Nel 2011 Franco Arminio
pubblicò per Nottetempo un libretto intitolato Cartoline dai
morti, costituito da poco più
di un centinaio di brevi messaggi che si immaginano venire ciascuno
da un morto. Ne fornisco qui un assaggio. A mo' di appendice “posto”
un breve dialogo con l'autore di Camilla Panichi, ripreso dal sito
“404 not found” - www.quattrocentoquattro.com
. (S.L.L.)
Franco Arminio |
«Avevo appena finito di
vedere la televisione. Mi sentivo debole. Mi sono disteso sul divano
e ho sentito come una mano gigantesca che mi premeva il cuore. Ho
pensato che stavo morendo e non avevo comprato il loculo. Sicuramente
mi avrebbero messo sotto terra. E questo era l’ultimo fallimento
della mia vita.»
«Nessuno mi aveva
spiegato niente. Ho dovuto fare tutto da solo: rimanere fermo e muto,
raffreddarmi, iniziare a decompormi.»
«Io sono morto quando
ancora si moriva veramente. Mi ricordo il momento che è arrivato il
prete e che dovevano chiudere la bara. Mia madre e mia sorella
gridavano così forte che pure il prete si è commosso.»
«Adesso ho una curiosità
un po’ scema. Vorrei sapere se poi mio cugino Maurizio è riuscito
a vendere la sua Golf di seconda mano per la quale voleva sei
milioni.»
«Pure io, sì pure io.»
"...il mondo muore quando si smette di morire"
Dialogo con Franco
Arminio
di Camilla Panichi
Il Dialogo con i morti
è un topos dalla letteratura che nei secoli ha conosciuto varie
forme di espressione. Nelle Cartoline dai morti,
la frase sintetica e la parola asciutta, sembrano coincidere con la
scoperta di un tono aforistico e talvolta oserei dire lapidario.
Questo dettato breve si rifà a un particolare genere come
l’epitaffio (penso all’Antologia di Spoon River),
l’epigramma o muove da premesse diverse?
- Più che delle cartoline
mi pare di aver scritto delle lapidi. La mia scrittura è
essenzialmente aforistica e poetica, la brevità è la mia cifra. In
questo caso dando la parola ai morti la brevità è unita alla
reticenza, all’essenzialità.
La morte da lei
descritta non è mai epica: si muore parlando di una ringhiera, si
muore mentre alla tv danno un programma di cucina. In questo tono
basso, talvolta ironico, understated, vi è un tentativo di riportare
il tema della morte a una dimensione più quotidiana o crede che tale
tema, oggi, non possa essere narrato diversamente?
- Semplicemente mi è parso
che questa fosse la lingua giusta per i morti, una lingua intonata
alla loro condizione. I morti perdono assai presto la lingua e tutto
il resto della carne. Non aveva senso una lingua fastosa o aulica.
Un aspetto che mi ha
colpito molto delle Cartoline è che in ogni
frammento, attraverso piccoli particolari, è dato l’intero
percorso di una vita. Ma si ha la sensazione che tutto ciò che
rimane della vita sono solo pochi dettagli, insignificanti al
cospetto degli altri, ma fondamentali per il soggetto che prende la
parola. Crede che l’esperienza privata, circoscritta, possa in
qualche modo avere il respiro delle esperienze vissute, universali?
- A me pare che ogni vita
alla fine si risolva in poche cose, che si possono benissimo
riassumere in una o due frasi. Mentre la viviamo ci sembra di fare
chissà che, di fare chissà quali svolte, in realtà siamo come una
mela lanciata verso il muro, qualcosa che si sfracella.
L’uomo delle
Cartoline è quasi sempre anonimo; sembra voler parlare a nome
di tutti. Ma quest’uomo è anche solo davanti alla morte. Si muore
soli, ci dicono le voci, eppure l’ultimo frammento smentisce
quest’ottica individuale perché, per quanto l’esperienza della
morte sia del singolo, essa è un fenomeno che riguarda tutti. Crede
che narrando la morte si possa dare una risposta a questa
contraddizione?
- Credo che la morte vada
narrata come vada narrata la vita. Escludere la morte dal circolo
delle parole non la mette fuori dalla nostra testa, questo mi pare
chiaro. E allora che l’ossessione diventi pubblica, condivisa e
quindi anche più tollerabile.
In un frammento il
soggetto dichiara di essere morto “quando ancora si moriva
veramente”. Pensa che oggi la morte sia divenuto un fenomeno del
tutto privato o pensa che possa avere ancora una funzione sociale?
- In un certo senso il
mondo muore quando si smette di morire, questo penso, ma è una frase
un po’ misteriosa, mi rendo conto.
La religione è un
altro grande tema soggiacente alle Cartoline.
Solo in pochi casi si esprime direttamente il disagio dell’uomo
davanti al divino. Il dio dei suoi testi è un dio indifferente, che
non salva. La fede sembra non essere più sufficiente.
- Io mi considero un
fervente disoccupato, nel senso che ho un fervore religioso a cui non
corrispondono chiese credibili. Sono come un amante non corrisposto.
Qui comunque la faccenda diventa veramente complicata, la possibilità
di dire sciocchezze è altissima e anche di dire frasi buone per
tutti gli usi. Una cosa mi pare certa, almeno in occidente: Dio non
salva ma neppure orienta al bene la vita delle persone.
Le ideologie e le
filosofie moderne, come ci ricorda Walter Benjamin, sono volte al
culto dell’edonismo e dell’eterno presente, e hanno eliminato il
pensiero della morte dal mondo dei vivi, esorcizzando la morte e
confinandola al territorio dell’esperienza individuale. Il suo
libro ci dice che narrare la morte è possibile, ma solo attraverso i
frammenti, mai per intero.
- Per me è stata una
necessità, avevo bisogno di scrivere queste cose e le ho scritte. Ho
avuto degli attacchi di panico e ho pensato che dopo questi attacchi
potevo almeno ricavare delle righe di buona scrittura. La questione
potrebbe essere anche tutta qui. Certo che la morte si può narrare
solo per frammenti immaginativi. Se fosse possibile narrarla come si
narra una gita non sarebbe la morte ma una gita. Delle ideologie e
delle filosofie moderne non penso niente di buono, sono l’espressione
di un’umanità sfinita, spiritualmente rinsecchita, priva di
slanci. Un’umanità del genere non ha eliminato il pensiero della
morte dal mondo dei vivi, altrimenti che senso avrebbe tutto questo
consumo di psicofarmaci? Un’umanità del genere ha eliminato se
stessa dal mondo dei vivi. Infatti la vita nel senso più nobile
della parola appartiene ai cani, alle volpi, ai pesci, alle piante.
Noi siamo dei morenti che pur di non morire facciamo morire tutto il
resto. Ma l’impresa dell’eterno presente, come ogni impresa
umana, è di per sé perdente. E dunque andiamo avanti, con la vita e
con la morte, alla fine in un certo senso è tutta apparenza.
Cerchiamo ancora, non possiamo fare altro.
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