo la determinazione delli Superiori
la dannata opinione». Le sue parole finali furono: «Io non tengo né
ho tenuto questa opinione del Copernico, dopo che mi fu intimato con
precetto che io dovessi lasciarla, del resto son qua nelle loro mani,
faccino quello gli piace!».
Il giorno dopo, 22
giugno, fu pronunciata contro di lui la sentenza nella quale lo si
dichiarava «vehementemente sospetto di eresia, cioè di haver tenuto
e creduto dottrina falsa e contraria alle Sacre e divine Scritture,
ch'il sole sia centro della terra e che non si muova da oriente ad
occidente, e che la terra si muova e non sia centro del mondo, e che
si possa tener e difendere per probabile una opinione dopo esser
stata dichiarata e diffinita per contraria alla Sacra Scrittura».
Seguivano l'abiura, la
proibizione del libro e la condanna al carcere formale ad arbitrio
della Congregazione. Il processo era finito; e la condanna era andata
all'essenziale (l'aver sostenuto le dottrine copernicane), superando
senza apparenti difficoltà la circostanza che oggetto formale del
processo era soltanto l'aver violato quanto ingiuntogli dal
Bellarmino nel 1616.
Un altro processo nel
quale teorie filosofico-scientifiche e opinioni in tema di religione
sono commiste è quello degli «ateisti» napoletani della fine del
Seicento. Nel marzo del 1688 si era presentato al vescovo di Teano,
ministro delegato della Inquisizione a Napoli, tale Manuzzi per
denunziare la esistenza a Napoli di un gruppo di persone (i
principali accusati erano Basilio Ciancili e Giacinto de Cristoforo)
che avevano creduto nella filosofia degli atomi e avevano perso la
vera fede (le teorie lucreziane, ravvivate dagli studi di Gassendi e
Cartesio, avevano un certo seguito all'epoca a Napoli).
Alcuni dei denunciati
vennero incarcerati dai cursori del Sant'Ufficio. Le accuse
comprendevano: l'aver sostenuto che Cristo non era figlio di Dio, ma
soltanto un uomo di grande giudizio, che prima di Adamo erano
esistiti altri uomini nel mondo e che quelli erano composti di atomi,
come gli altri animali, che il papa non aveva alcuna potestà né
temporale, né spirituale, che non vi erano paradiso, inferno e
purgatorio, che non si devono adorare né venerare i santi e le loro
immagini, che le cose del mondo si reggono sulla base della natura e
non di Dio, che l'anima razionale era mortale, che non erano peccato
né la fornicazione, né l'incesto ecc..
Il processo si
concludeva, dopo alcuni anni, senza troppi danni per gli accusati,
anche se alcuni di essi avevano nel frattempo subito lunghe
carcerazioni. Uno degli ultimi processi di questo tipo, svoltosi a
Napoli, fu quello contro Giovanni de Magistris, scrivano presso il
Banco dell'Annunziata, e Carlo Rosito, farmacista. Accusati di aver
sostenuto che l'uomo è formato di atomi, che il mondo non è stato
creato a tempo da Dio, ma prodotto a caso dagli atomi, che il cielo è
uno solo e che l'Empireo non esiste, che l'anima è mortale, che non
esistono Dio e la Trinità, che il Papa aveva usurpato la sua
autorità e, infine, che la liquefazione del sangue di S. Gennaro era
falsa, furono condannati a dieci anni di carcere e all'abiura, quali
eretici confessi e pentiti.
All'interno del processo
«scientìfico» troviamo tutte le categorie del processo politico.
Ha scritto Vergès: «La distinzione fondamentale che determina lo
stile del processo penale è l'atteggiamento dell'accusato di fronte
all'ordine pubblico. Se lo accetta, il processo è possibile e
costituisce un dialogo tra l'accusato che spiega il proprio
comportamento e il giudice i cui valori vengono rispettati. Se invece
lo rifiuta, l'apparato giudiziario si disintegra: siamo allora al
processo di rottura [...] Processo di rottura, processo di connivenza
non rappresentano che schemi: la rottura non è mai totale, raramente
perfetta la connivenza, la rassegnazione mai esente da rivolta».
Se esaminiamo le carte
dei processi che abbiamo visto in precedenza, notiamo che i
comportamenti degli imputati percorrono tutta la scala dei possibili
passaggi, dal processo di connivenza a quello di rottura, spesso
alternando atteggiamenti dell'uno tipo a quelli dell'altro, fino al
tentativo di sottrarsi allo schema stesso del processo attraverso la
simulazione della follia (Campanella). Non solo: spesso quello che
era stato un processo di connivenza per tutta la fase istruttoria (a
volte durata molti anni) diventa atteggiamento di rottura e
rivendicazione orgogliosa del proprio pensiero al momento della
conclusione del processo.
Si pensi a Bruno. Era
stato «connivente» per i lunghissimi anni passati in carcerazione
preventiva, confermando le parti meno pericolose del suo pensiero e
negando le altre. Alla fine, tuttavia, aveva deciso che la
arrendevolezza fino a allora mostrata andava abbandonata. Tra il
settembre ed il dicembre 1599 egli aveva maturato questa decisione.
Ai tentativi fatti dalla Sacra Congregazione di ottenere l'abiura
egli rispondeva che non aveva mai sostenuto proposizioni ereticali,
che le accuse in tal senso erano il frutto di un fraintendimento del
suo pensiero e che non era affatto disposto a inchinarsi alle
opinioni dei teologi, ma soltanto ai canoni e alle sacre scritture.
Condannato, ascoltò la
sentenza in ginocchio, ma alla fine della lettura, si levò in piedi
e disse: «Forse con maggiore timore pronunciate contro di me la
sentenza di quanto ne provi io nel riceverla».
Se da Bruno passiamo a
Galileo, notiamo un atteggiamento di «connivenza» tenuto sino alla
fine, anche se la frase pronunciata nella seduta del 21 giugno 1633
«Del resto son qua nelle loro mani; faccino quello che gli piace»
mostra che anche per lui il calice stava traboccando e che egli non
era in grado di concedere alla accusa più di quanto aveva concesso
fino ad allora (probabilmente questa ne prese atto e decise di
arrivare a una rapida emanazione della sentenza).
Quanto a Campanella, la
via da lui prescelta fu la simulazione della follia, via difesa con
coerenza e coraggio anche sotto la tortura (Campanella fu sottoposto
alla tortura della corda e a quella della «veglia»).
Resta da dire qualcosa
sugli obiettivi di questi processi. Il fine perseguito attraverso
l'apertura del processo politico non è quasi mai la ricerca della
«verità», ma l'affermazione di una autorità nuova (si pensi a
Saint-Just e alla sua frase: «Chi dà una qualche importanza al
giusto castigo di un re non fonderà mai una repubblica») e la
riaffermazione della vecchia, che sia riuscita a respingere con
successo gli attacchi di chi aspirava a spodestarla.
Questa situazione si
riproduce anche nel processo «filosofico-scientifico». Come ha
notato De Santillana, alla fine anche Galileo aveva compreso che ai
suoi inquisitori non importava affatto la verità, ma solo la
riaffermazione dell'autorità. A questo fine non è necessario che i
fatti imputati siano rigorosamente accertati nella loro consistenza
materiale.
Il processo politico è
di per se stesso la espressione di un disegno che è stato elaborato
prima e fuori di esso e sul quale poca o nessuna influenza possono
esercitare i concreti accadimenti che si svolgono durante il suo
svolgimento.
Al termine del «gioco»
processuale, l'autorità deve uscirne comunque rafforzata.
Normalmente attraverso la condanna dell'imputato, qualche volta
attraverso l'assoluzione, in ogni caso con sovrana indifferenza per
la consistenza materiale dei fatti «dedotti in giudizio».
“se Scienza
Esperienza”, Anno I, n.5, Luglio-agosto 1983
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