L'ampio stralcio che
propongo da un articolo del “manifesto” di qualche anno fa è una riflessione sulla
televisione italiana e sull'Italia della televisione originata dalla
lettura di tre libri che erano appena usciti. Credo che le chiavi di lettura suggerite siano molto produttive. (S.L.L.)
Le "ragazze fast food" della trasmissione televisiva "Drive in" |
[...]
Tre libri da poco
pubblicati rivendicano con forza l’idea che la televisione
rappresenti un osservatorio idealtipico per constatare le mutazioni
del nostro corpo sociale e, soprattutto, uno strumento capace come
pochi altri di modificare (come è effettivamente avvenuto…) la
testa degli italiani.
Altro che
elettrodomestico: se la paleotv ha accompagnato la Prima Repubblica
dei partiti di massa (e dell’egemonia democristiana), con la sua
cifra di deferenza nei confronti della classe politica, la neotv ha
poi, quasi irresistibilmente, aperto le porte alla postdemocrazia.
Ecco perché guardare, anzi tenere attentamente d’occhio, il
piccolo schermo ha una valenza eminentemente politica, e i testi qui
discussi, seppur non così immediatamente riconducibili a tale tema,
confermano come il peso di certi pregiudizi abbia impedito alla
sinistra di comprendere fino in fondo la rivoluzione che si stava
annunciando nei decenni destinati a trasfigurare il paese. La
televisione andava, dunque, pensata e usata dalla cultura
progressista nel modo migliore (e qualche esempio si è anche
prodotto), e non demonizzata o abbracciata sic et simpliciter.
La
mutazione individualista (Laterza) è il titolo del volume
di Giovanni Gozzini, professore di Storia contemporanea
all’Università di Siena, il quale – ed è questo, a nostro
giudizio, il pregio principale del libro – evidenzia come, lungo i
Settanta (aumentando di intensità col procedere degli anni), si
produca all’interno della televisione una sorta di scissione
interna, che vede la fase post-Bernabei abbandonare il connotato
pedagogico per convertirsi pienamente in «industria del
divertimento» e dell’intrattenimento. Una lacerazione che vede, da
un lato, un orientamento di difesa del sistema della famiglia
tradizionale, in ossequio alla visione delle gerarchie cattoliche,
tradotto mediante l’esaltazione della «virtù dell’obbedienza»
al paradigma patriarcale, del risparmio domestico, della
casalinghitudine delle donne e dall’altro lato, la pubblicità che,
in sintonia con il cambiamento dei tempi (di cui, per la sua parte, è
anche motore), promuove un modello di famiglia nucleare, con una
donna che, sebbene ancora «in casa», si apre all’esterno,
innanzitutto quale soggetto di consumo.
Sotto le macerie
della neotv
E così la tv si fa, come
sempre è accaduto, specchio delle metamorfosi della società. Il
lavoro di Gozzini è di notevole accuratezza storiografica e segue
l’evoluzione/involuzione di questi decenni, anche mediante una
disamina informata delle trasmissioni tv – dalle soap operas
Dallas e Dinasty ai vari talk show,
dall’imprescindibile (per le analisi che stiamo conducendo)
televisione di Antonio Ricci sino al Grande Fratello e ai reality
– che hanno costellato i vari inverni del nostro (maggiore o
minore) scontento televisivo.
A rimanere sotto le
macerie di questa neotelevisione edonistico-disimpegnata sempre più
ingombrante e «totalitaria» sono state tante categorie che avevano
occupato la scena pubblica dei decenni precedenti (e di cui torniamo
ad avere un gran bisogno). Come la politica, che smette di
rappresentare un «progetto condiviso di futuro» per venire
convertita – secondo la logica horse race della comunicazione
politica postmoderna, strettamente imparentata con quella mediale –
in un circo Barnum, un teatrino e, soprattutto, un’arena
gladiatoria; o, come sostiene Stefano Balassone, si tramuta in una
situazione di spoliticizzazione spettacolare, con il prevalere dello
schieramento sulla discussione, della semplificazione sulla
complessità e dell’esperienza vissuta «direttamente» dal
profano-uomo qualunque sul competente e lo specialista. Come la
storia, cancellata con un tratto di penna, al pari della memoria, in
nome di un eterno presentismo. E, ancora, come la fatica e l’impegno
lavorativi, rimpiazzati dall’anelito desiderante e vitalistico a
«esserci» (sul palcoscenico sfavillante di qualche televisione) e a
conseguire affermazione e successo, naturalmente a prescindere dalla
tipologia e qualità della «performance», in quella che
rappresenta, alla fin fine, una versione soft del darwinismo sociale.
Un libro apocalittico
quello di Gozzini, dunque? No, realista piuttosto, nel descrivere
efficacemente le modalità di instaurazione dell’egemonia
sottoculturale, via neotelevisione commerciale, nell’Italietta,
apparentemente allegra ed esuberante e, in verità, sempre più
tristanzuola e preda delle passioni fredde di cui ci ha
magistralmente resi edotti il filosofo e psicanalista Miguel
Benasayag.
Lo sguardo maschile come
motore della televisione è al centro di Occhi di maschio
(Donzelli, con una prefazione di Franco Cardini) di Daniela Brancati,
che è stata la prima direttrice donna di un telegiornale nazionale
in Italia – avendo creato nel 1991 quello di Videomusic, e guidato,
nel ’94, il Tg3. Brancati, che conosce quindi molto bene
dall’interno i meccanismi del piccolo schermo, delinea in questo
libro una sorta di “controstoria” della tv, a partire dal 1954,
dal punto di vista degli «sconfitti», tra i quali, naturalmente,
come scrive, «le persone di buon gusto e di buon senso».
Ragazze «fast
food»
L’attenzione per i
soggetti «vinti» (sfruttati o manipolati) dei processi comunicativi
non costituisce, infatti, una novità nel lavoro dell’autrice, che
ha sviluppato una spiccata sensibilità per minori e donne. Il punto
di partenza dell’analisi risulta sostanzialmente comune con quello
illustrato nei volumi di Gozzini e, vedremo, di Vanni Codeluppi: il
passaggio da un disegno educativo (per quanto discutibile sotto certi
aspetti) della televisione monocolore e monocromatica del monopolio
pubblico a quella coloratissima dell’oligopolio privato,
apparentemente priva di progetto, ma piena di ricchi premi e cotillon
e di «pacchi», dominata da uno sguardo implacabilmente maschile (e
ginecologico). Una logica tipica della neotv che ha finito per
tracimare e trapassare anche nella Rai, seppur in misura più
contenuta di quanto avviene nelle emittenti «rivali» private, anche
e soprattutto a causa del conflitto di interessi che ha gravato
sull’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, principale
tycoon privato che, in quanto capo del governo, si è trovato a
piazzare uomini di propria fiducia e stretta osservanza nelle stanze
dei bottoni del servizio pubblico.
La copertina del volume
effigia con precisione chirurgica (anche nel senso di quella plastica
ed estetica) uno dei punti di cesura, e di non ritorno, di questa
storia parallela – ma primaria, sfortunatamente, per l’immaginario
di tanti nostri connazionali – ovvero la figura della donna
attraverso il Drive In di Italia 1, in pieni anni Ottanta. Le
cosiddette «ragazze fast food» (alla cui «qualifica» risulta
facilmente, e volutamente, associabile l’idea del consumismo
sessuale) che faranno scuola e apriranno la strada per una marea di
programmi tv a venire, impegnati in una gara a scoprire quanto
maggiormente possibile i corpi delle loro soubrette, delle vallette o
(nuovamente, copyright di Ricci), delle «veline» e affini. Un libro
utilmente completato, a livello documentario, da un dizionario delle
ottocento donne che hanno fatto passato e presente della televisione
e da una interessante cronologia «a tesi» ed euristica che elenca,
in maniera incrociata, fatti ed eventi della storia nazionale,
dell’evoluzione del tubo catodico e delle conquiste femminili in
campo sociale e politico.
Stanno uccidendo la tv
(Bollati Boringhieri), il bel libro di Vanni Codeluppi (professore di
Sociologia dei consumi e Comunicazione pubblicitaria all’Università
di Modena e Reggio Emilia), è infine un duro j’accuse nei
confronti dello stato di prostrazione in cui il ceto politico ha
ridotto la ex tv di Stato, che prende le mosse dalle scomposizioni e
ricomposizioni di quel prisma che è diventato la televisione, e
dalla sua influenza sociale, e ha il merito di provare anche a
delineare gli scenari futuri e il mondo, diciamo così,
posttelevisivo.
Quindici minuti di
celebrità
Il tubo catodico, dopo le
stagioni, già ricordate, della paleotv e della neotv, sta vivendo
l’epoca della transtelevisione, la tv dei reality caratteristica
delle società ipermoderne, che si avvale del crossing tra media
differenti e, senza soluzione di continuità, passa dalla
riproposizione-rappresentazione della realtà alla sua produzione
(che diviene iperrealtà), mettendo in scena, ancora una volta, quel
processo di «vetrinizzazione sociale» che Codeluppi ha configurato
e raccontato per primo in Italia. Questo modello tv dell’illusione
del quarto d’ora di celebrità, perfetta realizzazione delle
intuizioni warholiane (e, ci sembra, pure degli incubi
cronenberghiani di Videodrome), imbonisce e distrae, dispensa
illusioni ed erode il (tutt’altro che scontato) senso critico, e
alimenta una tendenza alla passivizzazione di cui si nutre, da tempo,
la politica, rivelandosi in tal modo un altro volto di uno dei veleni
del Novecento e di questo nuovo secolo, il populismo.
Ecco perché l’autore
addita quale primo killer della televisione non le innovazioni
tecnologiche, bensì la politica stessa, autentica responsabile o,
quanto meno, corresponsabile, della degenerazione e
dell’impoverimento-imbarbarimento dell’offerta del piccolo
schermo, che ha allontanato schiere sempre più nutrite di potenziali
utenti e moltissimi appartenenti alle generazioni più giovani. È la
«televisione degli ignoranti»; e «d’altronde», scrive
Codeluppi, «la volontà di mantenere la popolazione nell’ignoranza
rappresenta proprio il cuore del progetto populista appartenente a
quella politica contemporanea dalla quale la televisione dipende» –
ennesimo cortocircuito e paradosso della nostra età postmoderna (o
ipermoderna), postdemocratica e postpolitica (dove a essere differita
o addirittura superata, purtroppo, nella visione di molti, è l’idea
della politica quale mezzo di emancipazione collettiva). Un paradosso
(seppur non troppo) – e l’autore che è specialista di queste
tematiche lo sottolinea, anche perché le strategie di marketing
mass-market oriented, alla ricerca della massimizzazione del
pubblico, ne hanno costruito uno composto di monadi tutte uguali,
producendo l’effetto collaterale (ma esiziale per loro stesse) di
spostare gli investimenti pubblicitari di qualità su altri media,
verso i quali si è indirizzato il target dei cosiddetti «fruitori
intelligenti». Chi è causa del suo mal, pianga se stesso…
[...]
il manifesto, 26 novembre
2011
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