E’ noto che in Italia
la tradizione anarchica, oltre che in certe isole operaie,
specialmente di minatori e cavatori, è stata tenuta viva soprattutto
da artigiani, che nel loro lavoro solitario testimoniavano con la
fatica e la perizia, con la libertà di pensiero, la dignità e
l’intransigenza, il barlume di un’altra vita possibile.
Si trattava per lo più
di orologiai e tipografi, di litografi, orafi e liutai, ma nei paesi
più piccoli poteva accadere che questo compito di testimonianza
venisse affidato a categorie artigiane meno specializzate come
fabbri, falegnami, calzolai.
In quel paese, negli anni
del fascismo, l’anarchico era un calzolaio. Ho il sospetto che si
chiamasse Paolo, ma tutti – amici e nemici – lo chiamavano
“l’anarchico”, senza nome.
Il figlio invece aveva
come nome Lorenzo e del padre morto – credo nel 45 – aveva
ereditato casa e bottega, ma non si poteva definire un vero
calzolaio, uno scarparu; al massimo era da considerarsi un
ciabattino, un tappinaru. Dichiarava di aver ereditato anche
l’ideale politico e sociale, per cui i più in paese lo chiamavano
“Lorenzo l’anarchico”, con il nome dunque, forse per
distinguerlo dal padre.
Lorenzo non faceva una
gran vita: guadagnava poco e punta era nella Sicilia interna la
disponibilità delle ragazze alle liberi unioni che lui - da
libertario - contrapponeva ai lacci coniugali. Per lui, tuttavia, a
lungo rimase un esempio di vita il padre, il qualee per lo stato
civile era riuscito a mantenersi celibe nonostante una lunghissima
convivenza e nonostante un figlio, lui, che pure aveva cresciuto con
tenerezza, fatto studiare fino alla settima e addestrato, in vero
senza grandi risultati, all’arte della lesina e del trincetto. Ma
il padre, l’anarchico, aveva avuto la fortuna di trovare una donna
coraggiosa e anarchica quanto e più di lui, mentre il giovane
Lorenzo intorno a sé non ne scorgeva.
Per tutto ciò, non
appena si presentò l’occasione, si lasciò corrompere. Il padre
aveva sempre rispettato socialisti e comunisti come compagni che
sbagliano, e ne era stato sempre rispettato; e anche nei confronti di
Lorenzo, benché non avesse la stoffa del padre, essi nutrivano
benevolenza e simpatia. Quando, nel 53, i socialcomunisti
conquistarono il Comune e il ringhioso Peppinello, che qualcuno aveva
soprannominato Ringhio, fu scelto come sindaco, costui andò a
cercarlo nella sua bottega e gli offrì un'assunzione in Comune con
la qualifica di guardia municipale. Era l’impiego più incongruo
che si potesse proporre a un anarchico e un po’ Peppinello lo
faceva apposta, ma Vincenzo accettò senza discussioni. E subito dopo
si sposò. In Chiesa.
Era un tipo velenoso e
quel tossico che un tempo utilizzava per imprecare contro preti,
tiranni e potenti d’ogni tipo ora, da vigile, lo spruzzava addosso
ai poveretti che gli capitavano tra le grinfie, piccoli bottegai più
che altro. Aveva comunque rivelato solerzia e competenza, tant’è
che Ringhio, benché come titolo riconosciuto avesse la sola licenza
elementare, lo mandò a fare il segretario dell'Istituto Magistrale
che il Comune aveva aperto in paese per evitare un pernicioso
pendolarismo alle ragazze che volevano studiare: si poteva così
diventare maestre sotto l'occhio vigile dei genitori e dei vigili
compaesani.
Nel 1959, grazie alla
perorazione di un onorevole democristiano, il Ministero approvò la
statalizzazione della scuola. I socialcomunisti venivano estromessi
dalla gestione, ma venne confermata la laica intitolazione a
Garibaldi da loro scelta, anche perché le Elementari si chiamavano
“San Giuseppe” e le Medie “Don Sturzo”. A Lorenzo – perché
fosse mantenuto nel ruolo di segretario – fu chiesta la licenza
media, che egli si affrettò a conseguire in un paese non troppo
vicino, per evitare che dei conoscenti lo vedessero a far gli esami.
Adesso si sentiva
un’autorità e questa autorità esercitava volentieri, alla faccia
dell’anarchia: leccava il giusto il Preside, ma spargeva veleno su
studentine e studentini, bidelli, genitori e insegnanti, specie
quelle avventizie e alle prime armi che nel Magistrale appena
istituito andavano a farsi le ossa.
Fu quello il tempo che il
suo soprannome cambiò: da “Lorenzo l’Anarchico” divenne
“Culostretto”, termine che indica il sedere che tende a chiudersi
in sé, grettamente, senza tendere generosamente a espandersi da ambo
i lati. In altri ambienti prevaleva un diverso soprannome, che
ricordava il mestiere originario di cui un po' si vergognava: lo
chiamavano "Lorenzo lu scarparu". Lui intanto,
progressivamente, si trasformava in uomo d’ordine, cominciando a
disprezzare i comunisti. Oltre al veleno secerneva boria: diventava
tronfio.
Compì la parabola quando
la figlia sposò il nipote di un deputato e assessore regionale
democristiano: si sentì finalmente realizzato.
Diventò democristiano
anche lui fino ad invischiarsi nei giri correntizi, e così continuò
anche dopo Tangentopoli, negli strani partiti che perpetuavano la
tradizione dello scudo crociato, specialmente in Sicilia. Non amava i
soprannomi con cui era chiamato; ne era arrivato un terzo che lo
faceva addirittura imbestialire, “Lorenzo l’anarchico”: qualche
cultore di archeologia politica aveva dissepolto e rilanciato, a
sfottò, il suo peccato originale.
Vecchio, si trovò
benissimo nell’Udc di Cuffaro, e morì, dopo una breve malattia,
munito di tutti i conforti religiosi, quando costui, da presidente
della Sicilia, ancora trionfava mangiando cannoli.
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